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2 TERAPIA INTRA-EXTRACORPOREA NEI TRATTAMENTI DELLE INTOSSICAZIONI (4^ parte)

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Carlo Locatelli
Direttore del Centro di Informazione Tossicologica Centro antiveleni di Pavia - Fondazione Scientifica "Salvatore Maugeri Clinica del Lavoro e della Riabilitazione"- Pavia
e-mail:
cnit@fsm.it

vedi : 1^ parte , 2^ parte , 3^ parte

1. Introduzione
2. Parametri che condizionano l'indicazione a una tecnica di depurazione per il trattamento delle intossicazioni acute. Parametri farmaco-tossicologici
Parametri clinici
Disponibilità delle strutture
3. Metodi speciali di depurazione dai tossici Diuresi forzata
Dialisi
Emoperfusione
Plasmaferesi
Exsanguinotrasfusione
4. Valutazione dell'efficacia
5. Conclusioni
6. Bibliografia

EMOPERFUSIONE

Il potere adsorbente del carbone attivato è noto da oltre un secolo e viene correntemente sfruttato in tossicologia per bloccare o rallentare l'assorbimento gastrointestinale dei tossici (3). L'adsorbimento su carbone di tossici esogeni o endogeni direttamente dal sangue (emoperfusione - EP) è invece un metodo di concezione relativamente recente ed ancora oggi in fase di studio (14). In questi 25 anni si sono accumulate numerose ricerche sperimentali e cliniche che hanno portato sia alla disponibilità di materiali adsorbenti più efficaci e meno pericolosi del carbone libero, sia alla dimostrazione che la maggior parte delle sostanze responsabili di avvelenamenti gravi può essere adsorbita su colonne di carbone o resina (15, 16).

Ciò nonostante, le applicazioni cliniche del metodo sono limitate per diverse ragioni: (3)

Necessità di accesso vascolare artero-venoso o veno-venoso centrale con circolo extracorporeo Costo elevato delle cartucce adsorbenti
Necessità di tecnici addestrati Rischi legati al materiale adsorbente
Necessità di laboratorio tossicologico ad alto livello Rischi legati alla necessità di eparinizzazione
all'efficacia possibile in termini di clearance, non corrisponde, per molte delle sostanze adsorbibili, una pari efficacia nel ridurre apprezzabilmente il carico tossico totale dell'organismo assenza di studi clinici controllati.

Nell' EP il sangue, reso incoagulabile, viene fatto passare, in circolo extracorporeo, attraverso una colonna contenente particelle adsorbenti (carbone attivato o resina non ionica); il tossico viene eliminato per adesione a queste particelle (1, 8, 9). La tecnica per il circolo extracorporeo è la stessa utilizzata per l'ED: poiché nel trattamento delle intossicazioni acute sono spesso sufficienti poche (1-2) sedute di EP, è possibile evitare il sacrificio dei vasi radiali secondo le seguenti alternative:

  1. due aghi-cannula, inseriti per via percutanea, l'uno in arteria brachiale (via di afflusso al circuito extracorporeo), l'altro in vena centrale (via di ritorno al paziente) (2)
  2. due cateteri inseriti, attraverso la vena femorale, nella cava inferiore, uno per l'afflusso, l'altro per il ritorno, a distanza di 4 cm l'uno dall'altro; ciò consente una trascurabile ricircolazione del sangue perfuso (2)
  3. un catetere in vena cava (afflusso), un catetere in succlavia o in vena periferica (via di ritorno).
  4. catetere a 2 lumi in vena centrale (es. v.femorale)

Le caratteristiche del materiale adsorbente contenuto nella cartuccia sono molto importanti nel determinare l'efficacia e i rischi del metodo. I moderni dispositivi di carbone attivato non contengono più carbone libero e non rivestito; le particelle sono state fissate con diversi artifici, rivestite o intrappolate in una membrana da dialisi (fixed-bed system, fiber-entrapped system, capillary system), rivestite con vari materiali [acetato di cellulosa (Adsorba 300 C), idrogel acrilico (Hemacol), nitrato di cellulosa (Hemosorba), nitrato di cellulosa con albumina adsorbita (ACAC)]. La capacità di adsorbimento di questi dispositivi dipende essenzialmente dallo spessore della membrana di rivestimento: la clearance massima dei diversi sistemi per i tossici meglio adsorbibili mediante EP (barbiturici, metaqualone, glutetimide, salicilici) è nettamente superiore con i sistemi ACAC e Hemosorba. Tutti i sistemi di rivestimento assicurano una soddisfacente protezione del patrimonio piastrinico, che dopo ogni seduta presenta cadute temporanee non superiori al 30%, e annullano il pericolo di microemboli da penetrazione in circolo delle particelle di carbone (1, 3, 17).

In alternativa ai vari tipi di cartucce a carbone sono oggi disponibili le colonne di resina macroreticolare, non rivestita e non ionica, costituita da un copolimero di polistirene e divinilbenzene (Amberlite XAD-4) ad elevata superficie adsorbente per grammo (750 m2/g). L'Amberlite XAD-4 mostra, rispetto al carbone, una più elevata capacità di adsorbimento specie per le sostanze non polari, liposolubili, purché la sostanza da adsorbire abbia dimensioni molecolari abbastanza piccole da penetrare nei pori, il cui diametro medio è di 50 A° (2, 3, 18).

Le colonne che vengono in genere utilizzate contengono da 100 a 300 grammi di carbone attivato o 650 grammi (peso netto) di resina polistirenica: esse devono essere biocompatibili e avere una grande capacità di legame tale da minimizzare la progressiva decrescita di clearance. Il sangue viene pompato nella cartuccia in direzione antigravitaria, con flussi da 100 a 300 mL/min e portato così a contatto diretto con la superficie adsorbente; con i flussi maggiori si ottengono le clearances migliori. Le sostanze tossiche vengono rimosse dal circolo in quanto penetrano nei pori delle particelle di carbone o del reticolo di resina e qui vengono adsorbite (1, 2). La perfusione viene mantenuta per periodi variabili fra 2 e 8 ore (in genere 3-4 per ogni colonna) poichè l'efficacia adsorbente della maggior parte delle cartucce disponibili in commercio è di circa 4-6 ore. Infatti le colonne adsorbenti per EP sono caratterizzate da una progressiva diminuzione della clearance dei soluti determinata dalla saturazione competitiva dei siti di legame sia da parte di soluti esogeni (farmaci, veleni) che di vari metaboliti endogeni e sostanze che possono essere normalmente o abnormemente presenti nel plasma (frammenti cellulari, proteine plasmatiche). Tale diminuzione della clearance della colonna nel tempo è più rilevante con il carbone attivato (maggiore spettro di adsobimento) che non con la più specifica resina XAD-4 (2, 10). Oltre a ciò, anche reazioni di bioincompatibilità fra sangue perfuso e sostanza adsorbente possono diminuire la disponibilità dei siti di legame per adesione alla superficie adsorbente di piastrine o depositi di fibrina, o per coagulazione con limitata canalizzazione del flusso ematico attraverso il letto adsorbente. Questa progressiva saturazione delle colonne adsorbenti da parte dei soluti implica anche che il valore di una singola clearance media del tossico non possa essere valutato come rappresentativo dell'efficienza del sistema; per questa ragione le clearances della colonna devono essere sempre riportate con riferimento al tempo (2).

La durata del trattamento dipende dalla risposta clinica del soggetto; in alcuni casi si può osservare un miglioramento evidente (ripresa del respiro spontaneo, stabilizzazione del circolo, alleggerimento del coma) già durante le prime 1-4 ore di perfusione. Prima e dopo l'EP deve essere effettuato un controllo emato-biochimico completo (emoglobina, conta e formula dei leucociti, conta delle piastrine, glicemia, elettrolitemia, azotemia e creatininemia, calcemia, protidemia totale, colesterolo e bilirubina, enzimi epatici), mentre i valori di emoglobina e la conta delle piastrine devono essere controllati a brevi intervalli di tempo durante tutto il trattamento.

L'efficacia dell'EP si basa sul processo fisico dell'adsorbimento del tossico, e nella maggior parte dei casi la rimozione della sostanza in termini di clearance è molto superiore a quella ottenibile per ED, DP, DF. La capacità di rimuovere sostanze con pm superiore a 40.000 daltons, sostanze liposolubili, e, in parte, anche quelle legate in alta percentuale alle proteine (fattori che limitano la depurazione per ED), costituisce la caratteristica principale dell'EP e ne spiega la superiorità e i vantaggi clinici nei confronti dell'ED (Tabella 12) (9, 10, 13). Il Vad del tossico sembra essere uno dei principali fattori in grado di limitare l'efficacia della tecnica: l'EP non risulta efficace nelle intossicazioni da sostanze con Vad superiore a 400 L (19). Il carbone attivato rimuove sia sostanze polari che non polari; le sostanze polari (es. salicilici, metotrexate, paraquat, metaboliti solubili in acqua) vengono rimosse più efficacemente dal carbone attivato che dalla resina XAD-4; la resina XAD-4, invece, adsorbe e rimuove in misura maggiore di quanto non faccia il carbone attivato i composti non polari, liposolubili, fra i quali molte categorie di tossici (es. barbiturici, glutetimide, metaqualone, meprobamato, antidepressivi triciclici, etclorvinolo, digossina, teofillina, imipramina, parathyon, paraoxon, dimetoato, e vari analgesici) (1, 2, 3, 10, 18).

Tabella 12. Fattori che condizionano l'efficacia dell'emoperfusione

Caratteristiche del tossico
emivita legame tessutale
concentrazione plasmatica clearance renale
volume apparente di distribuzione clearance corporea totale
grado di ionizzazione (solubilità in acqua/liposolubilità)*
velocità di ridistribuzione tessuti/plasma (legame proteico) *
Caratteristiche del sistema di emoperfusione
area della superficie flusso ematico
materiale adsorbente e sua affinità per il tossico deposizione di frammenti cellulari e proteine plasmatiche
Miscellanea
effetto dell'emoperfusione sull'eliminazione renale ed epatica del tossico

* = l'importanza di questi fattori è molto relativa, e condizionata in special modo dal tipo di adsorbente utilizzato (modificato da 1, 2, 8, 9, 10)

La letteratura biomedica è ricca di segnalazioni di "miglioramenti clinici drammatici" dopo EP in casi di avvelenamento da sostanze che in teoria hanno caratteristiche farmacocinetiche nettamente sfavorevoli per questo metodo e di cui nei casi concreti erano stati rimossi quantitativi non superiori a una singola dose terapeutica (es. 20, 21). Numerosi studi clinici tuttavia hanno dimostrato che l'EP rimuove in maniera rilevante alcuni tossici, tanto da influenzare favorevolmente l'evoluzione clinica dell'intossicazione (10). Le indicazioni all'EP dipendono strettamente, in ogni caso, dai criteri clinico-tossicologici validi anche per l'ED (Tabella 3). Le sostanze bene adsorbite sono molte, e per alcune esistono indicazioni cliniche accertate, mentre per altre sono ancora discussione (Tabella 13). Fra le indicazioni cliniche accertate, alcune meritano particolare attenzione. L'intossicazione da paraquat è gravata da elevata mortalità; è stato identificato un campo di concentrazioni ematiche nell'ambito del quale l'EP è l'unico mezzo che può valere a ridurre l'altissima percentuale di morti immediate e a distanza (22) purché iniziata precocemente (entro le prime 10 ore) e con trattamenti molto ravvicinati (quasi un trattamento continuativo) per periodi di tempo piuttosto lunghi (3 settimane) (11, 13, 22, 23, 24). Nel caso degli ipnotici, barbiturici e non, l'indicazione all'EP viene posta in base a criteri clinici e tossicologici che si riscontrano in meno dell'1% dei casi (1, 3, 16, 25, 26).

Tabella 13. Emoperfusione (EP): sostanze adsorbibili su colonne di carbone o resina con clearance dal sangue superiore ad altri metodi di depurazione.

Indicazioni cliniche accertate
N-acetilprocainamide epinefrina
amfetamine etclorvinolo (*)
aminofillina fenotiazine
antipirina clorpromazina
barbiturici (*) (r) promazina
- amobarbital - prometazina
- barbital fenilbutazone
- butabarbital fenoli
- chinalbital glutetimide
- esobarbital gentamicina
- fenobarbital insetticidi organoclorati
- pentobarbital meprobamato
- secobarbital metaqualone (*)
bifenilipoliclorurati metilsalicilato
canfora (r) metiprilone (*)
cloralio idrato metotrexate
clindamicina monoureidi (°)
demeton-S-sulfossido - carbromal
destropropossifene norepinefrina
difenilidantoina paraquat (r)
dimetoato primidone
disopiramide procainamide
dopamina salicilici
doxorubicina teofillina (r)
Indicazioni cliniche in discussione
o dati insufficienti
amanitina e falloidina (r)
antidepressivi triciclici
calcio
chinidina
chinina
cloramfenicolo
difenidramina
digitossina
digossina
diquat
fenciclidina
fosforo
metosuccimide
metotrexate
ossido di etilene
paraquat (r)
tallio
tetracloruro di carbonio (c)
tiopentone
tricloroetanolo (c)
(*) = indicazioni cliniche pricipali
(r) = resina (Amberlite XAD-4) > carbone
(c) = carbone > resina
(°) = ED associata ad EP per eliminazione dello ione bromuro

Fra le indicazioni in discussione, invece, le maggiori controversie riguardano i digitalici e gli antidepressivi triciclici, farmaci che per l'elevato Vad non vengono rimossi in grandi quantità dall'EP. Le risposte cliniche favorevoli ottenute in alcuni casi di intossicazione suggeriscono che l'EP su Amberlite XAD-4 può essere utile nell'intossicazione grave da digossina qualora risulti impossibile l'uso dei frammenti anticorpali e se tutte le altre manovre terapeutiche si sono rivelate inefficaci (10). Anche gli antidepressivi triciclici, pur essendo molto ben adsorbibili dall'Amberlite XAD-4, non possono essere rimossi in quantità apprezzabili anche con un'EP prolungata a causa del Vad molto elevato (nel plasma non è mai presente più dello 0,2-0,5% del totale). I risultati terapeutici favorevoli descritti da diversi clinici possono essere spiegati in base al fatto che gli effetti tossici più pericolosi di queste sostanze sono correlati non tanto con il carico tossico totale, quanto proprio con la piccola frazione presente nel plasma (27, 28). Pertanto l'EP può risultare efficace nel correggere le gravi aritmie cardiache riportando e mantenendo la concentrazione plasmatica al di sotto di un livello critico (20). Non sembra invece sostenibile l'ipotesi che i risultati clinici osservati in contrasto con le premesse di farmacocinetica siano dovuti all'eliminazione di metaboliti di queste sostanze (10, 29). Quindi, anche in queste intossicazioni, l'EP può essere utilizzata qualora la terapia intensiva sia risultata inefficace (10).

Altre sostanze risultano adsorbibili su colonne di carbone o di resina con clearance dal sangue superiore ad altri metodi di depurazione (Tabella 14): per alcune di queste, tuttavia, l'indicazione al trattamento depurativo con EP rimane solo teorico, mentre per altre esistono antidoti efficaci che costituiscono il trattamento di scelta.

Tabella 14. Emoperfusione (EP): sostanze adsorbibili su colonne di carbone o resina con clearance dal sangue superiore ad altri metodi di depurazione.

Indicazioni solo teoriche
acido ossalico e ossalati idrocarburi alogenati
ampicillina mercurio
eritromicina potassio (r)
stricnina  
Sostanze per le qualie sistono antidoti efficaci
Sostanza Antidoto
antidepressivi triciclici fisostigmina
diazepam flumazenil
eparina solfato di protamina
isoniazide piridossina
mercurio penicillamina, BAL
paracetamolo N-acetilcisteina
parathion, metilparathion, paraoxon atropina e ossime
(r) = resina (Amberlite XAD-4) > carbone

L'efficacia del trattamento mediante EP viene valutata in primo luogo in base alle variazioni dei segni clinici (respiro, circolo, livello di insufficienza cerebrale, diuresi, temperatura) e in secondo luogo determinando a brevi intervalli le clearances ottenute e quindi la quantità totale di tossico rimossa. Dal punto di vista clinico, infatti, l'EP è in grado di diminuire drammaticamente la durata del coma, con miglioramento della depressione cardiocircolatoria e respiratoria nei pazienti affetti da grave intossicazione da farmaci ipnotico-sedativi o antidepressivi. In genere dopo 1 ora di trattamento la pressione arteriosa, la frequenza respiratoria e la reattività agli stimoli dolorosi del paziente ritornano alla norma; l'EP viene sospesa quando, dopo poche ore, il paziente risponde ai comandi verbali. La valutazione della concentrazione ematica del tossico durante EP, invece, è poco significativa e non è strettamente correlata con il miglioramento clinico. Essa infatti rappresenta un equilibrio dinamico fra la quantità rilasciata dai compartimenti corporei, i cambiamenti metabolici, l'escrezione e la rimozione da parte della colonna; inoltre solo la concentrazione intracellulare del tossico nel sistema nervoso centrale è correlata con il livello clinico di coma, e spesso la concentrazione del tossico determinata a livello plasmatico non riflette metaboliti fisiologicamente importanti (es: formazione di 4-idrossiglutetimide da glutetimide) (2).

Quando fattori non correlati al tossico (es: anossia) partecipano nel determinismo della depressione del sistema nervoso centrale, la risposta clinica all'EP risulta inferiore a quanto atteso (2).

Il trattamento mediante EP può determinare numerosi effetti collaterali e complicazioni (1, 3, 4, 8, 10):

diminuzione del livello di Hb, del numero di leucociti (10%) e piastrine (30-40%) durante il trattamento, con ritorno spontaneo ai valori preperfusione entro poche ore o 1-2 giorni dopo la fine del trattamento: nel caso in cui l'EP debba essere ripetuta o siano in atto manifestazioni emorragiche, si impone la trasfusione di piastrine. L'abbassamento delle piastrine, determinato sia dall'adsorbimento che dalla diluizione dovuta al priming, risulta maggiore con la resina
manifestazioni emorragiche soprattutto a livello del tubo digerente o di zone traumatizzate; queste sono legate più all'eparinizzazione che alla caduta delle piastrine
embolie di carbone (oggi eccezionali con le moderne cartucce di carbone fissato o di resina, protette da filtri adeguati) o di aria
ipotensione (rimozione di catecolamine endogene ed esogene?): questa è in genere di grado lieve se viene effettuato un buon priming di spazio morto, circuiti e cartucce, mediante sangue o colloidi; i vasopressori vanno somministrati distalmente alla colonna. Nei soggetti gravemente ipotesi o in shock può essere difficile avviare e mantenere una portata valida nel circolo extracorporeo; inoltre, quando il metodo è efficace nel portare a rapido alleggerimento di un coma molto profondo (es: coma da barbiturici), è frequente osservare una vasocostrizione spiccata che può rendere difficile il mantenimento regolare del circolo extracorporeo con la portata iniziale
iperpiressia e brividi (senza sepsi)
riduzione di glicemia, calcemia e dei livelli di urati
fenomeni di rebound con elevazione del livello plasmatico del tossico per ridistribuzione del composto dai compartimenti profondi; ciò può rendere necessario ripetere il trattamento
ipotermia (1-2°C) specie nei bambini (raffreddamento del sangue nei circuiti)
rimozione, contemporanea al trattamento, di farmaci somministrati con intenti terapeutici.

In base a quanto esposto, appare evidente che la decisione clinica di iniziare un trattamento mediante EP deve soppesare il beneficio di accelerare la clearance del tossico contro i rischi della tecnica. Il trattamento è controindicato quando risultano sufficienti le terapie rianimatorie di supporto, in caso di shock cardiogeno e di coagulopatia o controindicazioni all'eparinizzazione (es: ulcera gastrica) (8).

L'EP può essere attuata anche in bambini di età superiore ai 6 mesi utilizzando cartucce più piccole (volume di priming ridotto a 100 mL) ed effettuando comunque il priming del circuito extracorporeo con sangue intero; in ogni caso il volume delle colonne e del circuito non dovrebbe superare il 10% del volume ematico totale del piccolo paziente (25, 30).

In conclusione, l'EP, almeno allo stato attuale, ha indicazioni reali in tossicologia clinica molto limitate, sì che al più in un ospedale medio essa potrebbe essere richiesta per non più di uno-due casi all'anno. Per questa frequenza d'uso, di gran lunga inferiore a quella della DF e della DP, è sufficiente che l'EP sia disponibile in uno-due centri per regione, mentre la DF e la DP possono e devono essere applicabili in tutti i reparti di rianimazione che accolgono intossicati acuti. L'attrezzatura e le capacità tecnico-organizzative necessarie per l'EP sono simili a quelle dell'ED. Sembra logico quindi, anche da un punto di vista economico, circoscrivere la disponibilità a uno o più centri di emodialisi regionali, scelti fra quelli abbinati topograficamente a un reparto di rianimazione e dislocati in modo da poter essere rapidamente raggiungibili da tutti gli altri ospedali della regione. Sono inoltre necessari studi clinici controllati su casistiche più vaste per valutare il valore terapeutico dell'EP e stabilire così le indicazioni della tecnica nel trattamento di intossicazioni gravi. Ciò potrebbe essere fatto correlando in modo obiettivo la riduzione dei tempi di coma e la rapida ripresa della funzione respiratoria e circolatoria con la morbilità e mortalità; questi studi comparativi dovrebbero comunque utilizzare le colonne adsorbenti più efficaci, come quelle di carbone rivestito da membrane più sottili (Hemosorba o ACAC) e la resina Amberlite XAD-4 (2).

Tabella 15. Emoperfusione (EP). Sostanze per le quali l'emoperfusione è inefficace o inferiore ad altri metodi

Sostanza Metodi più efficaci
acido borico DF, DP, ED
alcoo etilico (*) DP, ED
bromuri DF, DP, ED
chinidina DF(?)(°°)
chinina DF acida, DP o ED (°)
clordiazepossido ED (?)(°°)
clorochina ED (°)
difenilidantoina ED, DP
(*) = adsorbibile DF = diuresi forzata
(°) = se insufficienza renale DP = dialisi peritoneale
(°°) = dati non sufficienti ED = emodialisi

PLASMAFERESI

La plasmaferesi (P), intesa in campo tossicologico come "plasma-exchange" si fonda sul principio di uno scambio plasmatico, vale a dire della sostituzione del plasma contenente una sostanza dannosa per l'organismo con altri liquidi naturali o artificiali, fra i quali di prima scelta il plasma intero fresco congelato o, in subordine, soluzioni di albumina o elettrolitiche. I globuli rossi del paziente vengono separati dal plasma mediante un separatore cellulare a centrifuga (o mediante filtrazione) e reinfusi con il liquido di scambio (2, 8).

Il metodo, gravato da rischi in parte sovrapponibili a quelli dell'EP (accesso vascolare artero-venoso, circolo extracorporeo, uso di anticoagulanti, ecc.), richiede un apparecchio speciale di costo elevato, tecnici addestrati, la collaborazione di un centro trasfusionale e di un laboratorio; esso può quindi essere attuato solo in sedi specificamente attrezzate. La quantità totale di tossico che può esser rimossa mediante P dipende dalla concentrazione plasmatica e dal volume di plasma rimosso (1, 2). Il trattamento (scambio di 3-4 litri in un periodo di 3-4 ore) può essere ripetuto più volte.

La P ha trovato negli ultimi anni utile ed efficace impiego in diverse malattie caratterizzate da fattori patogeni o da carenze a livello plasmatico. Nella patologia da tossici esogeni il metodo sarebbe in teoria indicato per allontanare dall'organismo i veleni che circolano nel sangue legati in alta proporzione alle proteine plasmatiche, vale a dire proprio quelli per i quali sono scarsamente efficaci gli altri metodi di depurazione fin qui descritti (DF, DP, ED, EP) (2, 8). In pratica, però, allo stato attuale, non vi sono indicazioni accertate per questo metodo nelle intossicazioni acute. L'unica indicazione accertata della P in tossicologia è data dai veleni emolitici (clorati, acido acetico) (3, 32), benché la tecnica non rimuova il veleno ma i prodotti dell'emolisi. In caso di emolisi massiva la tecnica è indicata per diminuire rapidamente il livello plasmatico di emoglobina circolante e i frammenti di globuli rossi prima che si instauri un blocco renale acuto; in caso di blocco già in atto la tecnica è ugualmente indicata, unitamente all'ED o alla DP. La P può essere efficace anche in alcuni casi di intossicazione da sostanze fortemente legate alle proteine non rimosse mediante ED (es: acido cromico e cromati) (1, 2). La P è stata sperimentata anche in numerose intossicazioni da Amanita phalloides, sulla base della nozione, risultata poi errata, che l'amanitina fosse legata in larga misura alle proteine plasmatiche prima della sua penetrazione nel fegato. In realtà ricerche recenti hanno dimostrato che la quantità di amanitina che può essere sottratta con P, anche con sostituzione di alte quantità di plasma, risulta tossicologicamente irrilevante e di gran lunga inferiore (1/20 o meno) a quella che può essere eliminata mediante DF e DP (31). Nelle intossicazioni da digitossina, sostanza in gran parte legata alle proteine plasmatiche, la P potrebbe teoricamente consentire di ottenere una notevole diminuzione del livello plasmatico di questa sostanza con attenuazione della sintomatologia soggettiva; nei soggetti così trattati, tuttavia, gli effetti tossici a livello cardiaco persistono per circa 70 ore dopo l'impiego della tecnica. Non vi sono dati, invece, né sperimentali né clinici, sulla possibile efficacia di questo metodo in altre intossicazioni da sostanze legate in alta proporzione alle proteine plasmatiche come gli antidepressivi triciclici, il propranololo, il warfarin, la fenitoina, le benzodiazepine, le fenotiazine, la tossina botulinica, ecc. (3). La P può invece essere utile nelle intossicazioni che determinano insufficienza epatica fulminante con accumulo di grande quantità di metaboliti tossici nel sangue; la metodica è efficace nel rimuovere i metaboliti legati alle proteine, come acidi biliari e bilirubina.

Appare facile prevedere quindi che questo metodo, di impegno tecnico, costo e rischi ancora superiori a quelli dell'EP, non troverà nel futuro altre indicazioni in tossicologia clinica tali da richiedere una disponibilità superiore all'attuale, vale a dire in pochi centri specializzati per regione.

EXSANGUINOTRASFUSIONE

L'exsanguinotrasfusione (ET), ben nota per il trattamento della malattia emolitica del neonato, consiste nello scambio dell'intera massa ematica del paziente o di multipli di essa con sangue di donatori. Il metodo raccomandato è quello isovolemico (scambio di sangue a flusso continuo, senza di variazioni di volemia) che, pur richiedendo uno shunt artero-venoso o veno-venoso profondo, non richiede circolo extracorporeo né apparecchiature complesse come l'EP o la P. Per sostituire il 95% del volume ematico di un paziente è necessario infonderne un quantitativo pari al 300%.

L'indicazione principale, o forse esclusiva, dell'ET è data dalle intossicazioni con gravi alterazioni dell'emoglobina: sulfonmetemoglobinemie e metemoglobinemie con tassi di metemoglobina superiori al 60%. In quest'ultimo caso il trattamento con l'antidoto specifico, il blu di metilene, può essere insufficiente a impedire gravi danni anossici cerebrali; una rapida ET può invece avere efficacia risolutiva (3, 8). L'ET è utile anche nelle intossicazioni con grave emolisi, con o senza alterazioni dell'emoglobina (clorati, acido acetico) (1, 2); non si hanno tuttavia dati sulla potenziale utilità di questo metodo in confronto alla P e nelle intossicazioni da acido solfidrico. Nelle intossicazioni gravi da CO il metodo è da considerarsi in alternativa all'ossigenoterapia iperbarica: elemento principale nella scelta fra le due terapie è il fattore tempo, cioè si deve utilizzare il trattamento che può essere messo in opera per primo.

L'ET è una tecnica depurativa particolarmente utile e molto utilizzata nei pazienti neonati e lattanti (necessità di quantità di sangue relativamente piccola), quando le tecniche che richiedono circolazione extracorporea (ED, EP) diventano particolarmente impegnative o rischiose oppure non sono disponibili (2). Oggi sono invece molto ridotte le indicazioni dell'ET nelle necrosi epatiche tossiche massive (es: Amanita phalloides, tetracloruro di carbonio), in quanto le tossine endogene da necrosi possono essere meglio rimosse con metodi dialitici, mentre le alterazioni della coagulazione possono essere corrette in modo più rapido e mirato con l'apporto dei fattori specifici carenti.

 

VALUTAZIONE DELL'EFFICACIA E DELL'UTILITÀ DELLE TECNICHE DI DEPURAZIONE IN TOSSICOLOGIA CLINICA: CRITERI E PROBLEMATICHE.

I risultati riportati in letteratura consentono molto spesso valutazioni solo parziali sull'efficacia delle tecniche di depurazione, specialmente per ciò che riguarda i metodi invasivi. Molti trattamenti di depurazione da tossici vengono ancora oggi effettuati senza valide indicazioni clinico-tossicologiche, con costi economici rilevanti e rischio di possibili complicazioni a carico dei pazienti. La valutazione critica dell'efficacia e dell'utilità della tecnica di depurazione per ogni singolo paziente e tossico permette sia di prevedere la "quantità" di effetto atteso da un trattamento in termini di beneficio clinico, sia di valutare in modo corretto, a posteriori, ciò che altrimenti rimarrebbe esclusivamente un'impressione clinica. La valutazione dei risultati ottenuti con l'applicazione di tecniche di depurazione è di due tipi, che necessariamente si compendiano vicendevolmente: clinica e biologica.

VALUTAZIONE CLINICA

Una corretta valutazione clinica del miglioramento ottenuto dopo applicazione di una tecnica di depurazione (specialmente extra-renale) è spesso estremamente difficile. Le "impressioni di efficacia" che frequentemente si riscontrano nella letteratura a favore dell'una o dell'altra tecnica si basano in genere sul miglioramento emodinamico e/o dello stato di coscienza. Tuttavia questi miglioramenti sono incostanti, ottenibili anche con le sole terapie sintomatiche di rianimazione e spesso si rivelano effimeri per la comparsa di rebound; quest'ultima situazione può essere determinata da prolungato assorbimento o da ripresa del transito e quindi dell'assorbimento intestinale del tossico, ma anche da riequilibrazione secondaria fra i compartimenti intra- ed extracellulare dell'organismo.

VALUTAZIONE BIOLOGICA

La valutazione biologica consiste nel valutare con precisione la quantità percentuale di tossico estratto dall'organismo. Una tecnica di depurazione viene considerata efficace quando estrae più del 15% del tossico ingerito. Per poter effettuare questa valutazione è necessario conoscere la dose ingerita e misurare la concentrazione estratta direttamente sul sistema di scambio (bagno di dialisi, colonne di carbone o di resina). Questi dati possono derivare solo da studi in vivo, anche se la difficoltà nel raccogliere un'anamnesi accurata (quantità ingerita) e nell'ottenere determinazioni di laboratorio veloci e precise rendono difficoltose queste valutazioni. D'altra parte è assolutamente inadeguato basare un trattamento depurativo sui dati di clearance del circuito extra-renale, oppure sulle differenze delle concentrazioni plasmatiche fra l'inizio e la fine della depurazione. Infatti i valori di clearances dei tossici desunti dalla letteratura biomedica si riferiscono in genere a valutazioni in vitro: essi sono solamente una misura dell'adsorbimento (EP) o della ritenzione (ED) del tossico, e risultano quasi sempre differenti (spesso inferiori) a quelli ottenibili in vivo (4, 33). La maggior parte delle sperimentazioni in vitro si riferisce a soluzioni acquose di farmaci: questi studi non prendono in considerazione alcuni fattori molto importanti per la valutazione dei metodi di depurazione quali il legame proteico, il Vad, la liposolubilità e il trasferimento intercompartimentale (tessuti/plasma) dei tossici, sovrastimando in questo modo l'effetto della tecnica (1). Per il calcolo delle clearances, inoltre, viene utilizzato il flusso ematico totale, assumendo che il sangue intero rappresenti il volume dal quale il soluto diffonde nel dialisato; poiché alcuni tossici vengono trasportati e rilasciati anche dagli eritrociti, la determinazione della concentrazione plasmatica non risulta rappresentativa della concentrazione ematica totale e può introdurre considerevoli errori nel calcolo delle clearances. La concentrazione plasmatica, inoltre, non rappresenta un indice affidabile della distribuzione dei tossici nei compartimenti corporei, in quanto soggetta a continue variazioni determinate dalle importanti differenze fra concentrazione intra- ed extracellulare, dall'assorbimento digestivo prolungato di alcuni veleni (48 ore e più), dal valore della contemporanea eliminazione urinaria e del contemporaneo metabolismo epatico.

I valori di clearance ottenibili con i vari metodi devono poi essere comparati con i valori di clearance corporea totale (senza applicazioni di tecniche depurative); questa può risultare molto diminuita come conseguenza della diminuzione dei livelli plasmatici di tossico durante ED ed EP specie per le sostanze ad elevato metabolismo epatico. Nel caso di intossicazione da glutetimide e pentobarbital, ad esempio, la depurazione extra-renale con il metodo più efficace (EP su resina) rimuove rispettivamente l'8 e il 17% dei due farmaci ingeriti, mentre ne diminuisce la normale clearance metabolica al 30% e 19% della norma (26).

In sintesi, per una valutazione sia di tipo clinico che biologico sono necessarie tanto la conoscenza corretta del metabolismo del tossico quanto quella della capacità di depurazione fisiologica (renale, epatica, respiratoria, digestiva) dell'intossicato.

I rapporti fra clearance ed efficacia depurativa, invece, possono essere schematizzati come segue:

per le sostanze che vengono eliminate prevalentemente attraverso vie metaboliche ed escretorie diverse da quella renale, le tecniche dialitiche possono consentire la rimozione solo di una piccolissima parte del tossico, anche se le clearances risultano elevate;

per un tossico a eliminazione prevalentemente renale, basse clearances con metodi di depurazione extra-renale possono essere comunque efficaci se risultano superiori alla clearance fisiologica;

per i tossici a distribuzione prevalentemente intracellulare (quasi tutti i tossici lesionali) sono in genere inefficaci anche clearances elevate;

clearances piccole o una piccola percentuale di estrazione possono essere utili in caso di insufficienza renale, mentre non lo sono affatto nel paziente con funzionalità renale integra.

 

CONCLUSIONI

Scopo delle tecniche di depurazione (DF, DP, ED, EP, ecc.) è quello di aumentare significativamente l'eliminazione del tossico rispetto ai normali meccanismi biologici.

L'uso di queste metodiche, tuttavia, è causa di considerevoli controversie fra i tossicologi clinici; così, ad esempio, secondo alcuni Autori non è dimostrato in modo conclusivo che la DF sia in grado di diminuire la durata del coma o la mortalità totale nell'intossicazione grave da barbiturici (34). Per ogni tecnica, tuttavia, vi sono indicazioni accertate, dubbie o solo teoriche. La DP e l'ED sono efficaci negli stessi casi della DF ma utilizzano metodiche più complesse; esse risultano particolarmente indicate in caso di intossicazioni gravi complicate da insufficienza renale. La DP ha costi e rischi inferiori all'ED e presenta il vantaggio della semplicità di installazione e sorveglianza; tuttavia essa risulta spesso solo di poco più efficace della DF e quindi non rappresenta il metodo di scelta qualora esista la possibilità di attuare una ED o una EP.

L'ED è preferibile alla DP e alla EP nelle intossicazioni da sostanze che causano gravi alterazioni metaboliche (es: metanolo, glicole etilenico, salicilici), ed è in genere più efficace della DP poiché ottiene le stesse clearances in tempi di gran lunga inferiori (1/3-1/6). L'EP risulta più efficace dell'ED a parità di rischi, di impegno tecnico e di costi, ed è in grado di ridurre la mortalità nelle intossicazioni da barbiturici, salicilici e paraquat; essa è da preferire all'ED in caso di intossicazioni da sostanze e farmaci liposolubili o fortemente legati alle proteine, ma non raggiunge che raramente il modesto criterio di estrazione del 15% del tossico ingerito (1).

Tutte queste metodiche non trovano alcuna indicazione quando: l'azione tossica è molto rapida (es. cianuro)
le caratteristiche farmaco- e tossicocinetiche non sono adeguate
il tossico è poco pericoloso (es. benzodiazepine)
esistono antidoti efficaci
la velocità di rimozione con tecniche depurative è considerevolmente inferiore a quella della normale eliminazione metabolica
la tecnica diminuisce notevolmente l'escrezione renale fisiologica o il metabolismo epatico del tossico, tanto da consentire una rimozione totale inferiore a quella ottenibile senza ausilio di trattamenti depurativi.

Data la bassa mortalità globale degli avvelenamenti, la rarità degli esiti con danni permanenti e la mancanza di ricerche cliniche su grandi serie controllate statisticamente, è difficile stabilire quale possa essere il contributo dato dai metodi speciali di depurazione nel diminuire morbidità e mortalità rispetto ai trattamenti conservativi di rianimazione, integrati, quando indicato, dall'uso di antidoti. La scelta e l'indicazione dei vari metodi nel caso singolo, quindi, non può essere posta né sulla base di considerazioni di farmacocinetica, né su quella di un'esperienza clinica vasta e documentata. Per un indirizzo equilibrato occorre integrare le prime con i risultati clinici finora pubblicati, valutati però criticamente, poiché solo in un gruppo selezionato di pazienti il beneficio che può derivare da questi trattamenti può superare i rischi ad essi associati.

 

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