__________________________________________________________________ __________________________________________________________________ ISSN 1080-3521 EDUCATIONAL SYNOPSES IN ANESTHESIOLOGY and CRITICAL CARE MEDICINE - Italia - Il giornale italiano on line di anestesia Vol 2 No 11 NOVEMBRE 1997 __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ Pubblicato elettronicamente da: Vincenzo Lanza, MD Servizio di Anestesia e Rianimazione Ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli Palermo, Italy E-mail: (lanza@mbox.unipa.it) Keith J Ruskin, MD Department of Anesthesiology Yale University School of Medicine 333 Cedar Street, New Haven, CT 06520 USA Office: 203-785-2802 E-mail: ruskin@gasnet.med.yale.edu Copyright (C) 1996 Educational Synopses in Anesthesiology and Critical Care Medicine. All rights reserved. Questo rivista on-line può essere copiata e distribuita liberamente, curando che venga distribuita integralmente, e che siano riportati fedelmente tutti gli autori ed il comitato editoriale. Informazioni sulla rivista sono riportate alla fine. __________________________________________________________________ In questo numero: Speciale Tossicologia: "PRESENTE E FUTURO IN TOSSICOLOGIA CLINICA" - Incontro di Aggiornamento Internazionale - Ferrara 24 Maggio 1997 1° Servizio di Anestesia e Rianimazione Azienda Ospedaliera Arcispedale S. Anna - Ferrara // Società Medico-Chirurgica di Ferrara con il patrocinio di: -Associazione Anestesisti Rianimatori Ospedalieri Italiani - Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Ferrara - Azienda Ospedaliera Arcispedale S. Anna di Ferrara testi e sintesi delle relazioni a cura di Roberto Zoppellari Introduzione In questo numero ESIA-ITALIA ospita i testi e le sintesi delle relazioni, come integralmente fornite dagli Autori e curate dal Dott. Zoppellari, esposte nell'incontro di Aggiornamento Internazionale "Presente e Futuro in Tossicologia Clinica" tenutosi a Ferrara il 24 Maggio del 1997. L'interesse degli argomenti e il prestigio dei relatori ci ha indotto a presentare le sezioni 5 e 6 in lingua originale, il Francese per la Prof.ssa Bismuth e l'Inglese per il Dott. Borron. Al più presto, in questo numero, renderemo disponibile la versione Italiana di questi due articoli. 1 Prefazione 2 LA GESTIONE DEL PAZIENTE INTOSSICATO : Basi razionali e controversie 3 APPROCCIO AL BAMBINO CON SOSPETTA INTOSSICAZIONE ESOGENA ACUTA 4 POSSIBILITA' E LIMITI DEL LABORATORIO APPLICATO ALLE INTOSSICAZIONI ACUTE 5 IMMUNOTOXICOTHÉRAPIE : Progrès, échecs et promesses en 1997 6 NEW FRONTIERS IN CLINICAL TOXICOLOGY 7 Conclusioni _______________________________________________________ 1 Prefazione _______________________________________________________ Renzo Zatelli - Primario 1° Servizio di Anestesia e Rianimazione - Azienda Ospedaliera Arcispedale S. Anna - Ferrara La Tossicologia è una branca della medicina non facile da amare perchè molto spesso viene presentata come la scienza che si occupa di un arido elenco di sostanze che, entrate nell'organismo, ingenerano quadri clinici non sempre attribuibili in modo certo ad un fattore eziologico ben preciso. Una visione di più focalizzata sugli aspetti fisiopatologici della materia riesce ad accattivare l'interesse dello studioso. Se a ciò si unisce un interesse per la cinetica intraorganica delle sostanze tossiche il fascino della Tossicologia si palesa in tutta la sua forza. Ad una visione di questo tipo ritengo possa decisamente contribuire quanto espongono gli oratori in questo incontro che si propone di fornire: 1) un aggiornamento sulla gestione clinica del paziente intossicato ( adulto o bambino ) nei suoi aspetti diagnostici e terapeutici sia nella fase d'urgenza che nel post acuzie; 2) una puntualizzazione delle potenzialità del laboratorio nel fornire elementi validi non solo per la diagnosi, ma anche per il trattamento e per la prognosi; 3) uno sguardo su aspetti in forte evoluzione della tossicologia moderna come: a) l'impiego di tecniche basate sulla immunologia con capitoli già stabilizzati ed altri ancora che forniranno strumenti utilizzabili in clinica nei prossimi anni; b) nuovi approcci nella comprensione dei meccanismi cellulari che condizionano l'insorgere e l'evoluzione della manifestazione tossica, quali l'intervento delle proteine in grado di ingenerare refrattarietà all'azione di svariate sostanze. _______________________________________________________ 2 LA GESTIONE DEL PAZIENTE INTOSSICATO : Basi razionali e controversie _______________________________________________________ Carlo Locatelli, Valeria Petrolini, Cristiano Gandini, Raffaella Butera, Luigi Manzo* Centro Nazionale di Informazione Tossicologica - Centro Antiveleni di Pavia, I.R.C.C.S. Fondazione Salvatore Maugeri Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, Pavia e * Dipartimento di Medicina Interna e Terapia Medica, Sezione di Farmacologia e Tossicologia, Università degli Studi di Pavia. L'intossicazione acuta rappresenta un evento di sempre più frequente riscontro per chi opera nei servizi e dipartimenti di urgenza ed emergenza. Benché sia difficile accertare precisi dati di prevalenza relativi ai casi di intossicazione, è noto che in numerosi ospedali questo valore risulta particolarmente elevato. Studi statunitensi indicano, ad esempio, che in alcuni dipartimenti di emergenza i casi di intossicazione e di altre urgenze farmaco-correlate possono arrivare a rappresentare fino al 38% delle visite effettuate (Hoffman e Goldfrank, 1990). Nel 1988, inoltre, le sole intossicazioni per ingestione hanno rappresentato il 20% delle cause di ricovero d'urgenza in reparti medici per gli adulti e il 5% per i bambini (Ellenhorn e Barceloux, 1988). Anche nell'attività di soccorso extraospedaliero le intossicazioni ricorrono oggi con una rilevante frequenza. Negli USA circa il 10% delle richieste di intervento di ambulanze è effettuato per intossicazioni acute (Ellenhorn e Barceloux, 1988), e dati simili (12%) risultano da indagini recentemente condotte in Svizzera sull'impiego dei mezzi di soccorso per l'emergenza territoriale (elicotteri, auto mediche, centri mobili di rianimazione) (Moeschler, 1997). I dati dei Centri Antiveleni sottostimano l'evento intossicazione. Negli USA, l'American Association of Poison Control Centers ha documentato, nel 1990, 1.713.465 casi di esposizione umana a sostanze tossiche che hanno richiesto la consultazione di Centri Antiveleni (Litovitz et al, 1991). Risulta tuttavia che ai Centri Antiveleni non vengano segnalati circa il 70% dei casi di sovradosaggio da farmaci (Caravati e McElwee, 1991) e la maggior parte dei casi di decesso da sovradosaggio da farmaci molto comuni (es. antidepressivi triciclici) (Callaham e Kassel, 1985). Questi ed altri dati indicano l'elevata frequenza di questa patologia, che è peraltro in continuo aumento, e la conseguente necessità di una formazione specifica in tossicologia clinica per i medici che operano nell'area dell'urgenza ed emergenza (Hoffman e Goldfrank, 1991). A differenza di quanto avviene in altri paesi europei, come ad esempio in Francia, in Italia non sono diffusi sul territorio nazionale reparti di cura e servizi diagnostici specifici per la tossicologia clinica; tali pazienti, pertanto, vengono per lo più ricoverati presso reparti e ospedali che spesso non sono dotati di specifiche competenze (es. mancanza di strutture analitiche), e ciò può essere causa di approcci diagnostico-terapeutici inadeguati. Nella gestione del paziente intossicato esistono quattro momenti fondamentali: la diagnosi, il trattamento d'urgenza, il trattamento nella fase post-acuta, e il follow-up a lungo termine per il monitoraggio e trattamento di eventuali sequele tardive. In ciascuna di queste fasi occorre considerare gli aspetti peculiari di questa patologia al fine di effettuare l'intervento più efficace. La diagnosi La diagnosi in tossicologia clinica si basa in un primo momento, come in tutti i campi della medicina, dal confronto tra anamnesi e il quadro clinico presentato dall'intossicato. Alcuni fattori, tuttavia, possono complicare o, per contro, facilitare il ragionamento diagnostico. Nella patologia da tossici esogeni, ad esempio, non sempre è possibile ottenere dal paziente un'anamnesi veritiera (es. per comportamento autolesivo o alterazioni dello stato di coscienza). Il procedimento diagnostico richiede spesso, pertanto, che la raccolta di informazioni avvenga attraverso, o per confronto con, domande specifiche poste a familiari, amici, conoscenti, o a coloro che hanno potuto raccogliere importanti dati circostanziali (es. soccorritori), oppure talvolta al medico curante. Anche l'esame del paziente deve essere particolarmente accurato e mirato alla ricerca di particolari segni o sintomi che consentano, anche in assenza di dati anamnestici certi, di indirizzarsi verso diagnosi specifiche. Ciò risulta talvolta possibile poiché la patologia tossica è caratterizzata da (i) un rapporto logico tra causa ed effetti che è molto pi stretto e costante rispetto ad altre patologie, e da (ii) un tempo di latenza fra esposizione e comparsa dei sintomi caratteristico per ogni sostanza. Così, ad esempio, la diagnosi può non risultare difficile nelle intossicazioni pure da sostanze o farmaci che frequentemente vengono assunti a scopo autolesivo e che causano caratteristiche disfunzioni autonomiche (es. sindrome anticolinergica centrale, sindrome simpaticomimetica, sindrome colinergica) (Olson et al, 1987). Oltre ai segni e sintomi che caratterizzano alcune sindromi tipiche, altri elementi possono indirizzare la diagnosi, quali, ad esempio, un odore caratteristico dell'espirato, la presenza di lesioni da caustici, il tipo di anomalie elettrocardiografiche o radiografiche, particolari quadri biochimico-metabolici (es. acidosi metabolica, gap anionico e osmolare), il colore delle urine o dell'aspirato gastrico, oppure segni di venopuntura. In alcuni casi è possibile il reperimento di pacchetti di sostanze d'abuso nascosti in vagina, nel retto (Kulig, 1992) o presenti in varie parti del tratto gastrointestinale. Per contro, proprio per l'enorme variabilità di sostanze chimiche e di miscele delle stesse con cui l'uomo può venire a contatto per vie diverse, ogni intossicazione acuta può configurare un'evenienza insolita o addirittura unica, senza precedenti. Una diagnosi completa e corretta, tuttavia, è formulabile solo se, oltre alla natura della sostanza, la via di contatto, l'intervallo fra esposizione e comparsa dei sintomi, la presenza di fattori individuali di rischio, è possibile conoscere anche la quantità di tossico assorbita. Nella valutazione delle intossicazioni, infatti, e soprattutto di quelle per ingestione, assume importanza rilevante un altro aspetto diagnostico peculiare, e cioè la previsione dell'entità e della durata dell'effetto massimale, indipendentemente dai segni e sintomi al momento presenti. Ciò ha rilevanti implicazioni terapeutiche, richiede valutazioni esperte e disponibilità in tempi utili di mezzi diagnostici e analitici: nei liquidi biologici, ad esempio, può essere misurata la maggior parte delle sostanze che più frequentemente sono causa di intossicazione, anche se presente in concentrazioni minime. In molti casi di intossicazione (es. anamnesi muta con segni e sintomi generici, inattendibilità o imprecisione del paziente) il trattamento viene iniziato con terapie e mezzi aspecifici, prima che possa essere formulata una diagnosi precisa. Talvolta solo la consulenza di un Centro Antiveleni o dosaggi di tossicologia analitica consentono di impostare trattamenti specifici e formulare diagnosi precise. Il trattamento d'urgenza L'assorbimento di veleni può avvenire attraverso varie vie di contatto quali l'ingestione, inalazione, contatto cutaneo e/o oculare, iniezione parenterale, ecc. Una sostanza chimica diventa veleno, tuttavia, solo quando, attraverso un'idonea via di contatto, riesce a superare le barriere naturali dell'organismo e a raggiungere gli organi o tessuti bersaglio a una concentrazione o dose in grado di determinare effetti dannosi, la cui comparsa può essere immediata o tardiva. In quest'ultimo caso il primo intervento medico può essere effettuato sulla base della sola anamnesi e prima della comparsa di qualunque sintomo o segno. In alcuni casi è possibile utilizzare tecniche atte a rimuovere il veleno prima che venga assorbito e somministrare prontamente alcuni antidoti che consentono di diminuire drasticamente il carico tossico intervenendo sull'assorbimento, e trasformare una potenziale intossicazione in un evento privo di conseguenze clinicamente significative. L'approccio terapeutico d'urgenza nelle intossicazioni si basa pertanto, oltre che sulla terapia sintomatica e o di rianimazione a sostegno delle funzioni vitali insufficienti, su trattamenti specifici che mirano a diminuire/prevenire la penetrazione del tossico nell'organismo (decontaminazione) e a promuoverne l'eliminazione (depurazione), nonché a contrastarne gli effetti (antidoti). L'intervento di decontaminazione dal tossico ha una delle sue massime possibilità e indicazioni nelle intossicazioni per ingestione attraverso alcune manovre che, almeno teoricamente e se effettuate nel minor tempo possibile, possono limitare o prevenire l'assorbimento di sostanze ancora presenti nel tratto gastrointestinale. A tale scopo vengono utilizzate diverse tecniche, quali l'induzione del vomito e la lavanda gastrica per l'evacuazione del tratto gastroenterico superiore, la catarsi e il lavaggio intestinale per l'evacuazione di quello inferiore. La somministrazione di adsorbenti (es. carbone vegetale attivato) trova impiego da sola o in associazione a tali manovre. Le indicazioni all'uso dell'una o dell'altra tecnica variano in base a numerosi fattori, quali la natura della sostanza assunta, l'intervallo di tempo intercorso dall'assunzione, le condizioni cliniche dell'intossicato. Indicazioni ed efficacia di tali manovre sono diventate, soprattutto negli ultimi anni, oggetto di dibattito. Alcuni studi su pazienti con intossicazioni da farmaci, su volontari sani e su animali di laboratorio, hanno indagato l'efficacia dei trattamenti di decontaminazione del tratto gastrointestinale (induzione del vomito con ipecacuana e lavanda gastrica con o senza somministrazione di carbone attivato), spesso per comparazione con la sola somministrazione di carbone attivato. Una puntualizzazione su tali aspetti è molto importante anche per le possibili implicazioni medico-legali. Infatti, alla carente dimostrazione di efficacia e ai possibili effetti collaterali (Kulig et al, 1985; Albertson et al, 1989; Merigian et al, 1990; Tandberg et al, 1981; Wolowodiuk et al, 1984; Wald et al, 1986; Thompson et al, 1987), anche letali (Robertson, 1979), delle procedure impiegate per lo svuotamento gastrico, si contrappone l'evidenza che il mancato impiego di tali tecniche può essere causa di intossicazioni gravi o letali (Flomenbaum e Price, 1986; Bozza-Marrubini et al, 1987; Ellenhorn e Barceloux, 1988; Ryan e Homan, 1993; Danel e Baud, 1995; Olson, 1994). 1. Induzione del vomito L'induzione del vomito ha alcune precise indicazioni e controindicazioni; in alcuni casi può essere più indicata della lavanda gastrica (es. stomaco pieno per pasto recente; ingestione di tossici solidi insolubili in acqua). Viene ottenuta per somministrazione di sciroppo di ipecacuana che, attraverso l'azione di due principali alcaloidi (emetina e cephalina) agisce sia a livello periferico (azione irritante locale) che centrale (attivazione del centro del vomito). Il farmaco produce emesi nel 80-100% dei pazienti entro 20-30 minuti dalla somministrazione; l'effetto può non comparire se sono stati assunti farmaci ad azione antiemetica che ne bloccano l'effetto centrale (Flomenbaum e Price, 1986; Wanke, 1984). L'induzione del vomito con ipecacuana è efficace nell'allontanare il tossico se effettuata entro un tempo relativamente breve dall'ingestione (circa 1 ora) (Ryan e Homan, 1993): dopo 3-4 ore è raramente efficace, tranne nel caso di sostanze che rallentano lo svuotamento gastrico o che formano agglomerati di compresse nello stomaco (es. aspirina). L'induzione del vomito con ipecacuana consente di eliminare mediamente il 30-40% del contenuto gastrico (e quindi del tossico presente) se effettuata entro 1 ora dall'ingestione (Tenebein et al, 1987; Corby et al, 1967); quantità superiori possono essere eliminate per somministrazioni più precoci dell'emetico, anche se studi su animali e sull'uomo hanno evidenziato un'eliminazione massima del tossico pari a circa il 60% se l'emesi viene indotta immediatamente dopo l'ingestione (Kulig et al, 1985; Arnold et al, 1959). Le controindicazioni all'induzione del vomito sono correlate sia al veleno ingerito che alle condizioni del paziente: ingestione di sostanze convulsivanti, caustici, derivati del petrolio o solventi, schiumogeni, contemporanea ingestione di materiali taglienti, insufficienza cerebrale o manifestazioni convulsive in atto o potenziali, gravi patologie cardiovascolari, grave enfisema polmonare, cirrosi e diatesi emorragiche, gravidanza avanzata, ed etˆ inferiore ai 6 mesi (Bozza-Marrubini et al, 1987). La posologia di questo farmaco, che dovrebbe essere sempre disponibile in tutti i servizi di pronto soccorso, varia secondo l'età; la somministrazione di sciroppo viene fatta seguire da assunzione di 200 ml d'acqua nell'adulto. Una seconda somministrazione viene spesso ripetuta in caso di mancata comparsa dell'effetto: tale procedura è sconsigliata nel bambino sotto i tre anni di età poiché l'elevato assorbimento di emetina potrebbe determinare effetti tossici. I principali effetti collaterali sono il vomito protratto per più di 3 ore (1-5% dei casi), diarrea (16-26%), dolori addominali, irritabilità, e sonnolenza. Sono stati descritti rarissimi casi di ernia diaframmatica (Robertson, 1979), gastriti emorragiche, sindrome di Mallory-Weiss (Tandberg et al, 1981), emorragia cerebrale (Klein-Schwartz et al, 1984), retropneumoperitoneo e pneumomediastino (Wolowodiuk et al, 1984). La persistenza del vomito può ritardare la somministrazione di altri antidoti (es. carbone attivato). Alcuni studi su gruppi di pazienti (Kulig et al, 1985; Albertson et al, 1989; Merigian et al, 1990) non hanno mostrato alcun "vantaggio clinico" derivante dall'uso di sciroppo di ipecacuana (da solo o seguito da carbone attivato) rispetto alla somministrazione del solo carbone attivato. Similmente, due studi su volontari sani hanno mostrato una maggiore efficacia nella prevenzione dell'assorbimento da parte del carbone attivato da solo rispetto alla somministrazione di ipecacuana (Neuvonen, 1983) o di ipecacuana seguito da carbone attivato (Curtis et al, 1984). In base a tali dati, alcuni Autori consigliano la somministrazione di carbone attivato (con o senza catartico), senza induzione del vomito, nella maggior parte delle intossicazioni da farmaci (Kulig, 1992); l'ipecacuana avrebbe ancora un ruolo solamente nella somministrazione a domicilio o nei bambini che arrivano all'osservazione in pronto soccorso rapidamente dopo l'ingestione. 2. Lavanda gastrica La maggior parte delle sostanze ingerite può essere rimossa con la lavanda gastrica (Bozza-Marrubini et al, 1987). La tecnica è più invasiva dell'induzione del vomito con ipecacuana e forse lievemente meno efficace, ma presenta scarsi e solo lievi effetti collaterali se effettuata con attenzione e in modo corretto (Olson, 1994). Farmaci a rilascio prolungato o gastro-resistenti, quando ancora interi, frammenti di bacche vegetali o di canfora e naftalina sono scarsamente rimovibili. L'intervallo di tempo trascorso dall'ingestione entro il quale è possibile effettuare una lavanda gastrica efficace non è definibile a priori: esso dipende, ad esempio, dalle caratteristiche chimiche e fisiche della sostanza (o della miscela di sostanze) ingerita, dallo stato di ripienezza dello stomaco al momento dell'ingestione, dalle caratteristiche individuali del paziente. Tale intervallo utile è probabilmente inferiore a 1 ora per sostanze allo stato liquido, assunte a stomaco vuoto e rapidamente assorbibili, ma può essere di molto maggiore in caso di assunzione di alcuni veleni (es. tallio, antidepressivi triciclici, salicilici, atropinosimili) e in alcune situazioni cliniche (es. coma, shock) che determinano diminuzione della normale peristalsi. La quantità totale di acqua o soluzione salina tiepide necessaria per effettuare una lavanda gastrica varia da un minimo di 2 litri a circa 20 litri per alcune intossicazioni. Attraverso una sonda di grosso calibro (36-40 F) vengono somministrati volumi di 200 ml alla volta nell'adulto, ai quali possono essere aggiunti antidoti aspecifici (carbone attivato) o specifici per il tipo di veleno ingerito; il liquido di volta in volta instillato viene rimosso per suzione, e il lavaggio deve essere continuato fino a comparsa di liquido chiaro, inodore, senza frammenti delle sostanze ingerite (Bozza-Marrubini, 1987; Olson, 1994). L'efficacia clinica della lavanda gastrica, similmente a quanto descritto per l'induzione del vomito con ipecacuana, risulta ancora poco valutabile. Essa rimane comunque indicata (Ryan e Homan, 1993; Olson, 1994) : ·per rimuovere sostanze liquide o farmaci (specie se solidi) in caso di sovradosaggio massivo, soprattutto in pazienti con alterazioni dello stato di coscienza e perdita del riflesso della tosse ·in caso di ingestione di sostanze non adsorbibili dal carbone. Attraverso la sonda utilizzata per la lavanda gastrica, inoltre, possono essere somministrati carbone attivato e catartici a pazienti non collaboranti o incapaci di assumere tali farmaci autonomamente. Negli ultimi 15 anni alcuni Autori hanno tentato di valutare l'efficacia della lavanda gastrica e di altri metodi di decontaminazione gastrointestinale da tossici. Al riguardo, esistono pochi studi clinici, alcuni studi sperimentali su animali di laboratorio e studi su volontari sani. L'impiego della lavanda gastrica non ha mostrato alcun "vantaggio clinico" in studi su pazienti intossicati (Kulig et al, 1985; Merigian et al, 1990) rispetto alla sola somministrazione di carbone attivato; essa risulta inoltre in grado di rimuovere solo una piccola frazione del farmaco ingerito in pazienti intossicati da antidepressivi triciclici (Watson et al, 1989). A sostegno di una scarsa efficacia concorrono anche la dimostrazione della presenza a livello gastrico di materiale solido residuo in un'elevata percentuale di pazienti (88%) (Saetta e Quinton, 1991) e della progressione intestinale del contenuto gastrico dopo lavanda gastrica (Saetta et al, 1991); tale ultimo effetto può tuttavia essere evitato o minimizzato attraverso l'impiego di una tecnica corretta. Anche alcuni studi su volontari sani hanno concluso con una valutazione di scarsa efficacia della lavanda gastrica nella prevenzione dell'assorbimento (Tandberg et al, 1986; Tenenbein et al, 1987; Danel et al, 1988). Risultati contrari sono descritti da altri studi nei quali, in una percentuale dei pazienti, la lavanda gastrica si è dimostrata efficace nel rimuovere significative quantità di farmaci quali paracetamolo (Underhill et al, 1990), salicilati (Matthew et al, 1966), antidepressivi triciclici (Watson et al, 1989), barbiturici (Matthew et al, 1966; Allan, 1961; Wright, 1955) e vari altri farmaci (Sauder et al, 1992). L'efficacia della lavanda gastrica, da sola o con somministrazione di carbone attivato, diminuisce inoltre con l'aumentare del tempo trascorso dall'ingestione. La lavanda gastrica associata a carbone vegetale attivato risulta più efficace del carbone da solo, purché la manovra venga effettuata entro un'ora dall'ingestione (Kulig et al, 1985); recenti studi, tuttavia, non hanno confermato tale dato (Pond et al, 1995). Dopo due ore dall'ingestione l'efficacia appare molto limitata (Comstock et al, 1981), e diminuisce ulteriormente dopo quattro ore (Allan, 1961; Wright, 1955). La lavanda gastrica, tuttavia, si e dimostrata efficace nel determinare una significativa asportazione di compresse a distanza di 12 ore dall'intossicazione da salicilati (Ellenhorn e Barceloux, 1988). Non è nota la percentuale dei casi di intossicazione acuta nei quali viene oggi praticata la lavanda gastrica. Negli ultimi anni, ma specialmente dopo una Conferenza di Consenso tenutasi nel 1992 (Anon, 1993), in Francia si è assistito a una netta diminuzione della pratica della lavanda gastrica passando da più del 70% dei casi nel 1987 a meno del 40% nel 1995 (Tournaud et al, 1996). Studi francesi indicano che essa viene effettuata nel 38% dei casi di intossicazione da farmaci negli adulti, mentre la somministrazione di carbone attivato viene prescritta solo nel 18,5% dei casi (Staikowsky et al, 1995). La riduzione della somministrazione di adsorbenti, e in particolare di carbone attivato, a meno del 20% dei casi (rispetto a più del 40% agli inizi degli anni 1990) non ha fatto registrare un aumento del tasso di ospedalizzazione in reparti di rianimazione, né la durata media dei ricoveri (Lambert et al, 1997). L'unica controindicazione assoluta alla lavanda gastrica è rappresentata dalla perforazione nota del tratto gastroenterico; specifici trattamenti e/o manovre consentono di effettuare la lavanda gastrica in specifiche situazioni cliniche (es. insufficienza cerebrale, convulsioni) o in caso di ingestione di particolari veleni (es. solventi, tensioattivi) nei quali occorre particolare attenzione. Le complicanze potenziali della lavanda gastrica (danno meccanico, perforazione esofagea, emorragia gastrica, lievi alterazioni dell'ossigenazione e della frequenza cardiaca, polmoniti da aspirazione, intossicazione da acqua) (Wald et al, 1986; Matthew et al, 1966; Kulig et al, 1985; Justiniani et al, 1985; Thompson et al, 1987; Spray et al, 1976; Leclerc et al, 1981) sono, nella pratica clinica, estremamente rare e non costituiscono un fattore limitante all'impiego della manovra. Il trattamento nella fase post-acuta La corretta gestione del paziente intossicato in fase post-acuta prevede la prosecuzione dei trattamenti (specifici e/o sintomatici) e del monitoraggio delle funzioni alterate dal tossico, nonché i definitivi accertamenti diagnostici. Il quadro clinico in questa fase può evolvere con complicanze e fasi di aggravamento a volte improvvise. L'eventuale assenza di segni o sintomi non è necessariamente predittiva di una buona prognosi, dato che numerose intossicazioni sono caratterizzate da un periodo di latenza piuttosto lungo oppure da periodi di remissione dei sintomi di presentazione. In questa fase è possibile utilizzare al meglio strumenti diagnostici e analitici che non sempre sono facilmente disponibili nella fase del primo soccorso (es. dati analitici di tipo quantitativo). Particolari indagini sono inoltre indicate solo a distanza di un certo tempo dall'esposizione a sostanze tossiche. In caso di indisponibilità di dati analitici specifici, il paziente intossicato deve essere considerato ad alto rischio e necessita di un attento monitoraggio. La scelta del livello di assistenza e monitoraggio clinico (intensivo, sub-intensivo, medico) di cui necessitano i pazienti in questa fase non può essere effettuata solo sulla base delle condizioni cliniche presenti al momento del primo soccorso, ma deve prendere in considerazione nel modo più accurato la possibile evoluzione a medio e lungo termine dell'intossicazione. La disponibilità di competenze tossicologiche può consentire in questa fase una più corretta valutazione del singolo caso. Sequele Sequele tardive sono possibili come conseguenza dell'esposizione acuta a numerose sostanze chimiche, specie per quelle che determinano danni lesionali a carico di organi o tessuti bersaglio. Per molte intossicazioni, inoltre, le possibili sequele non sono note a causa di una rilevazione sporadica e non centralizzata. Il rilevamento delle sequele tardive, e conseguentemente il loro trattamento, è possibile solo attraverso un adeguato follow-up. Questo risulta in genere difficoltoso se i pazienti vengono dimessi dai reparti di cura e rinviati al curante senza specifiche indicazioni. Il riconoscimento e la corretta valutazione delle possibili sequele tardive consente anche di valutare in modo più preciso l'efficacia e la sicurezza dei trattamenti impostati nella fase acuta. Discussione e conclusioni La gestione del paziente intossicato è un atto medico che comprende tutte le fasi della malattia, dal momento del primo approccio diagnostico-terapeutico, fino alla valutazione e al trattamento dei possibili effetti tardivi dell'intossicazione. All'assistenza massimale che viene prestata nella fase acuta dell'intossicazione, tuttavia, fa raramente seguito un follow-up adeguato, necessario per una valutazione corretta delle possibili sequele dell'evento. Anche nella fase acuta, tuttavia, l'approccio al paziente presenta ancora alcuni aspetti controversi che riguardano sia aspetti diagnostici (es. disponibilità e necessità di indagini di tossicologia analitica) che terapeutici, in modo particolare quelli relativi all'impiego di alcuni antidoti e di manovre per la decontaminazione del tratto gastroenterico. Il concetto che lo svuotamento gastrico sia perentorio in tutti i casi di sovradosaggio di farmaci per ingestione è stato giustamente criticato negli ultimi 15 anni. Un approccio più razionale, basato sulla conoscenza di alcuni fondamentali parametri tossicologici e tossicocinetici (es. dose tossica, velocità di assorbimento, effetti), unitamente a una precisa e corretta valutazione dell'attendibilità dell'anamnesi e della concordanza di sintomi e segni presentati dal paziente, consente un impiego più mirato della lavanda gastrica e dell'induzione del vomito, così come della somministrazione di carbone attivato. In effetti, i reali benefici terapeutici dell'applicazione dei metodi di decontaminazione del tratto gastroenterico sono ancora in buona misura mal definiti. Gli studi su volontari vengono effettuati in condizioni troppo distanti dalla realtà dell'intossicazione acuta: vengono utilizzate, ad esempio, dosi assorbite/assorbibili non tossiche, la cinetica del farmaco e i tempi fra l'ingestione e il trattamento sono differenti dalle reali condizioni di intossicazione, e non sono studiabili situazioni comuni quali l'ingestione di sostanze o miscele molto tossiche. Solo gli studi clinici su pazienti intossicati possono chiarire quale sia (i) la quantità di tossico che è possibile sottrarre all'organismo, specie per le sostanze non medicinali, (ii) il vantaggio di una tecnica nei confronti di un'altra in termini di sicurezza, tempo impiegato e costi, (iii) il reale beneficio clinico per il paziente, e (iv) l'intervallo temporale per un'azione efficace in varie condizioni cliniche. Nessuno studio clinico, tuttavia, è riuscito fino ad ora a indagare in modo preciso questi fattori. Di fatto, nessuna manovra di decontaminazione dovrebbe essere utilizzata senza che esistano validi presupposti clinici e tossicologici per la sua applicazione. Per contro, l'evidenza statistica della loro efficacia non deve essere il solo parametro che ne giustifichi l'impiego, tenuto conto della scarsa morbilità di tali trattamenti rispetto agli effetti dei tossici per i quali essi vengono impiegati: se l'efficacia dei metodi non è provata, l'importante è non nocere. Allo stato attuale delle conoscenze è opportuno ritenere che i mezzi e i farmaci necessari per effettuare una lavanda gastrica, un'induzione del vomito e la somministrazione di carbone attivato, debbano essere disponibili in ogni pronto soccorso. In tutti i casi di ingestione di farmaci o sostanze non medicamentose potenzialmente letale o causa di grave intossicazione, le metodiche atte a rimuovere l'assorbimento del veleno devono essere utilizzate il più precocemente possibile per cercare di ottenere l'effetto massimale. L'efficacia del trattamento probabilmente diminuisce se è trascorsa più di un'ora dall'ingestione, ma non di meno è giustificata un'astensione dai trattamenti di decontaminazione, specie nel caso di intossicazioni da farmaci molto pericolosi o da sostanze chimiche non medicinali. BIBLIOGRAFIA 1.Albertson TE, Derlet RW, Foulke GE, Minguillon MC, Tharratt SR. Superiority of activated charcoal alone compared with ipecac and activated charcoal in the treatment of acute toxic ingestion. Ann Emerg Med, 1989; 18: 56-59 2.Allan BC. The role of gastric lavage in the treatment of patients suffering from barbiturate overdose. Med J Aust, 1961; 2: 513-514 3.Anon. Xe Conférence de consensus en rianimation. 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Questo dipende dalle variazioni con l'età delle sue caratteristiche (frequenza, modalità di esposizione, sostanze in causa , gravità delle conseguenze, rischi principali) e dalla mancanza di regolari resoconti integrati degli ospedali e dei Centri Anti Veleni nel nostro paese. I dati correnti riguardano infatti solo la mortalità, che è scarsamente utile per la sua rarità, ma non la morbidità. Per il Nord Italia sono disponibili i dati della sorveglianza avviata dal 1975 a Trieste e in altri 5 ospedali pediatrici nell'ambito dello Studio Multicentrico degli Avvelenamenti del Bambino [1, 2, 3]. La differenziazione della semplice esposizione a sostanze tossiche dall'avvelenamento e la quantificazione dell'entità di quest'ultimo mediante score quantitativo [4] ci hanno permesso di delineare il quadro dell'esposizione alle sostanze tossiche in età pediatrica e di identificare i rischi principali nelle nostre regioni e le loro variazioni nel tempo. La frequenza è alta nei primi anni di vita, poi si riduce per aumentare nuovamente nell'adolescente. Nel bambino piccolo l'esposizione è quasi sempre accidentale e domestica e riguarda sostanze diverse, con tossicità anche modesta; il ricorso al P.S. è precoce, anche in assenza di sintomi, e l'intervento terapeutico evita spesso conseguenze cliniche. Nell'adolescente le sostanze in causa sono meno numerose ma in genere di maggiore tossicità, l'avvelenamento è in parte dei casi volontario, anche se spesso solo dimostrativo; l'accesso al P.S. avviene dopo la comparsa dei sintomi. Sulla base di queste indicazioni è possibile delineare un approccio razionale, che garantisca la qualità delle cure. Esso va differenziato a seconda che l'anamnesi di esposizione a una data sostanza sia certa o dubbia oppure negativa o "negata". Nella prima evenienza, la più comune, l'iter decisionale richiede la valutazione successiva della tossicità della sostanza, dell'entità della esposizione, del tempo trascorso, dello stato clinico del bambino e del rischio di complicazioni. L'accertamento della tossicità della sostanza in causa è facile per i farmaci in base all'Informatore Farmaceutico, ma non per i prodotti commerciali, essendo la loro composizione coperta dal segreto industriale. La consultazione dei Centri Anti Veleni, che dispongono di informazioni confidenziali o dei CD ROM tossicologici permette di escludere la tossicità di molte sostanze e chiudere il problema a questo punto o, in presenza di sintomi, di considerare altre patologie al di fuori dell'ambito tossicologico. Se la sostanza in causa risulta tossica, l'approccio va proseguito per i punti successivi. L'entità dell'esposizione è spesso difficilmente valutabile. La ricostruzione della dinamica è utile, in quanto l'entità della esposizione è in genere minore nell'avvelenamento accidentale rispetto a quello volontario. In non pochi casi il ricupero di parte della sostanza nell'ambiente, permette di escludere una esposizione significativa. L'entità dell'avvelenamento e/o delle sue conseguenze può inoltre essere quantificata in base ad alcuni accertamenti tossicologici o metabolici rapidi. L'accertamento del tempo trascorso tra contatto con la sostanza tossica e il controllo medico è importante in riferimento alla possibile latenza di azione: in corso di essa l'assenza di sintomi non permette di escludere un avvelenamento. La valutazione dello stato clinico del bambino è naturalmente fondamentale: in presenza di sintomi compatibili con la tossicità della sostanza il trattamento va iniziato senza attendere il risultato degli accertamenti tossicologici. In assenza di sintomi le decisioni operative (ricovero, accertamenti, terapie) vanno prese in considerazione della eventuale latenza di azione. Il rischio di complicanze immediate e/o a distanza, anche in considerazione della eventuale azione in due tempi della sostanza in causa, completa la valutazione clinica, e può essere quantificato con accertamenti specifici per alcuni avvelenamenti. Le situazioni in cui l'anamnesi è negativa o "negata" sono più rare: il sospetto nasce dal riscontro di sintomi caratteristici o all'opposto strani, assurdi, non spiegabili con le comuni patologie del bambino. Spesso i familiari negano inizialmente ogni possibile contatto con agenti tossici. Questi pazienti richiedono trattamento sintomatico immediato, da integrare con altri specifici, sulla base della precisazione diagnostica successiva. In questo gruppo rientra il maltrattamento mediante intossicazione, che è particolarmente difficile da riconoscere per l'assenza di reperti obiettivi caratteristici o indicativi dell'abuso. Gli elementi di sospetto da considerare riguardano la discrepanza tra dinamica riferita ed età del bambino, la ripetizione degli eventi, la situazione familiare o personale a rischio [5]. L'algoritmo presentato permette di decidere se rinviare il bambino a domicilio oppure tenerlo in osservazione o ricoverarlo e se effettuare trattamento e/o monitoraggio clinico o tossicologico. Il rinvio a domicilio è possibile se la sostanza è innocua, la dose assunta non è tossica, non si sono avuti sintomi trascorso il periodo di latenza. L'osservazione temporanea è indicata nel paziente asintomatico durante la fase di latenza o dopo trattamento in P.S. per avvelenamento da sostanze a bassa tossicità. Il ricovero è necessario in presenza di segni/sintomi clinici, necessità di trattamento ospedaliero e/o monitoraggio clinico, tossicologico, strumentale; rischio di complicanze. Dal punto di vista terapeutico vanno innanzitutto stabilizzate le funzioni vitali, se compromesse: questo intervento ha la precedenza assoluta rispetto ad ogni altro, anche alla somministrazione di antidoti specifici. Le procedure di neutralizzazione e allontanamento del tossico dall'apparato gastrointestinale (emesi, gastrolusi, adsorbenti e neutralizzanti, catarsi salina) sono attualmente considerate in maniera critica rispetto al passato. La decontaminazione gastrointestinale è necessaria in caso di esposizione a significative quantità di sostanze tossiche. In caso di esposizione accidentale a sostanze che per bassa tossicità o quantità non siano prevedibilmente in grado di causare conseguenze importanti la decisione è invece controversa. Il ricorso all'emesi con l'ipecacuana ha rappresentato la scelta tradizionale, consigliata come primo intervento a domicilio da parte dei genitori; l'osservazione clinica, con o senza somministrazione di carbone vegetale, potrebbe rappresentare una alternativa valida e meno traumatica, anche se mancano studi controllati sulla sua efficacia rispetto all'approccio interventistico finora seguito. Un discorso a parte merita il trattamento con antidoti specifici, di impiego tuttora limitato e basato su esperienze aneddotiche in età evolutiva. Esso va deciso in singoli casi, sulla base di una valutazione costi-efficacia. BIBLIOGRAFIA 1] Marchi AG, Dusi A, Franco D, Messi G, Renier S, Casini P. Avvelenamenti nel bambino a Trieste (1975-85) e loro variazioni. Minerva Pediatr 1987; 39 : 633- 639 2] Marchi AG, Messi G, Renier S et al. The risk associated with poisoning in children. Vet Hum Toxicol, 1994; 36: 112-116 3] Marchi AG. Approccio agli avvelenamenti del bambino. 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Minerva Pediatr 1994; 45 : 401-405 _______________________________________________________ 4 POSSIBILITA' E LIMITI DEL LABORATORIO APPLICATO ALLE INTOSSICAZIONI ACUTE _______________________________________________________ Maria Montagna - Cattedra di Tossicologia Forense, Università degli Studi di Pavia Nel caso di presunto intervento causale, in una patologia acuta, di uno o più agenti esogeni i dati del laboratorio tendono a svolgere il triplice ruolo di: 1) supporto alla diagnosi attraverso la conferma di un sospetto anamnestico e/o la validazione di una "impressione" clinica ovvero escludendo l'esistenza di noxae tossiche; 2) supporto al trattamento in termini di guida alla somministrazione di antagonisti ed antidoti o all'applicazione di tecniche di depurazione appropriate; 3) supporto alla prognosi attraverso il monitoraggio dei livelli plasmatici del tossico anche in funzione dei trattamenti applicati. I dati chimico-tossicologici risultano, inoltre, indispensabili per studi di tossicocinetica, per l'ottenimento di dati esclusivi di tossicità acuta nell'uomo (in particolare quelli relativi alle concentrazioni plasmatiche tossiche di riferimento), per elaborare nuovi protocolli a fini statistici ed epidemiologici specifici. Ciò premesso, i requisiti fondamentali dell'indagine di laboratorio nella materia in discussione, specie nel suo essenziale momento diagnostico, si riconoscono o nell'esigenza di fornire in tempo reale e con elevato livello di affidabilità risultati analitici concernenti il più vasto spettro possibile di sostanze. Alla evidente onerosità dei compiti enunciati si accompagna poi tutta una serie di fattori che rendono ulteriormente complessi gli accertamenti. Alludiamo, da un lato, al numero elevato di sostanze disponibili, alla loro diversificata struttura chimica, all'ampio intervallo delle dosi efficaci e, quindi, delle concentrazioni raggiungibili nei liquidi biologici. D'altro canto sono da considerare l'eventuale assunzione simultanea di più agenti attivi, peraltro non anamnestici, la loro non infrequente lacunosità o, peggio, inaffidabilità. Ne sono di minor peso, sul piano gestionale ed organizzativo la imprevedibilità ed irregolarità numerica e temporale con cui i casi si presentano nonché le possibili implicazioni medicolegali ad essi sottese. Le linee da seguire perché un laboratorio possa aspirare a qualificarsi come un concreto servizio tanto efficiente quanto efficace a favore dell'intossicato acuto sono ben tracciate. A tal fine risultano essenziali i seguenti elementi: un dialogo costantemente aperto tra curante e laboratorista, il quale ultimo non deve sentirsi un "partner" silenzioso bensì un interlocutore attento e critico nel processo di trattamento del paziente; la predisposizione di una lista di priorità, concordata tra clinico e laboratorista, delle analisi praticabili entro tempi tecnici compatibili con le esigenze di diagnosi e di trattamento (ciò anche ad evitare false aspettative da parte del clinico e frustrazioni degli operatori di laboratorio). Ovviamente, l'elenco terrà debito conto - accanto ai dati di incidenza e prevalenza generali - le caratteristiche territoriali, quali ad esempio l'esistenza di industrie chimiche a rischio o l'uso previlegiato di definiti pesticidi; la disponibilità del personale di laboratorio con buona cultura chimica, addestrato nell'analisi strumentale e costantemente aggiornato. In particolare è richiesto che a tale personale sia ben chiaro il concetto di conferma dei saggi presuntivi; la disponibilità di un laboratorio "dedicato" alle analisi chimico-tossicologiche, operante 24 ore su 24 e dotato di strumentazione diversificata e numericamente sufficiente al carico di lavoro effettivo. La dotazione di base deve comprendere apparecchiature per l'esecuzione di saggi immunochimici su urine e per l'esecuzione di analisi cromatografiche (TLC, GLC, HS/GC, HPLC, GC/MS) su sangue e altri liquidi biologici. Un assetto di servizio quale sopra delineato, comportando pesanti oneri organizzativi ed economici, appare ragionevolmente proponibile soltanto per un numero contenuto, e proporzionato all'utenza, di laboratori di riferimento di dimensione regionale o sovra-regionale. In sede periferica potrebbero essere invece delegate ai laboratori mansioni meno complesse: da un semplice supporto diagnostico nel campo degli avvelenamenti più frequenti per i laboratori di un ipotetico primo livello a compiti di tossicologia analitica meglio differenziati e più ampi per quelli di secondo livello. Ferme restando le difficoltà intrinseche ad una diagnosi eziologica d'urgenza, le potenzialità ed i limiti di un laboratorio specialistico di tossicologia clinica a favore dell'intossicato acuto appaiono fortemente condizionate da un insieme di caratteristiche ambientali, strumentali e funzionali, quelle stesse già individuate nel D.P.C.M. 10 febbraio 1984 "indirizzo e coordinamento dell'attività amministrativa delle regione in materia di requisiti minimi di strutturazione, di dotazione strumentale e di qualificazione funzionale del personale dei presidi che erogano prestazioni di diagnostica di laboratorio". In tal senso i tempi sono più che maturi per la elaborazione di linee guida che valgano ad incanalare le nascenti iniziative in una direzione corretta pur se criticamente ponderata in termini di rapporto beneficio-costo. _______________________________________________________ 5 IMMUNOTOXICOTHÉRAPIE : Progrès, échecs et promesses en 1997 _______________________________________________________ Chantal Bismuth - Réanimation Médicale et Toxicologique, Hôpital Fernand Widal, Université Paris VII, Paris L'utilisation d'anticorps à visée thérapeutique en toxicologie ou immunotoxicothérapie est potentiellement un des meilleurs procédés de détoxification qui soient. (1) Cette technique thérapeutique a une histoire, des exigences, des succès, des échecs et des espoirs. 1 - Principes de l'immunotoxicothérapie Chronologiquement, l'immunothérapie suit toujours les mêmes étapes: 1. création d'une immunisation active chez l'animal ( c'est-à-dire, induction d'une sécrétion d'anticorps protecteurs par des injections répétées d'antigènes ), c'est le principe d'une vaccination; 2. utilisation du sérum de l'animal immunisé pour fixer, extraire et éventuellement éliminer un toxique grâce à des liaisons actives spécifiques à partir de différents entités moléculaires d'anticorps ( Tableau I ). Cette immunisation passive est le principe de la sérothérapie; 3. fragmentation des anticorps (Fab', Fab'2, Fv) souvent entreprise avec le triple but: susciter le moins possible de réaction d'intolérance à ces protéines étrangères; étendre leur volume de distribution pour traquer les toxiques dans leurs sites; permettre leur élimination par voie rénale. 2 - Choix de l'antigène Etant donné son coût élevé de fabrication, l'immunotoxicothérapie s'applique aux toxiques: - dont le risque de mortalité est élevé à court terme (digoxine, antidépresseurs tricycliques, colchicine, paraquat, venins de serpent ou de scorpion); - qui sont capables d'induire des réponses immunitaires avec production d'anticorps, ce qui inclut des molécules de nature et de poids moléculaire ( allant des haptènes aux macromolécules) très variables; - qui permettent une fixation de l'anticorps variable selon le volume de distribution du toxique qui peut varier de plusieurs centaines de litres pour les toxiques à faible poids moléculaire (digoxine, colchicine, paraquat) au seul secteur extracellulaire pour les toxiques de poids moléculaire élevé (venins); - dotés d'effets réversibles (toxique fonctionnel) ; rien ne prouve que les atteintes lésionnelles organiques soient réversibles après traitement par anticorps (ce qui explique probablement leur inefficacité sur l'herbicide paraquat) ; cependant, les anticorps peuvent neutraliser un toxique circulant ou résiduel avant sa fixation, alors que la majeure partie de ce toxique a déjà altéré l'organisme, une intoxication létale peut alors être transforée en une affection compatible avec la survie. Certains toxiques sont dangereux à la dose de quelques milligrammes (digoxine, colchicine) ; l'efficacité de leur neutralisation stoïchiométrique par anticorps a été mise en évidence. D'autres intoxications sévères le sont pour des doses de 10 à 100 fois plus élevées (antidépresseurs tricycliques, cloroquine) ; l'administration de doses massives d'anticorps spécifiques ou de leurs fragments n'a pas, actuellement, dans ces situations, de base clinique. Des réserves éthiques et économiques pourraient d'ailleurs être émises. Il est néanmoins possible qu'une neutralisation partielle se révèle, dans ce cas, efficace, comme nous le verrons. 3 - Qualité de l'anticorps. Le choix de la taille de l'anticorps : (immunoglobulines IgM, IgG ; fragments liant l'antigène Fab'2, Fab) dépend de la distribution des toxiques : IgM et IgG sont acceptables pour ceux dont la distribution est vasculaire ; les fragments Fab, Fab'2 sont préférés pour ceux dont la distribution est extravasculaire. (Tableau I) TABLEAU I : LES TOXIQUES ET LEURS ANTICORPS POTENTIELS TOXIQUE ANTICORPS POIDS MOLÉCULAIRE Lipopolysaccharides des bacilles gram-négatifs IgM 600.000 Toxine tétanique IgG 180.000 Venins de vipère ou de scorpion Fab2, Fab'2 100.000 Digoxine, colchicine Fab, Fab' 50.000 Antidépresseurs tricycliques Fv 22.000 Ig : immunoglobuline Fab : région liant l'antigène (antigen-binding) Pour former des complexes anticorps-toxique stables, les sites de liaison de l'anticorps doivent avoir une très grande affinité pour le toxique. Cette affinité est testée en laboratoire avant toute application. PREMIERS SUCCÈS : LES ANTI-VENINS DE SERPENTS ET DE SCORPIONS L'histoire de l'utilisation thérapeutique des anticorps commence en 1887, quand Sewall rapporte que des pigeons peuvent être protégés contre une envenimation par l'inoculation préventive de venin. Curieusement, Sewall (2) n'envisageait pas d'extension thérapeutique à son travail. Heureusement, Calmette (3) montrait en 1894 qu'un animal pouvait être protégé contre l'envenimation avec le sérum d'un autre animal « mithridatisé» par ce même venin. Le concept de sérothérapie était donc né. Mais ces pionniers ne réalisèrent pas que cette thérapie implique un constituant sanguin que nous appelons maintenant anticorps, ni que le fondament de leur travaux reposait sur une interaction spécifique : la liaison antigène-anticorps. En fait, Calmette affirmait initialement que son sérum anti-cobra pouvait traiter toutes les morsures de serpent. Brazil (1901) (4) démontrait bientôt que le sérum anti-cobra ne protège pas contre les venins de crotales. Dès 1900, Ehrlich (5) proposait les termes «Immunité» et «anticorps». Sa description a permis de concevoir comment un sérum peut protéger le receveur. Cette conception théorique était nécessaire comme base des recherches futures. La tendance actuelle de préparer des anticorps polyclonaux plutôt que monoclonaux, et des anticorps ovins plutôt qu'équins, semble essentielement liée à un problème de technicité industrielle. Le risque de prions dans les tissus ovins peut, à l'avenir, modifier cette tendance. La fragmentation des anticorps accroît leur sécurité et minimise les risques de maladie sérique, si invalidante. Certes utiles contre des haptènes (< 1.000 Da), elle reste discutable contre des toxiques de haut poids moléculaire, comme le sont les venins animaux, dont le complexe toxique-Fab peut largement dépasser 60.000 Da, donc incapable de filtration glomérulaire. Les avantages du fractionnement pouraient alors ici être dépassés par l'instabilité du complexe avec risque de relargage secondaire du toxique. Reste que des très nombreuses études avec fragmentation (6) s'effectuent actuellement contre les crotalidés, les vipères, les scorpions et semblent promettre une meilleure efficacité, à moindres doses et à risques de sensibilisation diminués. UNE DÉMARCHE ABOUTIE : LES ANTICORPS ANTI-DIGITALIQUES L'immunotoxicothérapie contre les digitaliques reste un prototype de pensée scientifique et d'accomplissement clinique: immunisation active obtenue chez le lapin en 1967 (7) ; quantification radio-immunologique des digitaliques en 1969 (8) ; isolement et caractérisation des anticorps en 1970 (9) ; immunisation passive obtenue chez le chien en 1971 (10) ; fragmentation d'anticorps ovins en 1973 (11) ; traitement d'une intoxication humaine par digoxine en 1976 (12) ; extension à la digitoxine chez l'animal en 1977 (13) ; traitement d'un intoxiqué humain par la digitoxine en 1980 (14) ; Production actuelle des Fab La molécule de digoxine étant trop petite pour être immunogène (780 Da), les moutons sont tout d'abord immunisés avec un complexe digoxine-sérum albumine (la sérum albumine étant une protéine porteuse). Puis les sérums sont recueillis chez les animaux ayant des titres élevés d'anticorps à haute affinité et spécificité pour la digoxine. Les anticorps anti-digoxine (IgG) sont séparés et hautement purifiés. Le clivage de l'IgG par la papaïne donne 2 fragments Fab et un fragment Fc. Les fragments Fab, spécifiques de la digoxine, sont ensuite séparés par chromatographie d'affinité. Les fragments Fab sont 3 fois plus efficaces que les IgG (150.000 daltons). Leur petite masse moléculaire (50.000 Da) favorise une action plus rapide que les IgG, du fait de leur plus grand volume de distribution, et permet une élimination rénale précoce du complex Fab-digitalique. Avec l'élimination des déterminants antigéniques et du site de fixation du complément (Fc), l'immunogénicité des fragments Fab se trouve atténuée, comparée à celle de l'IgG entière, diminuant ainsi le risque de réaction immune. Mécanisme d'action Les fragments Fab ont une double action, toxicodynamique et toxicocinétique (15). Administré par voie veineuse, l'anticorps se lie à la molécule de digitalique circulante et engendre un complexe Fab-digitalique inactif car incapable de se lier aux récepteurs des digitaliques : les adénosine-triphosphatases : (ATPases membranaires). Quoique la concentration sanguine totale du digitalique s'élève de 5 à 20 fois (correspondant au digitalique complexé par le Fab), le taux du digitalique sanguin libre devient nulle quelques minutes après l'injection des anticorps. Suivant la loi d'action de masse, la digitaline intracellulaire et qui est celle liée aux récepteurs sont déplacées, et les ATPases membranaires ainsi réactivées. Lorsque la fonction rénale est normale, la demi-vie d'élimination des complexes Fab-digitaliques est d'environ 10 à 20 h, inférieure à la demi-vie spontanée qui est de 36 h pour la digoxine et de 160 h pour la digitoxine. À cette action toxicocinétique des fragments Fab, s'ajoute une action toxicodynamique. En pratique courante, l'immunothérapie corrige les symptômes de l'intoxication digitalique aiguë (digitoxine ou digoxine) en moins de 60 min. Effets indésirables À ce jour, aux États-Unis, plus de 1 000 observations de patients traités par fragments Fab pour des intoxications aiguës par digitaline potentiellement létales ont été rapportées (16). Les effets secondaires liés aux fragments Fab sont rares. Des réactions d'hypersensibilité (réactions allergiques à type de rash prurigineux) ont été rapportées dans 0.8% d'un collectif de 717 adultes. Il est possible que les Fab aggravent une insuffisance cardiaque préexistante. C'est pourquoi, en cas d'insuffisance cardiaque, un traitement par inotropes peut être nécessaire après une neutralisation complète. Une rechute des signes toxiques peut survenir après immunothérapie, correspondant à une redistribution de digitaliques non liés (phénomène de «redigitalisation» spontanée). La réapparition des nausées et vomissements annonce cette «redigitalisation» qui, de nouveau, peut s'accompagner de troubles du rythme sévères. Ce risque existe chez les patients ayant reçu une dose de fragments Fab inférieure à 50% de la dose adéquate. Indications des Fab (15) Une neutralisation par Fab est coûteuse * et semble plus efficace pour prévenir que guérir une fibrillation ventriculaire ou une asystole. Toutefois, une neutralisation équimolaire n'est pas toujours nécessaire. * Un flacon de Digidot (Boerhinger Mannhein) contient 80 mg de Fab et neutralise 1 mg de digitoxine ou de digoxine. Le coût d'un flacon est d'environ 5 000 F. Digibind (Wellcome) (1 500 F), est moins onéreux que Digidot, mais le flacon ne contient que 40 mg de Fab. Traitement prophylactique Cette attitude cherche à prévenir les troubles du rythme graves. Elle consiste en une perfusion précoce de la moitié de la dose équimolaire de fragments Fab. Elle concerne les intoxications aiguës marquées par une bradycardie isolée chez des patients ayant des facteurs de mauvais pronostic : sexe masculin, âge supérieur à 60 ans, antécédents de cardiopathie, bloc auricoloventriculaire, hyperkaliémie dépassant 4.5 mmol/L. Dans ces cas, l'administration différée de Fab expose à la survenue brutale d'arythmies fatales, malgré la pose préventive d'un entraînement électrosystolique. L'échec de l'atropine pour accélérer la fréquence cardiaque au delà de 60/min doit conduire à l'administration d'une dose prophylactique (neutralisation semiéquimolaire) par perfusion lente (en 1 heure). Si la fréquence cardiaque reste en deçà de 60/min, une nouvelle dose est administrée. Il faut souligner que le bénéfice clinique d'une dose semi équimolaire de Fab n'a pas encore été évalué dans cette situation : si le médecin décide de traiter une intoxication par digitalique, responsable d'une bradycardie isolée, rebelle à l'atropine, par une dose sémi équimolaire de Fab, nous insistons sur la nécessité d'une surveillance étroite et prolongée du patient (au moins pendant 72 h). Chez l'enfant, du fait du faible poids corporel, une neutralisation équimolaire est toujours préférable. Traitement curatif Une administration curative reste adaptée en cas de complications menaçant immédiatement le pronostic vital : troubles du rythme ventriculaire (tachycardie ventriculaire ou fibrillation ventriculaire), bradyarythmie ou bradycardie sinusale inférieure à 40/min réfractaire à 1 mg d'atropine, bloc auriculo-ventriculaire de 2e ou de 3e degré avec rythme ventriculaire lent : asystole ventriculaire ; hyperkaliémie supérieure à 6 mmol/L ; infarctus mésentérique ou choc cardiogénique. Chez ces patients, une dose curative de Fab (neutralisation complète équimolaire) doit être administrée sans délai et rapidement (en 15 min). Les tests cutanés ne semblent pas nécessaires pour détecter des réactions d'hypersensibilité. Posologie des fragments Fab La dose est calculée à partir de la quantité totale de glycoside digitalique dans l'organisme ; laquelle est estimée soit de la quantité ingérée, soit à partir de la concentration sérique (15). Comme la biodisponibilité des digitaliques (quantité absorbée entre 20 et 80% de celle ingérée) et le délai entre l'ingestion et l'admission sont variables, la quantité totale de digitalique calculée à partir de la dose ingérée pourrait mener à une surestimation. Nous suggérons, en dehors de l'urgence extrême, d'utiliser la concentration plasmatique de digitalique pour connaître la dose de fragments Fab à administrer (Tableau II). TABLEAU II : CALCUL DE LA QUANTITÉ TOTALE DE GLYCOSIDE DANS L'ORGANISME (15) À partir de la dose ingérée Charge digitalique = dose ingérée (en mg) x facteur de biodisponibilité de la digoxine (60%) ou de la digitoxine (100%) À partir de la concentration sérique de glycoside Charge digitalique = concentration sérique de glycoside (ng/mL) x volume de distribution (VD) x poids corporel (kg). VD de la digoxine = 5,6 L/kg VD de la digitoxine = 0,56 L/kg En cas d'intoxication sévère chez l'adulte, si la quantité ingérée est inconnue, une dose de 800 mg de Digidot (10 flacons) est recommandée. Cette dose neutralise 10 mg de digitaline. Dans notre expérience, 800 mg de Fab ne suffisent pas pour une neutralisation complète dans toutes les intoxications aiguës volontaires par digitalique, puisque les doses ingérées peuvent être extrêmes. Aussi, si une dose initiale de 800 mg de Fab ne réussit pas à réduire un trouble du rythme, une autre dose de 800 mg doit être tentée. En cas de surdosage digitalique chronique, une dose moyenne de 80 à 160 mg de Fab est généralement suffisante. UN ÉCHEC : LES ANTICORPS MONOCLONAUX ANTI-ENDOTOXINE Le souhait d'utiliser les anticorps dans le traitement des septicémies découle du mauvais pronostic avec septicémies à bacilles gram-négatifs, malgré le traitement antibiotique usuel. Mortalité et morbidité peuvent être théoriquement diminuées par une interruption de la cascade inflammatoire déclenchée par l'infection. Une fois enclenchée, en effet, cette cascade inflammatoire induit chez l'hôte des lésions tissulaires éventuellement mortelles. Ces manifestations toxiniques des bacilles gram-négatifs semblent liées à un lipopolysaccharide, composant de la membrane extracellulaire des bactéries. Ce lipopolysaccharide (ou endotoxine) se compose de 3 parties: une chaîne polysaccharide 0, qui est connectée à une région centrale R, elle même liée au lipide A. Le lipide A, partie toxique de l'endotoxine, existe dans la plupart des espèces bactériennes. Des anticorps monoclonaux dirigés contre le lipide A pourraient théoriquement interrompre la cascade inflammatoire au cours des infections à bacille gram-négatif. Deux anticorps monoclonaux dirigés contre l'endotoxine bactérienne ont été développés pour le traitement adjuvant des septicémies à bacilles gram-négatifs (17, 18). E5 est un anticorps monoclonal d'origine murine (IgM), produit chez la souris immunisée avec la souche eschérichia coli J5, qui se lie à l'épitope du lipide A. HA-1A est un anticorps monoclonal qui se lie lui aussi au lipide A ; il est obtenu à partir d'un hétérohybridome produit par les cellules spléniques de patients vaccinés avec eschérichia coli J5 avant splénectomie. E5 et HA-1A ont été testés lors d'essais cliniques contrôlés, mais aucun n'a réduit de manière significative la mortalité au cours des septicémies et n'a donc pu être approuvé par la Food and Drug Administration aux États-Unis. Récemment, une étude sur les anticorps anti-tumor-necrosis-factor s'est aussi révélée un échec (19). La prochaine décennie verra peut-être l'avénement d'un anticorps monoclonal véritablement efficace dans le traitement des septicémies à bacilles gram-négatifs. UNE AVANCÉE : LES ANTICORPS ANTI-COLCHICINE Jusqu'à récemment, il n'existait pas de traitement spécifique de l'intoxication par la colchicine, dont la mortalité est de 90% pour des doses supérieures à 0.8 mg/kg. Le pronostic est particulièrement sévère en cas de collapsus hémodynamique précoce. Or, en 1980, alors que la fixation intracellulaire de la colchicine était considérée comme une limite à l'efficacité de l'immunotoxicothérapie, une réversibilité de fixation sur les microtubules a été mise en évidence in vitro (20). Une immunisation active était obtenue en 1989 chez des lapins. Ceux-ci, immunisés, survivaient à une dose létale (21). De la même façon, des souris résistaient aux mêmes doses létales lorsqu'elles reçevaient des IgG d'origine caprine après la phase de distribution (22). En 1990, une autre équipe réussissait avec un anticorps monoclonal à annuler les effets in vitro de la colchicine sur des anomalies cellulaires de hamster, même si l'anticorps était administré 6 h après le toxique (23). La fragmentation de ces anticorps caprins permit de passer à l'application humaine (24). Modification de la toxicodynamique sous traitement par anticorps (cas clinique) Une femme de 25 ans a été admise à l'hôpital à Bordeau, 24 h après l'ingestion de colchicine, 1 mg/kg. Elle présentait des vomissements, une diarrhée, une hypotension avec une sévère déshydratation intracellulaire. Elle fut réhydratée et transférée sous dobutamine à Paris à la 36e h. Elle est consciente, en collapsus cardiovasculaire avec une oligurie et un syndrome de détresse respiratoire aiguë. Le facteur V de la coagulation était à 5% avec un important saignement aux points de ponction. Une surveillance hémodynamique continue par cathétérisme cardiaque droit montrait un état de choc cardiogénique réfractaire à la dobutamine. Les facteurs pronostiques annonçaient 99% de chance de décès dans les 24 h. Avec son consentement, la patiente reçu, à la 40e h, une neutralisation à 0,125 molaire de la dose ingérée de colchicine par des anticorps spécifiques d'origine caprine, ce qui représentait, à cet instant, un rapport anticorps/colchicine circulante de 0,4. En cours de perfusion, l'état de choc devint maîtrisable par les amines pressives. Le sevrage en médicaments cardiotropes fut possible 36 h après l'admission. Le syndrome de détresse respiratoire aiguë mis plus longtemps à guérir. Au 3e jour, apparu une aplasie médullaire, contemporaine d'une infection bactérienne sensible aux antibiotiques. La neutropénie a duré 2 jours. Une alopécie survint dans les suites. S'installa aussi une polynévrite sensitive transitoire des membres inférieurs. La tolérance locale de l'immunothérapie fut parfaite. Il n'y a pas eu de maladie serique. Finalement la patiente survit. Un an plus tard, il n'existe pas de séquelles. Modification de la toxicocinétique sous anticorps Quarante heures après l'ingestion de 60 mg de colchicine, la patiente reçut 6,4 g de fragments Fab spécifiques en perfusion sur 7 h par voie endocavitaire à travers un cathéter de Swan Ganz. A l'arrivée à l'hôpital de Bordeaux, à la 27e h après l'ingestion, la colchicinémie était à 24 ng/mL. Dix minutes seulement après le début de la perfusion de Fab, (40 h après l'ingestion), la concentration de colchicine totale s'élevait jusqu'à 6 fois la concentration initiale. La colchicine libre devient indétectable sur une période de 7 h. Une diminution de 4,4 fois le volume de distribution de la colchicine sous traitement Fab indique qu'une quantité importante de colchicine est déplacée des sites périphériques et redistribuée dans l'espace extracellulaire correspondant au volume de distribution des fragments Fab. La perfusion de Fab a augmenté 6 fois le taux d'excrétion urinaire (24 et 134 µg/h respectivement avant et après l'administration de Fab). La colchicine fut éliminée par voie rénale, liée pour 98% aux fragments Fab sur une période de 16 h. La quantité de Fab liée à la colchicine excrétée par voie rénale était égale à la quantité de fragment Fab recueillie dans les urines. Ainsi la neutralisation par les fragments Fab est proche de 100%. La quantité de colchicine neutralisée est estimée à 3,7 mg sur les 9 mg de colchicine présente dans l'organisme avant l'administration des Fab. L'hypothèse d'extraction cellulaire de la colchicine par les anticorps est donc confirmée. Cette observation est restée unique car aucune équipe ne dispose actuellement de stock de ces anticorps caprins. LES ESPOIRS Immunothérapie dirigée contre les antidépresseurs tricycliques Les fragments d'anticorps spécifiques sont cliniquement utilisables contre les morsures de serpents, au cours des intoxications à la digoxine ou à la colchicine. Les antidépresseurs tricycliques étant la première cause de mort par intoxication volontaire aux États Unis (25), une immunotoxicothérapie pouvait être envisagée. La dose mortelle d'antidépresseurs tricycliques (ADT) était 10 à 100 fois plus élevée que celles des toxiques précédemment étudiés, la neutralisation devrait requérir des doses correspondantes d'anticorps plus élevées (jusqu'à plusieurs g/kg). Des études préliminaires sur les anticorps spécifiques contre les antidépresseurs tricycliques suggèrent que l'administration de telles doses n'est sans doute pas indispensable. Des Fab' monoclonaux à haute affinité pour les antidépresseurs tricycliques ou des fragments Fab polyclonaux d'origine ovine s'opposent rapidement à la toxicité cardiovasculaire des tricycliques désipraminiques chez le rat et augmentent la survie. L'effet thérapeutique survient en quelques minutes et est évident avec des doses relativement faibles de Fab et Fab' (10 à 30% de la dose équimolaire de désipramine), suggérant que ces fragments d'anticorps redistribuent préférentiellement la désipramine en dehors d'un compartiment rapidement rééquilibré (26). Les Fab' ou Fab sont généralement bien tolérés chez le rat, mais des doses plusieurs fois supérieures à celles utilisées chez l'homme pour d'autres toxiques peuvent entraîner des troubles cardiovasculaires ou la mort. Un rat sur huit recevant de fortes doses de fragments Fab spécifiques anti-tricycliques meurt (2 g/kg représentant un rapport molaire Fab/désipramine de 0,22). La mort des animaux peut s'expliquer par la perfusion rapide de quatités relativement élevées de Fab. La stratégie pour l'avenir consiste à diminuer les doses nécessaires. L'association molaire de Fab spécifiques anti-tricycliques au bicarbonate de sodium molaire, traitement standard de l'intoxication aux ADT, semble plus efficace chez le rat que chaque traitement séparément (27). Le développement de fragments d'anticorps plus petits est aussi possible. Une chaîne de fragment Fv, qui a la moitié de la taille des fragments Fab, a été clonée et conserve une grande affinité pour la désipramine. Comme la chaîne de fragment Fv a une demi-vie d'élimination plus courte et une excrétion rénale plus importante que les Fab, elle présente un intérêt thérapeutique potentiel (28). Ces diverses données suggèrent que l'utilisation de fragments d'anticorps spécifiques est cohérente dans le traitement de l'intoxication par antidépresseur tricyclique. Immunothérapie anti-cocaïne En 1972, la preuve d'une immunisation active entre la morphine était apportée (29). Mais cette thérapeutique n'eut pas à être proposée à l'homme, l'apparition de la naloxone périmant d'emblée l'expérimentation clinique. C'est la loi du genre : chaque fois qu'un traitement, relativement moins coûteux, efficace, et sans activité intrinsèque, c'est à dire inactif en l'absence du toxique, apparaît, il l'emporte immédiatement. Récemment, en Californie, Carrera (30) a réalisé chez le rat une immunisation active contre la cocaïne, problème majeur de la société américaine (2 millions d'usagers). La molécule de cocaïne, en elle-même trop petite pour être immunogène, a été fixée à une molécule plus grande, la protéine keyhole limpet hemocyanin (KLH) utilisée comme porteur pour induire une réponse immunitaire. La procédure d'immunisation court-circuite le système nerveux central et évite le passage hémato-encéphalique de cocaïne. Ni stimulation de l'activité comportamentale ni dépression n'ont été observées après immunisation, résultats cohérents avec l'impossibilité pour le conjugué de traverser la barrière hémato-encéphalique. La molécule n'a apparemment pas d'acticvité intrinsèque et n'a montré aucun effet secondaire sur les groupes de rats rendus immuns à la dépendance. Après obtention de l'immunisation par le conjugué stable, l'activité motrice induite par la cocaïne et les comportements stéréotypés étaient abolis chez les rats (mais non ceux induits par l'amphétamine, drogue-contrôle). De plus, après injection aiguë de cocaïne, les concentrations de cocaïne dans le striatum el le cervelet des animaux immunisés étaient très abaissés par rapport à ceux des animaux témoins. Après ce procédé d'immunisation active (avec projet d'un vaccin), une recherche d'immunisation passive (projet d'une sérothérapie) peut être envisagée. Actuellement, en France, sont testés la possibilité de fabriquer des fragments Fab anti-cocaïne ; des modèles animaux montrant l'inhibition de la capture cérébrale et myocardique de la cocaïne et aussi, peut-être, l'extrusion de la cocaïne de ces sites, sous l'effet du sérum ; la préparation de Fab anti-cocaïne comme médicament utilisable chez l'homme pourra venir ensuite. CONCLUSION L'utilisation d'anticorps anti-toxiques est entrée en pratique clinique courante contre les venins des serpents et de scorpions et contre les digitaliques. Son indication a été étendue à la colchicine (mais sans disponibilité banalisée des anticorps caprins spécifiques à ce produit). L'immunotoxicothérapie pourrait s'étendre dans les prochaines années aux antidépresseurs tricycliques et à la cocaïne. RÉSUMÉ : L'immunotoxicothérapie est utilisée contre les animaux venimeux depuis presque un siècle. Les années récentes ont apporté des innovations majeures dans sa sécurité et son efficacité, grâce aux procédés de fragmentation permettant une distribution plus grande et une sensibilisation moindre avec élimination rénale. Ces progrès sont patents dans le cas des digitaliques et de la colchicine. Des espoirs existent pour les antidépresseurs tricycliques et la cocaïne. L'efficacité de l'immunotoxicothérapie ne supprime pas la nécessité d'un traitement symptomatique agressif au cours des intoxications menaçant le pronostic vital. Ses effets secondaires apparaissent rares et mineurs : ils sont dus à l'hétérogénéité des sites de liaison active et à l'immunogénicité (avec ses risques d'hypersensibilité et de maladie sérique). Le coût élevé de l'immunotoxicothérapie et les restrictions de ses indications aux médicaments toxiques à doses faibles (de l'ordre de quelques mg) limitent pour l'instant son usage. Références 1 - Scherrmann JM. Antibody treatment of toxin poisoning. 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Nature 1995, 378: 727-730 _______________________________________________________ 6 NEW FRONTIERS IN CLINICAL TOXICOLOGY _______________________________________________________ Stephen W. Borron, M.D., M.S. - Visiting Researcher. Service du Pr. Bismuth, Réanimation Médicale et Toxicologique, Hôpital Fernand Widal, Université Paris VII, Paris New Antidotes Two additional antidotes are likely to be available this year in Europe and in the United States. Neither of these drugs is truly "new", as clinical treatment with the drugs has been going on at Fernand Widal Hospital and a few other centers for greater than 10 years. While hydroxocobalamin and 4-methylpyrazole are already familiar drugs to all clinical toxicologists and to many intensive care specialists, it is worthwhile to review the indications for these drugs and to compare them with other available antidotes. Hydroxocobalamin Hydroxocobalamin (Cyanokit®, Lipha SA, Lyon, France) (HOCo) is vitamin B12a, a water-soluble active form of vitamin B12. It is found naturally in the body in very small concentrations, and has been used to treat B12 deficiency in small doses. Its interest in toxicology is due to its strong affinity for the CN- ion, forming an irreversible bond in vivo, thus making HOCo a potentially useful cyanide antidote. Advantages HOCo has a number of advantages over existing cyanide antidotes, first among these being safety. HOCo, in clinical experience as an antidote, used in doses of 5-15 grams has proven to be extraordinarily safe. Clinically, it improves hemodynamics, raising blood pressure and sometimes reversing cardiac arrest in patients with cyanide-associated cardiovascular collapse, but without significant adverse effects on blood pressure or pulse in patients subsequently found not to be intoxicated with cyanide. Furthermore, it has been found to result in no significant biological (laboratory) alterations in intoxicated or non-intoxicated patients. Occasional transient eosinophilia has been observed, however no lasting effects have been noted on renal, hepatic, or hematologic indices when followed for three days after treatment. Anaphylaxis, which has been reported after repeated IM injection of hydroxocobalamin has not been observed in the patients treated at Fernand Widal. This safety must be compared with that of other antidotes. the other available cobalt-based antidote is dicobalt EDTA. This antidote, while efficacious in the presence of cyanide, may be quite dangerous to administer in the absence of poisoning, making correct diagnosis critical. Dicobalt EDTA may result in severe headache, nausea and vomiting, hypotension and hypoglycemia. Because cyanide poisoning is difficult to confirm prior to antidotal treatment, this renders dicobalt EDTA a relatively poor choice. The current alternative to cobalt-based antidotes are the methemoglobin formers, sodium nitrite and dimethylaminophenol (DMAP). While the antidotal mechanism of these drugs remains to be completely clarified, it is known that they form methemoglobin, which has the capacity to bind with cyanide to form cyanmethemoglobin, which may then transfer the cyanide ion to thiol groups of natural rhodanese or to sodium thiosulfate to form excretable thiocyanates which are much less toxic. The problem with the methemoglobin formers is that they deprive the body of oxygen carrying capacity. As cyanide inhibits the oxidative phosphorylation pathways, oxygen deprivation may be further compounded by this diminution in carrying capacity. In smoke inhalation victims (a common source of cyanide poisoning), lung thermal and chemical injury result in diffusion abnormalities and decreased environmental oxygen, along with carbon monoxide result in a situation of both simple and chemical asphyxia. Thus any futher decrease in oxygen availability may be detrimental. In addition to their effects on oxygen carrying capacity, the methemoglobin inducers may result in hypotension, due to their vasodilatory properties. Deaths have occured due to overzealous administration of these drugs. Sodium thiosulfate, a thiol group donor which may replace or replenish native rhodanese, is efficacious and safe but works to slowly to be used alone in serious cyanide poisoning. It is too early to compare these agents for efficacy. While hydroxocobalamin appears to be efficacious in clinical experience, controlled trials have not been conducted to compare it with other antidotes, and may never be, due to the rarity of pure cyanide poisonings and the inability to safely use other agents in the setting of smoke inhalation. Additional laboratory comparisons would be useful, however. Disadvantages Hydroxocobalamin must be given in enormous doses (up to 15,000 x doses used for vitamin deficiency) to bind cyanide in an equimolar fashion and is relatively unstable in solution. This previously posed a manufacturing problem, which has been resolved through the production of a lypholized product which comes in a ready to mix package with a diluent. It is much more expensive than nitrites, but given the relatively infrequent use of cyanide antidotes, this should not pose a significant economic problem in developed countries. Dose and Administration Hydroxocobalamin 5 grams is administered in normal saline as an infusion over 20 minutes in adult patients. In the case of cardiac arrest, the initial dose and repeat doses may be given more rapidly. HOCo may also safely be repeated if response is judged inadequate, up to a total dose of 15 grams. Additional doses generally should be administered over a longer period of time (several hours). For poisonings by cyanide gas or salts, a single dose adequate to bind the cyanide present should be sufficient, as the blood half-life of cyanide is about 1 hour, whereas that of HOCo is about 20-26 hours. In the case of poisoning by nitriles (R-CN), in vivo metabolism to cyanide may require additional doses of hydroxocobalamin and/or administration of sodium thiosulfate. The dose for children is 50 mg/kg IV. 4-Methylpyrazole 4-methylpyrazole (Fomepazole®, Orphan Medical, Minnetonka, MN, USA) (4-MP) is a reversible inhibitor of alcohol dehydrogenase (ADH), the enzyme responsible for metabolism of ethanol, isopropanol, methanol, ethylene and diethylene glycols (EG and DEG), and glycol ethers. Significant clinical experience has been obtained for its use as an antidote in ethylene glycol poisoning. Its use in two clinical cases of methanol poisoning and in a case of diethylene glycol poisoning suggest that it may be effective for these poisonings as well. 4-MP works by preventing the metabolism of these alcohols to their more toxic metabolites, thus allowing them to be excreted unchanged. Advantages The standard treatment of poisoning by alcohols and glycols has been the administration of ethanol, a competitive ADH substrate (not inhibitor) and dialysis. There are several advantages of using 4-MP. First, as it is not a substrate for alcohol dehydrogenase and has a stronger affinity for the enzyme than the toxic alcohols. Ethanol, which has a greater affinity than methanol, EG, and isopropanol, is effective in blocking their metabolism. However, it complicates treatment in that the patient must be maintained in an intoxicated state, resulting in behavioral problems. Adequate blood ethanol concentrations can be difficult to maintain (particularly in chronic alcoholics) and children tolerate ethanol very poorly. They may develop severe hypoglycemia, hypothermia, and coma if doses are excessive. Dialysis is lifesaving, but is invasive and associated with significant complications. When 4-MP is administered early (before renal toxicity has occurred), dialysis may be avoided in many cases. In addition to these advantages, 4-MP levels are unnecessary for treatment (not true for ethanol therapy). It may pose a significant advantage in countries where dialysis is not widely available, particularly in epidemics of toxic alcohol or glycol poisoning. 4-MP has been shown to be safe in laboratory and clinical trials. While transient mild elevation of hepatic enzymes has been reported, no long-term effects have been seen. Disadvantages The only apparent disadvantage of 4-MP compared with ethanol/dialysis is the duration of treatment. 4-MP treatment in EG poisoning generally requires only about 3 days in the hospital. However, because methanol has a much longer half-life, 4-MP treatment must be continued for 7-10 days (until methanol is undetectable). This time may be shortened by dialysis, thus the risk of dialysis must be weighed against the benefit of reduced hospitalization time. Dose and Administration 4-MP is administered intravenously in a dose of 10-20 mg/kg/day in two divided doses given 12 hours apart. This dose is tapered successively (7,5/5/2,5 mg/kg/day) until the toxic alcohol or glycol is no longer detectable in the blood and urine. Clinical improvement in acidosis, mental status and renal function may be seen within a few hours of administration. Sodium bicarbonate or lactate should be given as well for the treatment of metabolic acidosis. A New Frontier in our Understanding of Cellular Toxicokinetics P-Glycoprotein (Multidrug Resistance Protein) P-glycoprotein (P-GP) is a 190kd membrane glycoprotein which is also known as the multidrug resistence protein, or MRP. This is one of a group of proteins which provide a phylogenetically ancient mechanism for extruding xenobiotics from the cell. It has been isolated in bacteria and algae, in many animal species, and is found in varying quantities in many tissues in man, including kidney, liver, bile duct canaliculi, intestine, brain (blood brain barrier), testicle, placenta and blood cells. The importance of this protein in humans was first appreciated by oncologists, who discovered that certain tumors were much more resistant to treatment by chemotherapeutic agents. Subsequent studies have revealed that these tumors often have a much greater expression of the MDR-1 (multidrug resistance) gene, which codes for P-GP. This led to the search for modulators which might decrease either the activity of P-GP directly or the expression of the gene. It is becoming increasing clear that P-GP has a pivotal role in the interaction of drugs and may significantly effect outcomes in poisoning. While studies of these effects are in their infancy, it is important to understand the potential consequences of P-GP in clinical toxicology. A growing number of compounds are known to be inhibitors and/or substrates of P-GP: Chemicals having P-GP interaction Pesticides, Organophosphorous Chlorpyrifos oxon Pesticides, Pyrethroids Deltamethrin Pesticides, Organochlorine DDT Calcium-channel blockers Verapamil Azidopine Nicardipine Antibiotics, Macrolide Erythromycin Josamycin Antimitotics Anthracyclines Daunorubicin Doxorubicin Vinca alkaloid Vinblastine Vincristine Actinomycin D Steroids Dexamethasone Calmodulin antagonists Protein kinase C inhibitors Quinine Derivatives Quinine Mefloquine Cloroquine Colchicine Cyclosporines Taxus derivatives Taxol Taxotere Ivermectin We are at the tip of the iceberg in our understanding of the important effects that P-GP and related proteins may have in clinical toxicology. A few examples suggest this importance, however. First, P-GP may be responsible for many of toxic side effects seen in chronic therapy. It is known that digoxin is transported across cell membranes by P-GP (Shinkel). Quinine-derived compounds, such as quinidine and calcium channel blockers, such as verapamil are inhibitors of P-GP. Thus, inhibition of cellular excretion of digoxin may explain the fact that digoxin toxicity is sometimes seen in patients treated with quinidine and calcium channel blockers, even in the absence of "toxic" plasma concentrations of digoxin. Furthermore, this same inhibition may result in exaggerated toxicity with certains toxins. We recently published a case of colchicine poisoning complicated by virtually steady state blood concentrations over the three days of the patient's survival (Borron et al, 1996). Colchicine is largely excreted by the bile (85%). P-GP is responsible for canalicular drug excretion and macrolide antibiotics, such as the josamycin taken by this patient along with the colchicine, may inhibit P-GP. Thus we believe josamycin resulted in decreased cellular and biliary elimination of colchicine, resulting in altered kinetics and ultimately the death of the patient. It has also been shown that cancer patients previously exposed to pesticides may have elevated P-GP and not respond adequately to natural product chemotherapy (Lanning et al, 1996). It stands to reason that cancer patients who have developed MDR (due to increased expression of P-GP) may be resistant to other therapies as well and at greater risk after suicidal ingestion of P-GP transported toxins. Epileptics may be resistant to treatment with anticonvulsants due to differing expression of P-GP (Tishler, 1995). Brain biopsy specimens of intractable epileptics had MDR1 mRNA levels greater than 10 times those of normal brain, thus explaining why "therapeutic" plasma concentrations are not protective in certain patients. It has recently been shown that P-GP inhibition may be responsible for the neurotoxic side effects seen occasionally with mefloquine (Rifkin et al, 1996). Clearly, we have much to learn about the role of P-GP and similar membrane protein pumps in clinical toxicology. Whether we will one day be able to manipulate these pumps (using inducers, perhaps, rather than inhibitors) to good use remains to be seen. Until such time, clinicians need to be aware of the possibility of increased toxicity whenever inhibitors of P-GP are present, and to keep this protein in mind when toxic effects are not easily explained, as in the case of "therapeutic" drug concentrations. Further research is greatly needed. References on request. _______________________________________________________ 7 Conclusioni _______________________________________________________ Roberto Zoppellari - 1° Servizio di Anestesia e Rianimazione, Azienda Ospedaliera Arcispedale S. Anna, Ferrara Anche se le intossicazioni rappresentano una causa non infrequente di ricovero ospedaliero, l'approccio corretto al paziente intossicato è spesso discusso se non controverso. Per questo ad alcuni esperti italiani di tossicologia è stato chiesto di puntualizzare lo stato dell'arte sulla gestione del paziente intossicato, adulto e bambino, e sulle possibilità laboratoristiche offerte al clinico. Di quanto esposto dal Dott. Locatelli, intendo sottolineare la frase conclusiva: "l'efficacia del trattamento probabilmente diminuisce se è trascorsa più di un'ora dall'ingestione, ma non di meno è giustificata un'astensione dai trattamenti di decontaminazione, specie nel caso di intossicazioni da farmaci molto pericolosi o da sostanze chimiche non medicinali." Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una modificazione della pratica della gastrolusi nell'avvelenamento acuto. Da un approccio largamente usato si sta passando ad un utilizzo estremamente restrittivo. Il relatore si è posto in termini intermedi: è un equilibrio che trova una sua motivazione anche nel fatto che, nel paziente intossicato gestitito in ambiente intensivo, il posizionamento di una sonda gastrica, eccetto alcune classiche eccezioni, rappresenta una consuetudine ed una necessità; di conseguenza anche una gastrolusi tardiva, come nella rianimazione tossicologica della Prof.ssa Bismuth, potrà essere forse di modesta utilità, ma non certamente dannosa. Non solo: oltre che di intervallo temporale fra ingestione e gastrolusi, si dovrebbe forse meglio precisare la tecnica attuata nel condurre la manovra. Della relazione svolta dal Prof. Marchi ritengo importante richiamare l'esordio: "L'approccio all'avvelenamento in età evolutiva presenta elevati rischi di errore di sopravvalutazione, con eccesso di ricoveri, accertamenti, terapie, inutili se non dannosi, oppure di sottovalutazione, con omissione o ritardo di interventi indispensabili." Anche questo intervento si pone in termini di equilibrio. Il supporto analitico nel corso delle intossicazioni è fondamentale nella gestione del paziente acutamente intossicato. Tale affermazione vale soprattutto per le intossicazioni comportanti grave rischio di vita, sia a fini diagnostici che prognostici, terapeutici e di valutazione dell'efficacia dell'approccio terapeutico. ( vedi a questo proposito uno studio sul paraquat pubblicato su questa stessa rivista, ESIA, vol 2, No 1, gennaio 1997, condotto in collaborazione con il laboratorio di tossicologia dell'Istituto di Medicina Legale e delle Assicurazioni dell'Università di Ferrara ). E la frase della Prof.ssa Montagna "un dialogo costantemente aperto fra curante e laboratorista, il quale ultimo non deve sentirsi un partner silenzioso bensì un interlocutore attento e critico nel processo di trattamento del paziente" indubbiamente richiama l'impegno alla collaborazione reciproca fra clinico ed analista. Infine gli ospiti stranieri. La Prof.ssa Bismuth: un'autorità mondiale in tossicologia clinica ! Lei stessa, a questo convegno, ha presentato l'VIII Congresso Internazionale di Tossicologia che si terrà a Parigi dal 5 al 10 luglio '98 , di cui è responsabile del comitato scientifico, oltre che essere vice presidente dell'International Union of Toxicology. L'intervento della Prof.ssa Bismuth è stato una vera e propria lezione magistrale. Una lezione sullo stato dell'arte dell'immunotossicoterapia, che possiamo ricordare con quanto è scritto nella sintesi dell'intervento distribuito ai partecipanti: "- les antivenins de serpents et de scorpions ont 100 ans - les anticorps antidigitaliques: un succès - les anticorps monoclonaux anti-endotoxine: un échec - les anticorps anti-colchicine: une avancée - les anticorps contre les antidépresseurs tricycliques: une promesse - les anticorps anti-cocaïne: un projet". Il Dott. Borron, formatosi alla Western University di Cleveland ed attualmente ricercatore nella rianimazione della Prof.ssa Bismuth, ci ha presentato caratteristiche, vantaggi e limiti di due nuovi antidoti: Idrossicobalamina e 4-Metilpirazolo. E soprattutto ci ha introdotti verso "new frontiers in clinical toxicology" con l'affascinante puntualizzazione sulla P-glicoproteina, molecola che provvede all'estrusione dalla cellula degli xenobiotici, influisce sulla terapia di alcuni avvelenamenti e sembra responsabile dell'esagerata tossicità di alcune sostanze per il suo ruolo di interazione tra farmaci. Una nuova frontiera nella comprensione della tossicocinetica cellulare è aperta, con l'obiettivo di comprendere oggi per riuscire a manipolare farmacologicamente domani questa pompa di membrana . Come ha detto il Prof Avato, Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università degli Studi di Ferrara, non si può parlare di tossicologia in questa città senza dimenticarne uno dei pionieri: Paracelso ( 1493-1541 ). Nella sede dell'Università possiamo leggere questa epigrafe: "In questo Ateneo conseguì la laurea in medicina il grande scienziato tedesco Theophrastus Bombastus von Hohenheim detto Paracelsus iniziatore di nuovi sistemi terapeutici maestro della scienza medica moderna filosofo naturalista di dignità europea". Con l'intuizione di questo pioniere - è la dose che determina l'intossicazione - la tossicologia cominciò a nascere. ___________________________________________________________________ Informazioni sulla rivista EDUCATIONAL SYNOPSES IN ANESTHESIOLOGY and CRITICAL CARE MEDICINE-Italia- Educational Synopses in Anesthesia and Critical Care Medicine-Italia costituisce la parte Italiana della versione Americana, pubblicata su Internet da Keith J Ruskin, Professore di Anestesia alla Università di Yale. I lavori saranno accettati sia in lingua Italiana che Inglese. In quelli di lingua Italiana un corposo riassunto in Inglese verrà preparato dalla redazione,qualora l'autore non fosse in grado di fornirlo.A cura della redazione sarà inoltre la traduzione in Italiano dei manoscritti inviati in lingua Inglese.La rivista sarà inviata gratuitamente a tutti quelli che ne faranno richiesta inviando il seguente messaggio "Desidero ricevere ESIA versione italiana" indirizzato a LANZA@MBOX.UNIPA.IT La rivista pubblica rewiews e lavori originali compiuti nei campi dell'anestesia e della medicina critica. I lavori originali riguardano ricerche cliniche, di laboratorio e la presentazione di casi clinici. Le reviews includono argomenti per l' Educazione Medica Continua (EMC), articoli di revisione generale o riguardanti le attrezzature tecniche. ESIA pubblica le lettere all'Editore contenenti commenti su articoli precedentemente publicati ed anche brevi comunicazioni.La guida per gli autori può essere consultata collegandosi al sito ANESTIT all'indirizzo: http://www.unipa.it/~lanza utilizzando la sezione riservata ad ESIA-Italia Oppure può essere richiesta inviando un messaggio a lanza@mbox.unipa.it EDUCATIONAL SYNOPSES IN ANESTHESIOLOGY and CRITICAL CARE MEDICINE Sezione Italiana E' anche ottenibile attraverso World-Wide Web WWW: L' URL per questo numero di ESIA è: http://www.unipa.it/~lanza/esiait/esit9711.txt Il nome della rivista è esitaamm, dove aa è l'anno ed mm il mese (per esempio questo numero è esit9711.txt) LA REDAZIONE DI ESIA ITALIA DIRETTORE Vincenzo LANZA Primario del Servizio d'Anestesia e Rianimazione Ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli Palermo LANZA@MBOX.UNIPA.IT Terapia Intensiva Antonio Braschi Primario del Servizio d'Anestesia e Rianimazione 1 Policlinico S. Matteo - IRCCS Pavia Anestesia Cadiovascolare Riccardo Campodonico Responsabile dell'Unità di Terapia Intensiva Cardiochirurgica Azienda Ospedaliera di Parma ricrob@mbox.vol.it Anestesia e malattie epatiche Andrea De Gasperi Gruppo trapianti epatici / CCM Ospedale Niguarda - Milano Medicina critica e dell'emergenza Antonio Gullo Professore di Terapia Intensiva Direttore del Dipartimento di Anestesia e Terapia Intensiva-Università di Trieste Anestesia ed informatica Vincenzo Lanza Primario del Servizio d'Anestesia e Rianimazione Ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli Palermo Tossicologia Carlo Locatelli Direttore del Centro di Informazione Tossicologica Centro antiveleni di Pavia Fondazione Scientifica "Salvatore Maugeri Clinica del Lavoro e della Riabilitazione" Pavia Terapia Antalgica e Cure Palliative Sebastiano Mercadante Aiuto del Servizio d'Anestesia e Rianimazione Ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli Palermo