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L'Emopurificazione in Terapia Intensiva

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L’EMOPURIFICAZIONE  IN TERAPIA INTENSIVA
G. Berlot, M. Viviani, A. Gullo
Istituto Polidisciplinare di Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgica.
Cattedra di Terapia Intensiva, Università degli Studi di Trieste

  1.  Introduzione

Fin dall’inizio della storia della medicina, la comparsa di determinati disturbi e sintomi è stata attribuita alla presenza di sostanze tossiche di origine esterna od interna all’organismo, da cui quindi dovevano essere rimosse allo scopo di favorire la guarigione. Anche se in epoche recenti tale visione è stata modificata, vi sono tuttavia dei quadri patologici determinati sia dall’introduzione di sostanze esogene (es. intossicazioni di varia natura) che dalla mancata eliminazione di sostanze endogene biologicamente attive il cui accumulo può essere considerato da una parte come semplice espressione dell'insufficienza di un organo (esempio la creatinina o l’urea nel caso di insufficienza renale)  e dall’altra come agente di per sè in grado di esercitare un’azione patogena (es. ammoniaca nel caso di insufficienza epatica). Le ultime decadi si sono caratterizzate, tra l’altro, per lo sviluppo di una serie di metodiche volte alla depurazione del sangue da sostanze appartenenti all’una o all’altra categoria; tale processo può considerarsi tuttora in corso. Ad esempio, nell’ambito della Terapia Intensiva (TI), i cui pazienti si caratterizzano per la particolare instabilità emodinamica, nuove procedure intrinsecamente meglio tollerate hanno sostituito l’emodialisi (ED), che rimane tuttora il cardine del trattamento nei pazienti affetti da insufficienza renale cronica (IRC).

Tali procedure vengono denominate ultrafiltrazione ed emofiltrazione e va precisato che, anche se nella letteratura corrente tali termini sono spesso utilizzati come sinonimi, vi è tra loro una profonda differenza concettuale ed operativa. Più precisamente, mentre il primo termine indica la rimozione di acqua e di soluti dal compartimento intravascolare ed interstiziale senza che abbia luogo una sostituzione totale dei fluidi rimossi, che, al limite può essere del tutto assente portando alla disidratazione guidata del paziente (in tale modalità la procedura viene anche denominata SCUF, da Slow Continuous UltraFiltration,  il secondo indica che il volume rimosso viene interamente sostituito con dei liquidi aventi le caratteristiche indicate dalla situazione clinica. Indipendentemente dalle rispettive indicazioni e limiti, tali metodiche non consentono l’eliminazione di macromolecole (quali le proteine od immunocomplessi) o sostanze (es. farmaci o tossici) ad esse legate. Tale risultato è conseguibile appunto con la plasmaferesi (PF) che, utilizzando filtri permeabili a sostanze di elevato molecolare (PM), ne consente l’eliminazione dall’organismo.

Lo scopo della presente trattazione è di illustrare i principi di funzionamento ed i campi di applicazione delle citate tecniche di emopurificazione nell’ambito della TI.

 

2. Principi di funzionamento

2.1 Emofiltrazione ed Ultrafiltrazione

Il trattamento dialitico convenzionale  può rivelarsi assolutamente deleterio nel paziente instabile dal punto di vista emodinamico e/o respiratorio, determinando l’insorgenza di ipotensione, riduzione della portata cardiaca ed ipossiemia. Le cause di tali disturbi sono da ricercarsi fondamentalmente da una parte nell’interazione tra il sangue e la membrana del filtro, che determina l’attivazione dei leucociti  e la conseguente produzione di sostanze ad attività cardiodepressiva e vasodilatatrice, e dall’altra dalla rapida sottrazione di fluidi dal compartimento intravascolare, che si rifornisce più lentamente da quello extravascolare. L’introduzione di membrane filtranti dotate di maggiore biocompatibilità e di nuove procedure dialitiche (es. dialisi con bicarbonato) ha sicuramente comportato una maggiore tollerabilità emodinamica, che però può non dimostrarsi sufficiente nel paziente severamente compromesso. Per tale motivo, a partire dai primi anni 80 sono state sviluppate una serie di tecniche di depurazione extracorporea che, malgrado un’apparente somiglianza esterna delle apparecchiature impiegate, differiscono fondamentalmente dall’ED. Durante quest’ultima, il sangue passa lungo una membrana semipermeabile sul cui versante opposto scorre un liquido (soluzione di dialisi) la cui composizione chimica determina quantitativamente e qualitativamente il processo depurativo, che avviene per diffusione, cioè  attraverso l’eliminazione di soluti lungo un gradiente favorevole (figura 1). Quindi, anche se numerose formulazioni sono disponibili, la soluzione di dialisi contiene quantità fisiologiche di Na+ ma è povero o privo di K+, urea, creatinina e fosfati, che vengono quindi rimossi, sia pure in proporzioni tra loro differenti. Le membrane impiegate in ED non sono particolarmente permeabili all’acqua, la cui rimozione avviene determinando un gradiente di pressione tra le due superfici della membrana del filtro, creando quindi o una maggiore pressione nel lato in cui scorre il sangue o una depressione (ottenuta con aspirazione) nel lato in cui scorre la soluzione di dialisi. Il fenomeno della diffusione influenza notevolmente l’efficacia del trattamento: infatti, con questo meccanismo il passaggio di una molecola attraverso una membrana semipermeabile è influenzato (tra l’altro) dal suo PM: di conseguenza sostanze a basso PM (es. urea, 60 D) sono rimosse più efficacemente di quelle con un PM più elevato (es. creatinina, 113 D). Queste caratteristiche spiegano, tra l’altro, l’accumulo di fosfati che avviene nel paziente con IRC in trattamento dialitico e la presenza di alcuni disturbi caratteristici di questa patologia, che vengono attribuiti alla ritenzione di tossine endogene a PM intermedio (c.d. medio molecole) non sufficientemente eliminate con l’ED.

Allo scopo di prevenire da una parte le alterazioni emodinamiche e respiratorie associate con l’ED e dall’altra di migliorare l’eliminazione di liquidi, a partire dai primi anni 80 sono entrati nella pratica clinica dei nuovi metodi di depurazione extracorporea, che si basano sul principio della convezione. Con tale meccanismo, reso possibile dalla disponibilità di nuovi materiali filtranti dotati di una maggiore permeabilità rispetto a quelli impiegati nell’ED la rimozione di acqua risulta molto maggiore rispetto a quello ottenibile con la diffusione, ed i soluti rimossi sono in effetti trasportati nell’ultrafiltrato all’interno di microvolumi d’acqua (figura 2). Inizialmente il trattamento  era basato sul passaggio del sangue attraverso un filtro interposto tra il settore arterioso e quello venoso utilizzando la pressione arteriosa del paziente stesso quale pressione di filtrazione (Continuous Arterovenous Hemofiltration, CAVH). Di conseguenza, l’efficacia della metodica era pesantemente condizionata (a) dal mantenimento di un gradiente di pressione adeguato tra il letto arterioso e quello venoso e (b) dalle caratteristiche del flusso ematico all’interno del filtro, a loro volta influenzate dalle sue caratteristiche costruttive. In effetti, considerando la legge di Frank-Starling, l’aumento relativo della concentrazione di proteine determinata dalla perdita di liquidi determina il crearsi all’interno del filtro di un punto di equilibrio tra pressione idrostatica e pressione oncotica, oltre il quale cessa la produzione di ultrafiltrato ed aumentano le resistenze al flusso (legge di Hagen-Poiseuille).Allo scopo di ovviare a tali limitazioni e di evitare l’incannulamento di grossi tronchi arteriosi, tale metodica è stata modificata  interponendo una pompa peristaltica in un circuito extracorporeo veno-venoso (Continuous Venovenous Hemofiltration, CVVH), che ha in pratica soppiantato la CAVH. Successivi sviluppi hanno portato all’associazione del meccanismo della convezione con quello della diffusione (Continuous Veno-Venous HemoDiafiltration (CVVHD). Tale procedura viene ottenuta facendo passare nella zona esterna del filtro una soluzione di dialisi peritoneale in direzione controcorrente rispetto al flusso ematico. In tale modo al processo convettivo si associa una componente diffusiva che aumenta la rimozione dei soluti, peraltro riducendo la sottrazione dei fluidi.

Nonostante l’ED possieda una maggiore capacità depurativa per unità di tempo, le metodiche continue consentendo un trattamento ininterrotto con elevati scambi di fluidi permettono un efficace trattamento dell' IRA. In termini operativi, l’ultrafiltrazione è indicata quando occorra rimuovere un eccesso di fluidi che il rene non riesce ad eliminare mentre l’emofiltrazione deve essere considerato un trattamento emopurificativo propriamente detto, e come tale utilizzabile sia nel trattamento dell'IRA che di altre forme patologiche in cui un ruolo patogenetico fondamentale venga rivestito da sostanze eliminabili attraverso tale metodica.

I principali vantaggi che le metodiche convettive presentano nei confronti dell’ED sono:

·         la possibilità di un trattamento continuo nell’arco delle 24 ore, e protratto per un periodo di tempo indefinito. Anche se la CVVH  risulta meno efficaci nell’unità di tempo nell’eliminazione di elettroliti e di prodotti del catabolismo  (es. K+, creatinina ed azoto) rispetto all’ED, quest’ultima si associa a rilevanti squilibri idroelettrolitici che possono risultare estremamente pericolosi nei pazienti critici. Durante la CVVH, invece, non so osservano rilevanti modificazioni del compartimento intravascolare in quanto questo viene continuamente rifornito dal liquido in eccesso presente in quello interstiziale;

·         la rimozione continua di liquidi consente la somministrazione di quantità praticamente illimitata di fluidi, sotto forma di nutrizione enterale o parenterale, sangue ed emoderivati etc. Va a questo proposito ricordato come la gestione dei liquidi nel paziente critico rappresenti un impegno talora estremamente gravoso, che talora si risolve in un continuo alternarsi di stati di sovra e sotto idratazione;

·         in base a quanto esposto nei punti precedenti, il fluido rimosso può essere rimpiazzato in tutto od in parte con soluzioni di composizione di volta in volta adattata alla situazione clinica, consentendo quindi una vera e propria manipolazione della composizione chimica del compartimento extracellulare.

La descrizione delle metodologie convettive sarebbe tuttavia oltremodo incompleta se si tacessero le limitazioni di tali metodiche, che possono essere così riassunte:

·         la (relativa) ridotta capacità depurativa/ unità di tempo rispetto ad altre metodiche depurative (es. emoperfusione, plasmaferesi, ED) ne controindica l’utilizzo per il trattamento di intossicazioni acute, nonostante siano comparse in letteratura delle descrizioni di singoli casi trattati con successo;

·         le procedure descritte rendono necessario l’incannulamento di vasi di calibro adeguato; di conseguenza aumenta il rischio di emorragie (v. punto successivo), di infezioni, di embolie gassose ed in generale di quelle complicanze derivanti dalla permanenza in situ per tempi prolungati di un catetere venoso centrale;

·         analogamente a tutti i trattamenti che si avvalgono del passaggio del sangue su una superficie estranea, si rende necessario l’impiego di farmaci ad attività anticoagulante (eparina). Appare quindi chiaro che circostanze associate ad un elevato rischio emorragico (es. trauma cranico, recente intervento chirurgico etc.) rappresentino una controindicazione assoluta al loro utilizzo. Esistono tuttavia delle possibilità di ovviare a tale rilevante limitazione. Primo, l’eparinizzazione può essere circoscritta al settore extracorporeo, immettendo protamina (antagonista specifico dell’eparina) nel segmento terminale del circuito extracorporeo; in tale modo la quantità di eparina che ha accesso alla circolazione del paziente dovrebbe essere estremamente ridotta od addirittura assente. Secondo, possono essere utilizzate sostanze anticoagulanti non epariniche (es prostaciclina, eparinoidi). Terzo, l’eparina può essere inserita e fissata nel materiale costitutivo del filtro già in sede di fabbricazione.

 

2.2 Plasmaferesi e Plasma Exchange

Concettualmente, il principio di funzionamento della PF è più semplice degli altri sopra illustrati, in quanto si basa sulla semplice eliminazione del plasma e delle sostanze in esso contenute; risulta evidente che il volume rimosso richiede una almeno parziale sostituzione con plasma allo scopo di reintegrare le perdite di fattori della coagulazione, di albumina etc. I progressi tecnologici e le necessità applicative hanno comportato successivi raffinamenti della metodica, che, allo stato attuale, ha acquisito una maggiore selettività, consentendo l’eliminazione mirata di particolari sostanze. Anche in questo caso è opportuno distinguere tra i tipi di trattamento possibili: con il termine inglese plasma exchange (PE) si indica un procedimento volto alla rimozione ed alla successiva eliminazione dell'intero volume plasmatico, mentre con il termine Plasmaferesi si intende la rimozione selettiva dal plasma di una sua componente patologica, mentre il rimanente viene successivamente reinfuso. Tale processo, tecnologicamente più avanzato, si svolge fondamentalmente in due fasi: durante la prima il plasma viene separato dal sangue attraverso il passaggio su un filtro analogo a quelli utilizzati con il PE; il plasma così ottenuto, anziché essere eliminato, viene fatto scorrere attraverso un altro filtro costituito da un materiale in grado di legare irreversibilmente la sostanza da eliminare (es. lipoproteine) e successivamente reinfuso nel corso dello stesso trattamento. Anche nel caso della PF e del PE vanno tenute presenti alcune limitazioni, che possono essere così riassunte:

·        tali metodiche sono efficaci nella rimozione di sostanze presenti nel compartimento intravascolare; la (ri)comparsa in questo compartimento di sostanze ad azione patogena presenti nello spazio interstiziale e/o aderente a degli specifici recettori cellulari può dare luogo a fenomeni di rebound ad intervalli di tempo variabili dalla fine della procedura;

·        la rapida rimozione di liquidi dal compartimento intravascolare può determinare gravi alterazioni emodinamiche, particolarmente pericolose nei pazienti in TI;

·        non è sempre chiaro se la sostanza da eliminare sia il reale agente patogenetico di un particolare quadro patologico o ne rappresenti unicamente un marker biologico;

·        poiché alcune delle patologie in cui la PE ed la PF sono impiegate sono di fatto rare, per molte di esse non esistono delle casistiche tali da validarne o da controindicarne l’utilizzo, e l’esperienza clinica si base su piccole serie di pazienti o addirittura su singole descrizioni di casi clinici. Tale incertezza operativa ha comportato all’inizio un sovrautilizzo della PE/PF sia in ambito generale che in TI, ed il progredire delle conoscenze ha limitato il suo impiego solo ad alcuni quadri patologici (tabella 1);

·        analogamente a quanto descritto a proposito dell'emofiltrazione, l’incannulamento di vasi di grosso calibro e la necessità di eparinizzazione del circuito extracorporeo può accompagnarsi ad una serie rilevante di complicazioni iatrogene.

 3. Applicazioni cliniche

Da quanto esposto possono quindi essere individuati tre principali campi di applicazione per l’ultrafiltrazione-emofiltrazione e la PF:

-          il supporto della funzione renale;

-          il trattamento dello scompenso cardiaco e degli stati di iperidratazione non od ipo rispondenti alla terapia diuretica e/o alla restrizione di fluidi;

-          il trattamento di situazioni cliniche determinate dall’azione di sostanze (potenzialmente) eliminabili con tali metodiche, tra cui i mediatori della sepsi.

 

3.1 Supporto della funzione renale

L’insorgenza di IRA nel paziente critico rappresenta una eventualità particolarmente temibile per molteplici motivi: Primo, in tali circostanze l’IRA spesso si associa all’insufficienza di altri organi o sistemi, nell’ambito di una Disfunzione Multipla d’Organo (MODS: Multiple Organ Dysfunction Syndrome); in questo caso la mortalità riportata in varie casistiche arriva all’80-100%, il che contrasta nettamente con quella dell'IRA che insorga isolatamente, che è gravata da una mortalità variabile a seconda delle cause e dei pazienti considerati, ma che di norma non oltrepassa il 20%. Secondo, il paziente in TI è esposto a molteplici fattori di rischio, tra i quali le infezioni, gli stati di bassa portata cardiaca,  l’impiego di farmaci nefrotossici ect. Terzo, come già accennato, l’ED può determinare la comparsa di gravi alterazioni cardiorespiratorie.

La CVVH rappresenta attualmente il trattamento di scelta per i pazienti critici con IRA, sia che essa coòpaia in forma isolata che nell’ambito di una MODS. Numerosi studi hanno infatti dimostrato una migliore tollerabilità emodinamica e respiratoria rispetto all’ED, che tuttavia può rendersi ancora necessaria in caso di iperkalemia severa o di inizio del trattamento depurativo in una fase talmente avanzata che la CVVH non è in grado di contrastare l’iperazotemia.  Stante il principio di funzionamento, basato sulla rimozione di soluti disciolti nel liquido rimosso, il trattamento dell'IRA con le citate metodiche richiede lo scambio di elevate quantità di fluidi, che nel paziente critico altamente catabolico può raggiungere i 18-24 litri/24 ore, per più giorni di seguito. La rilevanza volumi comportano alcune necessità operative. Primo,  è necessario valutare con estrema attenzione il bilancio entrate/uscite allo scopo di evitare la comparsa di disidratazione; a tale fine l’impiego di bilance collegate con un sistema computerizzato di reinfusione risulta di estrema utilità. Secondo, va tenuta presente la possibilità di perdite di farmaci, sostanze nutrizionali, vitamine ed oligoelementi; per ovviare a tali inconvenienti sono state pubblicate della tabelle che, in analogia a quanto normalmente avviene durante un trattamento ED, consentono l’adeguamento del dosaggio dei farmaci somministrati in ragione della loro filtrabilità e flusso ematico nel filtro. Da ultimo, il passaggio del sangue sulla membrana del filtro si associa al depositarsi di un film proteico sulla sua superficie, che alla lunga ne riducono la permeabilità. Anche se tale fenomeno risente di alcune caratteristiche individuali (es. concentrazione proteica, flusso ematico etc.), allo scopo di mantenere inalterata l’efficacia del trattamento è indicata la sostituzione del filtro ogni 24-36 ore.

 

3.2 Trattamento dello scompenso cardiaco e degli stati di sovraidratazione

L’insufficienza cardiaca acuta e cronica richiede la somministrazione di una serie di farmaci volti da una parte a migliorare la funzione della pompa cardiaca e dall’altra, se necessario a ridurre l’accumulo di liquido accumulato nello spazio interstiziale. Quest’ultimo aspetto appare di particolare rilievo in quanto:

·        la comparsa di edema polmonare acuto (EPA) rappresenta un evento potenzialmente letale determinando l’insorgenza di ipossiemia che talora richiede la ventilazione meccanica;

·        la formazione di edema tissutale determina un aumento della distanza tra capillari e cellule, che vengono quindi esposte al rischio di ipossia e di conseguente anaerobiosi.

Il trattamento dell' insufficienza cardiaca si basa innanzitutto sul miglioramento della funzione di pompa e quindi sul venir meno della risposta neuroendocrina (sistema nervoso simpatico, sistema renina-angiotensina-aldosterone) che causa un aumento del riassorbimento renale del Na+. In questo contesto, l’impiego di diuretici è indicato dall’accumulo di liquidi nel compartimento extravascolare, la cui gravità può variare da un modesto edema gravitazionale, all’edema polmonare acuto (EPA) ed allo stato anasarcatico conclamato. Anche se in genere tale trattamento si rivela  efficace, esistono delle situazioni in cui l’eliminazione del liquido in eccesso risulta insufficiente sia a causa di concomitanti patologie croniche (es. IRC non ancora in fase anurica)  sia per situazioni contingenti, in cui il paziente comunque necessita di un rilevante apporto di fluidi malgrado una ridotta riserva funzionale cardiaca o renale che ne rallenta sostanzialmente (es. pazienti politraumatizzati con ridotta riserva cardiaca o renale in cui sia somministrare elevate quantità di liquidi sotto varia forme). In queste circostanze l’impiego delle metodiche convettive facilita la gestione dei fluidi, in quanto una quota del liquido in eccesso può venire eliminata con le metodiche convettive. Il continuo refilling da parte del compartimento extravascolare previene la comparsa di ipovolemia e garantisce la tollerabilità emodinamica.  Dal momento che tali situazioni sono per lo più  temporalmente limitate, l’impiego della CVVH può limitarsi al periodo di tempo in cui è prevedibile la necessità dell'infusione di elevati volumi di fluidi. 

Un campo particolare di applicazione della CVVH è la fase finale di un intervento chirurgico eseguito in circolazione extracorporea (CEC). Tali procedure chirurgiche infatti spesso necessitano la somministrazione di notevoli quantità di liquidi che possono essere smaltiti tardivamente nella fase post CEC. L’applicazione di un filtro da CVVH nel circuito extracorporeo consente l’eliminazione del liquido in eccesso alla fine dell'intervento riducendo quindi la possibilità di EPA postoperatorio.

 

3.3 Eliminazione dei mediatori della sepsi

Numerose ricerche sperimentali e cliniche hanno dimostrato che le rilevanti alterazioni emodinamiche, metaboliche e respiratorie caratteristiche dello sepsi e dello shock settico derivano dalla produzione di una eterogenea serie di sostanze prodotte nel corso dell’interazione tra ospite e germe infettante, che, nel loro insieme, danno luogo ad una reazione infiammatoria generalizzata. In molti casi la produzione di tali sostanze si accompagna a quella di loro inibitori specifici (es. recettori solubili con attività chelante o agenti bloccanti il recettore delle cellule bersaglio), con lo scopo teleologico di limitare il danno d’organo. La situazione viene ulteriormente complicata dalla presenza di numerose interazioni con altri sistemi biologici, quali la cascata emocoagulativa, la produzione di ossido nitrico (NO), la sintesi di proteine della fase acuta etc. E’ stato inoltre ipotizzato che nel corso dello stesso episodio settico possano susseguirsi o alternarsi due fasi ben distinte e tra loro antitetiche, caratterizzate l’una dalla produzione di sostanze ad azione infiammatoria ed dei relativi inibitori (Mixed inflammatory and Antinflammatory Response Syndrome,  MARS) e l’altra  dalla prevalenza di agenti con spiccate caratteristiche antiinfiammatorie (Compensatory  Anti-Inflammatory Response Syndrome,  CARS). Allo scopo di inibire tale risposta, sono state impiegate sostanze prodotte mediante tecniche di ingegneria genetica, agenti come anticorpi specifici, come recettori solubili atti ad intercettare la molecola bersaglio prima che possa legarsi al recettore cellulare  ed infine come bloccanti del recettore cellulare stesso.  Sfortunatamente, i numerosi trials clinici finora attuati hanno portato a dei risultati nel complesso scoraggianti, o comunque largamente al di sotto di quanto era lecito aspettarsi in base agli studi sperimentali. Un’alternativa a tale approccio è costituita dalla possibile eliminazione dall’organismo attraverso alcune la CVVH, che impiega membrane con un cut-off (vale dire il PM limite al di sopra del quale una sostanza non viene più filtrata)  di ~ 50-60 KD. In effetti, vi sono risultati di carattere sia sperimentale che clinico che confermano tale ruolo sia in termini di miglioramento di alcune variabili fisiologiche alterate in corso di sepsi che di riduzione della mortalità dei pazienti trattati.  In un modello sperimentale di sepsi, la CVVH si è associata ad un significativo miglioramento dei parametri emodinamici considerati, in assenza di alterazioni del volume ematico. In uno studio policentrico,  una miglior sopravvivenza in un gruppo di pazienti settici é stata osservata nel gruppo trattato con  CVVH  rispetto a quelli trattati con CAVH e tale risultato é stato attribuito ad una maggior capacità di rimozione di mediatori della sepsi posseduto dalla prima metodica. Non è chiaro tuttavia quale sia il ruolo svolto dall’ipotizzata azione sui mediatori della sepsi, in quanto il loro dosaggio in soggetti trattati con tali metodiche ha portato a risultati contrastanti:  una loro diminuzione é stata osservata in uno studio, mentre in un altro i valori delle citochine considerate rimanevano invariate o tendevano addirittura ad aumentare leggermente. E' possibile che il legame dei mediatori con le proteine plasmatiche possa influenzare la quantità rimossa. Recentemente, per ottenere una più rapida ed efficiente rimozione di mediatori, la plasmaferesi (PF) da sola od in associazione con la CAVHD é stata utilizzata con successo nel trattamento di pazienti con sepsi o shock settico; in un altro studio la PE fu in grado di migliorare temporaneamente le condizioni di pazienti con MODS. Valutando il decorso clinico di quattro gruppi di pazienti settici con MODS, alcuni autori osservarono una significativa diminuzione della mortalità nei pazienti trattati con PE associata a CAVHD rispetto a quelli trattati con CAVH, CAVHD o senza alcuna metodica di depurazione extracorporea. Anche in questo studio il miglioramento della sopravvivenza  nel gruppo trattato con PF venne attribuito ad una maggiore eliminazione di mediatori. Più recentemente, la PF eseguita in un gruppo di pazienti settici ha consentito il significativo miglioramento di tutti i parametri emodinamici considerati, senza un parallelo miglioramento della mortalità;  anche in questo caso si è ipotizzato che l’effetto migliorativo sulla funzione emodinamica fosse dovuto all’eliminazione di mediatori e di sostanze ad azione miocardiodepressiva. Un'alternativa a tali metodiche, é costituta dalla perfusione del sangue di soggetti settici su filtri contenenti polimixina B od altre sostanze in grado di adsorbire l'endotossina od altri mediatori. Allo stato attuale delle ricerche, i trattamenti di depurazione extracorporea nel trattamento della sepsi appaiono quindi promettenti, anche se non é ancora possibile identificare con precisione le categorie di pazienti che ne potrebbero trarre maggiore giovamento.

 

4. Conclusioni

Le metodiche emodepurative si sono rivelate estremamente efficaci nel trattamento dell'IRA e dello scompenso cardiaco nei pazienti critici, in cui le alterazioni emodinamiche e respiratorie determinate dall’emodialisi possono rivelarsi catastrofiche. Per quanto riguarda invece la loro applicazione quali mezzi per rimuovere i mediatori della sepsi, il loro preciso ruolo, che viene suggerito da esperienze sia sperimentali che cliniche, deve essere ancora validato mediante uno studio policentrico che arruoli un numero di paziente tale da poter trarre delle conclusioni definitive.

 

 

spazio interstiziale

spazio vascolare

dialisato

Na+ 

Cl K+ 

Cl- Creat 

N

Na+ Cl 

K+ Cl- 

Creat N 

PO4 --

K+ 

Cl

Creat 

N

 

Figura 1 : schema del trasporto diffusivo; il passaggio di sostanze  nel e dal dialisato avviene lungo un gradiente di concentrazione

 

spazio 
interstiziale

spazio
vascolare

ultrafiltrato

Figura 2 : schema del trasporto convettivo; ogni casella rappresenta un volume di acqua


tavola 1: attuali indicazioni certe e potenziali della PE e PF nel paziente critico

attuali
ematologia-immunologia:
  1. porpora trombotica trombocitopenica
  2. sindrome uremico-emolitica
  3. sindrome di Goodpasture
patologie neuromuscolari
  1. sindrome di Guillan-Barrè
  2. miastenia gravis
varie
  1. insufficienza epatica (supporto temporaneo)
  2. arteriti
  Potenziali
  1. sepsi e quadri clinici correlati

Tossicologia

  1. sostanze legate alle proteine

 

Letture consigliate

 


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