__________________________________________________________________ __________________________________________________________________ ISSN 1080-3521 EDUCATIONAL SYNOPSES IN ANESTHESIOLOGY and CRITICAL CARE MEDICINE - Italia - Il giornale italiano on line di anestesia Vol 9 No 07 Luglio 2004 __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ Pubblicato elettronicamente da: Vincenzo Lanza, MD Servizio di Anestesia e Rianimazione Ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli Palermo, Italy E-mail: (lanza@mbox.unipa.it) Keith J Ruskin, MD Department of Anesthesiology Yale University School of Medicine 333 Cedar Street, New Haven, CT 06520 USA Office: 203-785-2802 E-mail: ruskin@gasnet.med.yale.edu Copyright (C) 1996 Educational Synopses in Anesthesiology and Critical Care Medicine. All rights reserved. Questo rivista on-line può essere copiata e distribuita liberamente, curando che venga distribuita integralmente, e che siano riportati fedelmente tutti gli autori ed il comitato editoriale. Informazioni sulla rivista sono riportate alla fine. __________________________ In questo numero: La redazione di Esia-Italia dedica alcuni suoi numeri alla pubblicazione dei lavori che hanno costituito parte del materiale didattico del Corso "Problemi Cardiologici in Anestesia e Terapia Intensiva" tenutosi nel Marzo 2003 presso il CEFPAS (Centro per la Formazione Permanente e l'Aggiornamento del Personale del Servizio Sanitario) sito in Caltanissetta (Sicilia). Questo è uno dei corsi organizzati in collaborazione con la FEEA (Fondazione Europea di Insegnamento in Anestesiologia) e rappresenta uno dei diversi momenti formativi di un vasto percorso didattico che spazia ampiamente tra le diverse aree di interesse nel campo dell'Anestesia e della Terapia Intensiva. In futuro Esia-Italia ospiterà altri iter formativi monotematici nella certezza di incontrare la continua necessità di studio dei suoi Lettori che potranno così soddisfare in modo sempre gratuito e immediato le proprie esigenze di formazione anche non spostandosi dal proprio posto di lavoro. dal Corso "PROBLEMI CARDIOLOGICI IN ANESTESIA E TERAPIA INTENSIVA" - CORSO FEEA 2 - marzo 2003 CEFPAS 1 Raccomandazioni per la gestione perioperatoria del cardiopatico da sottoporre a chirurgia non cardiaca 2 Il cuore come organo bersaglio dei tossici _______________________________________________________ Raccomandazioni per la gestione perioperatoria del cardiopatico da sottoporre a chirurgia non cardiaca _______________________________________________________ Modulo d'Anestesia Cardiotoracica (Responsabile: Dr. A. Pagnin) Servizio di Anestesia e Rianimazione I (Primario: Dr. A. Braschi) I.R.C.C.S. Policlinico San Matteo, Pavia. Testo di: Dr. Nicoletta Barzaghi, Dr. Piero Ceriana - Con la collaborazione del Direttivo del Gruppo di studio SIAARTI per l’Anestesia Cardiotoracica     Considerazioni fisiopatologiche sulla patologia di base Nel paziente con cardiopatia ischemica, l'esistenza di una stenosi coronarica fa sì che il miocardio si trovi talora in situazioni in cui l'ossigeno disponibile (apporto di ossigeno) è inferiore ai bisogni metabolici (consumo di ossigeno). Pertanto, il paziente coronaropatico tollera male le condizioni cliniche in cui si realizza uno sbilanciamento tra apporto e consumo di ossigeno, vale a dire gli stati di desaturazione arteriosa, di anemia, di ipotensione grave e gli stati iperdinamici [1]. Nel contesto della patologia coronarica vanno identificate differenti situazioni cliniche che si associano ad un profilo di rischio operatorio crescente a parità di intervento da eseguire [2-4]: l'angina stabile, l'angina instabile, l'infarto pregresso (occorso oltre otto settimane dall'intervento), recente (verificatosi entro cinque - otto settimane dall'intervento) e l'infarto acuto (occorso nei 30 giorni precedenti l'intervento). Tuttavia, prevalentemente in pazienti diabetici con disfunzione del sistema nervoso autonomo (compromissione del parasimpatico cardiaco), l'ischemia miocardica può verificarsi in assenza di angina; si configura così il quadro clinico dell'ischemia silente, il cui riconoscimento identifica una sottopopolazione di pazienti a rischio elevato di infarto e morte cardiaca improvvisa [5]. L'angina stabile è espressione di una stenosi coronarica fissa ed è caratterizzata da una soglia anginosa ben identificabile, mentre nell'angina instabile le lesioni coronariche sono concomitanti ad una spiccata vasoreattività che media un quadro clinico caratterizzato da un rapido progredire dei sintomi verso uno stato di male anginoso. In effetti, nella casistica di Shah et al., l'incidenza di IMA perioperatorio nei pazienti con angina instabile è del 28% [2]. Anche il tempo intercorso tra l'episodio infartuale e l'intervento di chirurgia non cardiaca permette di definire il rischio di reinfarto perioperatorio. Per quanto lo studio sia stato effettuato in epoca precedente l'impiego dei trombolitici nella terapia dell'infarto acuto, ed il valore dei dati ottenuti possa quindi non riflettere la realtà del momento attuale, il rischio di reinfarto è stato stimato del 27%, dell'11% e del 4% rispettivamente nei pazienti sottoposti ad intervento entro 3 mesi, nei 3-6 mesi e oltre 6 mesi da un pregresso infarto miocardico [3]. Un parere autorevole sull'argomento è stato recentemente espresso dall'American College of Physicians (ACP), che ha invitato a considerare a rischio aggiuntivo di reinfarto i pazienti sottoposti ad intervento di chirurgia non cardiaca nelle otto settimane successive ad un episodio infartuale [4].   Tra le cardiopatie valvolari sono da temere maggiormente le stenosi rispetto alle insufficienze valvolari. Tra tutte le valvulopatie è particolarmente temibile la stenosi aortica [6]. Nella stenosi aortica, l'ostruzione critica al flusso e l'ischemia miocardica dovuta ad insufficiente perfusione coronarica possono condurre ad arresto cardiocircolatorio refrattario alle usuali manovre di rianimazione cardiopolmonare. Nel casi di stenosi mitralica l'ipertensione del circolo polmonare e la diminuita compliance polmonare rappresentano le alterazioni fisiopatologiche più rilevanti. Nei pazienti con insufficienza mitralica e/o aortica, l'evenienza di bradicardia e l'aumento delle resistenze vascolari sistemiche aumentano la frazione di rigurgito; queste condizioni cliniche possono pertanto condurre ad un deterioramento dell'assetto emodinamico. Infine, nelle cardiopatie dilatative, la possibilità di scompenso emodinamico può dipendere da variazioni acute del precarico, da aumenti del postcarico e da fattori che deprimono ulteriormente la già compromessa contrattilità.   Valutazione preoperatoria La valutazione preoperatoria del cardiopatico da sottoporre ad intervento di chirurgia non cardiaca ha come principali obiettivi: 1. la definizione della natura, della gravità e delle ripercussioni che la cardiopatia comporta sull'organismo; 2. la stratificazione del rischio operatorio, in base alla gravità della cardiopatia e alla natura dell'intervento chirurgico; 3. la pianificazione di una strategia operativa in funzione del rischio.   Nel 1996, una task force multidisciplinare nominata dall'American College of Cardiology (ACC) e dall'American Heart Association (AHA) ha stilato una serie di linee guida per la valutazione cardiovascolare perioperatoria in chirurgia non cardiaca [7, 8]. Nel documento, che unitamente a quello emanato nell’anno successivo dall'ACP rappresenta il più sistematico approccio al problema finora apparso in letteratura, vengono espressi i concetti esposti nelle prossime righe. L'anamnesi del paziente, l'analisi dei documenti clinici ed un accurato esame obiettivo rappresentano i momenti fondamentali della valutazione preoperatoria. Nella maggior parte dei pazienti, semplici domande consentono di definire la riserva funzionale cardiovascolare: in particolare, la capacità di salire almeno un piano di scale senza disturbi caratterizza una riserva funzionale come minimo moderata (³ 4 MET; MET = livello di equivalente metabolico) (Tabella 1). L'elettrocardiogramma (ECG) a riposo, il radiogramma del torace, un bilancio ematochimico completo (esame emocromocitometrico inclusivo di conta piastrinica, attività protrombinica e tempo di tromboplastina parziale, creatininemia, glicemia, sodiemia, potassiemia, cloruremia, calcemia) sono obbligatori nel paziente affetto da cardiopatia. Tabella 1. Richiesta energetica, espressa in livelli di equivalenti metabolici (MET),   necessaria allo svolgimento di alcune attività fisiche *.   1 MET 4 MET Accudire la propria persona Mangiare, vestirsi Camminare all’interno della casa Camminare in piano per 1-2 isolati a bassa velocità (3.2-4.8 km/h) Spolverare i mobili o lavare i piatti (lavoro domestico poco faticoso) 4 MET 10 MET Salire un piano di scale o camminare adagio in collina Camminare in piano a velocità sostenuta (6.4 km/h) Fare una breve corsa Lavare i pavimenti o spostare i mobili (lavoro domestico faticoso) Oltre 10 MET Svolgere attività sportiva o ricreativa che comporta un impegno fisico moderato:  golf, bowling, ballo, tennis doppio I pazienti possono essere classificati in tre categorie in base alla presenza di fattori di rischio cardiovascolare definiti rispettivamente maggiori, intermedi e minori. Sono: fattori di rischio maggiori: sindromi coronariche instabili: infarto miocardico acuto (< 30 giorni) con evidenza clinica o strumentale di ischemia residua, angina instabile o invalidante;  insufficienza cardiaca scompensata; valvulopatia grave; aritmie gravi: blocco atrio-ventricolare di grado avanzato (blocco di II grado, Mobitz 2; blocco di III grado; blocco di conduzione bifascicolare e/o blocco atrioventricolare di II grado; tutti i disturbi di conduzione sintomatici), aritmie ventricolari sintomatiche, aritmie sopraventricolari con risposta ventricolare non controllata. fattori di rischio intermedi: angina stabile o controllata; infarto miocardico pregresso; insufficienza cardiaca compensata o pregresso scompenso cardiaco diabete mellito. fattori di rischio minori: età avanzata; ECG anormale (blocco di branca sinistra, ipertrofia ventricolare sinistra, anomalie della ripolarizzazione, ritmo non sinusale); ridotta capacità funzionale; pregresso infarto cerebrale; ipertensione arteriosa non controllata dalla terapia medica o non trattata. Analogamente, gli interventi chirurgici possono essere distinti in tre gruppi in base al rischio cardiovascolare ad essi correlato. Sono interventi chirurgici: ad alto rischio (classe A): interventi maggiori in urgenza, specie nell'anziano; interventi di chirurgia aortica e vascolare arteriosa periferica; procedure chirurgiche prolungate e/o associate a importanti variazioni volemiche. a rischio intermedio (classe B): interventi di tromboendoarterectomia carotidea; interventi di chirurgia toracica e addominale; interventi chirurgici della testa e del collo; procedure ortopediche; interventi chirurgici della prostata. a rischio basso (classe C): procedure endoscopiche; procedure chirurgiche di superficie; intervento di cataratta; chirurgia della mammella Identificati in ciascun paziente i fattori di rischio cardiovascolare e il rischio di complicanze cardiovascolari in relazione alla procedura chirurgica, le indicazioni fornite dall'AHA/ACC si possono schematicamente riassumere come segue: 1. A prescindere dalla natura dell'intervento chirurgico proposto, e purchè questo non rivesta carattere di emergenza, i pazienti con fattori di rischio maggiori necessitano di una valutazione cardiologica immediata che condurrà, nella maggior parte dei casi, ad una rivascolarizzazione miocardica o ad una chirurgia valvolare o ad una modificazione della terapia medica in atto. 2. I pazienti con fattori di rischio intermedi possono essere sottoposti ad intervento chirurgico di elezione senza indagini supplementari se la loro riserva funzionale è almeno moderata e l'intervento proposto è a rischio basso o intermedio. Qualora l'intervento sia a rischio elevato, e comunque quando la capacità funzionale è scarsa, è necessaria una valutazione cardiologica (Figura 1). 3. I pazienti con fattori di rischio minori possono essere sottoposti ad intervento chirurgico di elezione senza indagini supplementari, qualsiasi sia la natura dell'intervento programmato, se la loro riserva funzionale è almeno moderata e, in caso di scarsa capacità funzionale, se la chirurgia è a rischio basso o intermedio. In caso di chirurgia ad alto rischio e di scarsa capacità funzionale, è necessaria una valutazione cardiologica (Figura 1). Figura 1. Algoritmo diagnostico dell'AHA, nella sua forma  semplificata proposta da Sirieix et al., modificata [55]. Da ultimo, in ogni paziente, una particolare cura va posta nell'individuazione e nell'ottimizzazione di quelle patologie non cardiache in grado di influenzare in modo decisivo il rischio cardiaco e operatorio, vale a dire l'anemia, la malattia polmonare cronica, l'epatopatia avanzata e l'insufficienza renale.   Rispetto al documento dell'AHA/ACC, le linee guida pubblicate nel 1997 dall’American College of Physicians (ACP) derivano dall'applicazione di un metodo di analisi dei dati in cui la relazione tra un dato parametro (es.: angina instabile) e un dato evento (morte per cause cardiache nel periodo perioperatorio) è valutata come solidità (forza) dell'evidenza che correla l'uno all'altro, quest'ultima essendo poi definita come debole, consistente e forte [4, 9]. Le linee guida dell’ACP per la valutazione del rischio perioperatorio di infarto miocardico e di morte per cause cardiache nel paziente cardiopatico sottoposto a chirurgia non cardiaca sviluppano tre punti fondamentali, enunciati nelle righe a seguire. Il primo punto riguarda l'identificazione della classe di rischio cardiovascolare, necessaria per identificare in quali pazienti richiedere una valutazione cardiologica e l'esecuzione di indagini diagnostiche cardiologiche. Per la stratificazione del rischio viene proposta una scala a punteggio, il Cardiac Risk Index di Goldman modificato da Detsky [10] (Tabella 2). In relazione con il punteggio totale (compreso tra 0 e 100) ottenuto, i pazienti sono stratificati in tre classi di rischio con diversa probabilità di complicanze cardiache maggiori (Tabella 3).   Tabella 2  Cardiac Risk Index di Goldman modificato da Detsky Variabile Punteggio Età > 70 anni  5 Infarto miocardico nei 6 mesi precedenti l'intervento 10 Infarto miocardico oltre i 6 mesi precedenti l'intervento  5 Angina in classe III della Società Cardiovascolare Canadese 10 Angina in classe IV della Società Cardiovascolare Canadese 20 Edema polmonare nella settimana precedente l'intervento 10 Edema polmonare acuto in anamnesi  5 Ritmo cardiaco non sinusale o con extrasistolia atriale  5 Più di 5 battiti extrasistolici ventricolari  5 Stenosi aortica critica 20 Condizioni generali scadenti ** o allettamento  5 Intervento in emergenza 10 * Classificazione dell'angina secondo la Società Cardiovascolare Canadese: 0=non angina; I=angina da sforzo intenso; II=angina da sforzo moderato; III=angina dopo un piano si scale (o meno) a passo normale; IV= angina per ogni minima attività fisica. ** PaO2<60 mm Hg; PaCO2 >50 mm Hg; potassiemia <3 mEq/l; azotemia >300 mg/dl; creatininemia >3 mg/dl.   Tabella 3 Cardiac Risk Index di Goldman modificato da Detsky: classi di rischio Punteggio Classe Probabilità di complicanze cardiache maggiori  0 -15 I 0- 15% 20 - 30 II 20-30% > 30 III > 60% I pazienti in classe 2 e 3 sono considerati sicuramente a rischio elevato di complicanze cardiache perioperatorie. Tuttavia, la possibilità di complicanze maggiori non può essere esclusa nei pazienti che hanno ottenuto un basso punteggio globale poiché l'accuratezza predittiva negativa del Cardiac Risk Index non è buona. Pertanto, i pazienti in classe 1 devono essere ulteriormente indagati per la presenza degli "indici di basso rischio” identificati da Eagle et al. [11] e da Vanzetto et al. [12] (Tabella 4).  Sono realmente a basso profilo di rischio i pazienti che non presentano nessuno o solo uno degli indici di basso rischio considerati. I pazienti a basso rischio di complicanze cardiache maggiori perioperatorie possono essere sottoposti all’intervento chirurgico elettivo senza ulteriori accertamenti diagnostici. Nei pazienti in cui si identificano due o più criteri di basso rischio, il profilo di rischio deve essere considerato di entità intermedia. In questi pazienti è necessaria l'esecuzione di indagini ulteriori al fine di ristratificare il rischio di complicanze cardiache perioperatorie. Le indagini cardiologiche che consentono un'ulteriore stratificazione del rischio possono essere suddivise in tre categorie: - metodiche che valutano la frazione di eiezione a riposo (ventricolografia ed ecocardiografia), - test che evidenziano un'ischemia cardiaca inducibile (ergometria, test farmacologici) - test che esplorano la funzione cardiaca a riposo e sotto sforzo (scintigrafia, eco-stress). La valutazione della frazione d’eiezione a riposo non aggiunge alla valutazione clinica dati che contribuiscono alla ulteriore stratificazione del rischio; la ventricolografia (evidenza consistente) e l’ecocardiografia transtoracica (evidenza forte) non sono test idonei a stimare il rischio perioperatorio [13, 14]. Le indagini ergometriche non possono essere effettuate da molti pazienti (dal 30% al 70%) in lista per interventi di chirurgia vascolare e dai soggetti con alterata capacità di deambulare. In ogni caso, il potere predittivo dei test ergometrici è risultato basso [15,16]. La scintigrafia al tallio e/o l’eco-dobutamina, soprattutto nel caso di test negativo, consentono la ristratificazione del rischio nei pazienti inizialmente classificati a rischio intermedio e candidati ad intervento di chirurgia vascolare (evidenza forte), in cui la loro esecuzione è quindi consigliabile [12, 17]. Al contrario, non è evidente il vantaggio di sottoporre a scintigrafia o a eco-dobutamina pazienti a basso rischio candidati a chirurgia vascolare [11] e i pazienti rischio intermedio candidati a chirurgia non vascolare [18]. Il monitoraggio Holter non ha potere predittivo sul rischio nei pazienti candidati a procedure di chirurgia non vascolare (evidenza forte) [19]. Anche nei pazienti in lista per procedure di chirurgia vascolare, al momento attuale non esistono dati sufficienti a provare una reale utilità del test. La coronarografia è un'indagine invasiva e rischiosa. L'esame coronarografico non può essere pertanto consigliato al solo fine della stratificazione del rischio perioperatorio. L'unica eccezione è rappresentata da quei pazienti in cui è necessario completare la diagnostica di una sospetta coronaropatia indipendentemente dall’intervento di chirurgia non cardiaca [20]. Complessivamente, il 20% dei pazienti sottoposti alla procedura di stratificazione del rischio rientra nella classe ad elevata probabilità di complicanze cardiache perioperatorie. Di questi, circa la metà sono pazienti inizialmente ritenuti a rischio intermedio e ristratificati nella classe di alto rischio. Tabella 4 - Indici di basso rischio secondo Eagle et al. [11] secondo Vanzetto et al. [12] Età > 70 anni Età > 70 anni Anamnesi di angina Anamnesi di angina Diabete mellito Diabete mellito Aritmie ventricolari in anamnesi Onde Q patologiche all'ECG Onde Q patologiche all'ECG Anamnesi di scompenso cardiaco   Anamnesi di infarto miocardico Alterazioni dell'ST all'ECG standard Ipertensione con criteri ECG di ipertrofia  ventricolare severa Una volta identificata la classe di rischio a cui un paziente appartiene è poi necessario identificare le strategie operative per minimizzare il rischio in ogni singolo paziente. Si possono riconoscere alcune situazioni paradigmatiche. 1) Il rischio è legato a fattori non modificabili quali l’età. Va considerata la possibilità di cambiare l'approccio chirurgico eseguendo, anziché un intervento radicale, un gesto palliativo o meno invasivo; in alcuni casi può essere opportuno escludere alcuna opzione chirurgica. 2) Il rischio è legato a patologia cardiaca non ischemica suscettibile di miglioramento (scompenso, aritmia, valvulopatia). In questo caso va in primo luogo ottimizzato il trattamento medico della cardiopatia; successivamente il rischio dovrà essere rivalutato. 3) Il rischio è legato ad una cardiopatia ischemica suscettibile di correzione chirurgica. La decisione sull'opportunità di procedere ad una rivascolarizzazione miocardica prima dell’intervento di chirurgia non cardiaca dipende da quanto la correzione della coronaropatia modifica la prognosi a breve e lungo termine. Per quanto attiene alla prognosi a breve termine, al momento attuale non sono disponibili indagini prospettiche. Due indagini retrospettive mirate ad evidenziare se la prognosi a breve termine di pazienti sottoposti a chirurgia vascolare (ma le stesse conclusioni sono probabilmente estrapolabili anche per altre chirurgie ad elevato rischio di complicanze cardiache perioperatorie, quali quella addominale alta e toracica) è positivamente influenzata dalla precedente correzione chirurgica della patologia coronarica concludono che la riduzione del rischio di complicanze cardiache maggiori può essere tuttavia controbilanciata dal rischio proprio della procedura di bypass coronarico [20, 21]. Pur con i limiti di un'indagine retrospettiva, un recente lavoro di Gottlieb et al. [22], in cui veniva valutato come l'esecuzione di una rivascolarizzazione non chirurgica mediante angioplastica influenzava la prognosi a breve termine di pazienti ad alto rischio in lista per procedure di chirurgia vascolare, giunge a conclusioni differenti. I pazienti sottoposti ad angioplastica prima della chirurgia vascolare, infatti, presentavano un'incidenza di complicanze cardiache perioperatorie inferiori rispetto a pazienti con profilo di rischio similare non sottoposti a rivascolarizzazione. Questi dati meritano di venire confermati da indagini prospettiche in quanto l'angioplastica, efficace nel risolvere l'angina ma meno costosa e meno rischiosa rispetto al bypass coronarico, potrebbe rappresentare un'opzione valida per ridurre il rischio di complicanze cardiache nei candidati a procedure chirurgiche non cardiache, tanto più se si considera il fatto che dopo angioplastica è possibile procedere all'intervento di chirurgia non cardiaca in tempi contenuti. Per quanto riguarda i benefici a lungo termine del bypass coronarico prima dell’intervento di chirurgia non cardiaca, esiste una forte evidenza a favore della rivascolarizzazione per i pazienti con angina instabile refrattaria alla terapia medica massimale, con stenosi del tronco comune, con malattia trivasale e depressa funzione miocardica, con malattia bivasale ma stenosi critica prossimale della discendente anteriore e disfunzione ventricolare sinistra [23].Questi stessi pazienti rientrano in quella categoria di cardiopatici in cui, secondo le linee guida dell’ACC/AHA, sarebbe indicato procedere a bypass coronarico indipendentemente dal problema contingente dell’intervento di chirurgia non cardiaca. Tuttavia, mancando uniformità di consenso ed evidenza sul timing ottimale dell’intervento di bypass rispetto a quello non cardiaco pare preferibile decidere non sulla base di protocolli standardizzati ma, in ogni singolo caso, in base alla gravità della coronaropatia, all'urgenza dell’intervento non cardiaco e - non ultimo- al parere del paziente debitamente informato.     Gestione della terapia cardiovascolare nell'ambito della chirurgia non cardiaca Aspetti generali sull’impiego dei farmaci cardiovasoattivi Il paziente cardiopatico è per lo più in terapia medica cronica, basata sull’impiego combinato di uno o più farmaci cardiovasoattivi e, nella maggior parte dei casi, di farmaci che agiscono sull’emostasi (Tabella 5). Ad eccezione dei pazienti in compenso cardiocircolatorio precario, talora in terapia endovenosa, i farmaci cardiovasoattivi vengono generalmente somministrati per via orale. Per alcuni principi attivi (nitroderivati, a2-agonisti) sono anche disponibili formulazioni a cessione transdermica, di uso piuttosto diffuso. L’assorbimento di questi medicamenti, somministrati per via orale o transdermica, è prevedibile solo se è mantenuta l’integrità anatomica e funzionale della via di assorbimento, cosa che non sempre si verifica nel periodo perioperatorio, anche nel caso in cui la sede dell’atto chirurgico non sia l’apparato gastroenterico o muscolo tegumentario: basti pensare alla frequenza con cui si verificano nel postoperatorio alterazioni funzionali del transito intestinale (ileo, vomito) e fenomeni di ipoperfusione cutanea. Pertanto, e soprattutto nei pazienti con compenso più labile, è opportuno pianificare preventivamente tipo, dose, via e modalità di somministrazione dei farmaci cardioattivi da utilizzare nel periodo perioperatorio. Tabella 5  Farmaci di comune impiego nel cardiopatico   Antianginosi  a. Farmaci attivi sul sistema cardiovascolare b-bloccanti; calcio-antagonisti; nitroderivati; Antipertensivi   ACE-inibitori; a2-agonisti; diuretici;   Antiaritmici   di classe Ia: chinidina, disopiramide, procainamide; di classe Ib: lidocaina, mexiletina, tocainide di classe III: amiodarone;   Inotropi   Digitale amine simpaticomimetiche inibitori della fosfodiesterasi III   Anticoagulanti  b. Farmaci attivi sull’emostasi dicumarolici; eparine;   Antiaggreganti   acido acetilsalicilico; dipiridamolo; indobufene; picotamide monoidrata; ticlopidina Per quanto riguarda la scelta del medicamento, non per tutti i farmaci è disponibile sia la formulazione orale che parenterale: è il caso di diversi beta-bloccanti e degli ACE-inibitori, che devono essere sostituiti con farmaci a profilo farmacodinamico, almeno ad effetto cardiovascolare, similare. Quanto alla dose, la biodisponibilità di molti medicamenti dati per via orale è incompleta. Pertanto, le dosi da impiegare per uso endovenoso possono essere inferiori rispetto a quelle somministrate per via enterale: è questo il caso del propranololo e dei calcio-antagonisti. Con l’eccezione di alcuni farmaci (nitroglicerina, nifedipina), che vengono assorbiti rapidamente attraverso la mucosa sottolinguale e possono essere somministrati d’urgenza rispettivamente in occasione di crisi anginose e di crisi ipertensive, la via di somministrazione di scelta dei medicamenti cardiovasoattivi nel periodo perioperatorio è quella endovenosa. La somministrazione endovenosa consente infatti di prescindere dalla variabilità nella risposta al farmaco dovuta all’alterazione dei processi di assorbimento, di individuare esattamente la dose di farmaco che produce l’effetto desiderato e di mantenere tale effetto costante mediante infusione endovenosa. Tali obiettivi possono essere raggiunti quando la somministrazione dei farmaci cardiovasoattivi viene effettuata con precisione, vale a dire mediante pompe infusionali in vie venose dedicate. A questo proposito, per quanto consigliabile nei pazienti con compenso labile, non esistono dati certi a supporto della pratica di incannulare sistematicamente un vaso venoso centrale al fine di infondere farmaci. E’ comunque sconsigliabile l’infusione di più farmaci cardiovasoattivi in un unico condotto venoso utilizzando prolunghe e raccorderie, come pure l’infusione in una stessa linea venosa di farmaci cardiovasoattivi e liquidi di riempimento. In entrambi i casi, modificare la velocità di infusione di una soluzione significa modificare la velocità di somministrazione del volume di liquido (e ovviamente la quantità di farmaco) che è contenuto distalmente al raccordo, cosa che può causare alterazioni emodinamiche tanto più gravi quanto maggiore è la concentrazione dei farmaci in soluzione. Come ultima osservazione di carattere generale va ricordato che l'impiego della via intramuscolare deve essere considerato con cautela nei pazienti in terapia anticoagulante - e molti pazienti cardiopatici lo sono - per il rischio di ematomi nel punto di iniezione. Aspetti specifici sulla terapia con farmaci cardiovasoattivi Esiste consenso nel ritenere che un paziente ben compensato sul piano clinico grazie ad una terapia medica adeguata sia nelle condizioni migliori per reggere lo stress del periodo perioperatorio e che, al fine di garantire un compenso clinico ottimale, la terapia assunta cronicamente debba essere continuata perioperatoriamente. Di fatto, non sono note interazioni tra farmaci cardiovasoattivi ed anestetici di entità tale da rendere necessaria la sospensione preoperatoria dei primi. Al contrario, è stato dimostrato che la sospensione dei medicamenti cardiovasoattivi può essere associata ad alterazioni emodinamiche [24, 25]. Quanto alla somministrazione della terapia prima dell’intervento, l’assunzione di acqua nell’ora precedente l’induzione dell’anestesia è da ritenersi sicura nei pazienti senza patologie dell’apparato gastroenterico. Pertanto, la terapia può essere assunta per via orale alle dosi abituali prima dell’intervento. Quanto alla somministrazione della terapia dopo l’atto chirurgico, nel caso in cui questo non comporti o non si accompagni ad alterata funzionalità gastrointestinale ed il paziente sia ben collaborante, la terapia potrà essere assunta come di consueto. Nel caso invece in cui la via enterale sia preclusa, è necessario considerare altre modalità di assunzione dei medicamenti cardiovasoattivi per evitare la ripresa della sintomatologia cardiologica (in relazione al naturale esaurimento dell’effetto terapeutico dei farmaci precedentemente assunti) e/o l’insorgenza di sindromi da sospensione. Queste ultime, descritte per gli a2-agonisti e i b-bloccanti, si manifestano come crisi ipertensive con tachiaritmie, che a loro volta causano ischemia miocardica. A tutt’oggi, gli studi mirati ad evidenziare una possibile relazione tra mantenimento o sospensione della terapia cardiovasoattiva ed incidenza di complicanze cardiovascolari perioperatorie in popolazioni a rischio sono pochi ed esclusivamente limitati a soggetti con cardiopatia ischemica, che è di gran lunga la cardiopatia più frequente. A dispetto del numero esiguo, i risultati che emergono da tali studi sono rilevanti sul piano clinico. Per quanto attiene ai b-bloccanti - e all'acido acetilsalicilico -, è stato dimostrato (evidenza forte) che l'incidenza e la gravità dell'ischemia miocardica perioperatoria è significativamente inferiore nei pazienti coronaropatici o con fattori di rischio per coronaropatia che giungono all’intervento di chirurgia non cardiaca con la terapia b-bloccante mantenuta fino all’immediato preoperatorio e ripresa precocemente nel postoperatorio [26]. L'azione cardioprotettiva dei b-bloccanti è conseguente all'effetto inotropo e cronotropo negativo che, limitando la risposta cardiaca in contrattilità e frequenza allo stimolo algogeno, riduce il consumo di ossigeno del miocardio, di cui al tempo stesso migliora la perfusione. A fronte dei benefici enunciati, la terapia perioperatoria con b-bloccanti non è esente da rischi iatrogeni, specie in contesti clinici complessi (pazienti con riserve limitate in condizioni critiche). L'impossibilità ad aumentare la portata cardiaca per effetto della terapia b-bloccante può infatti condurre a non soddisfare le richieste tessutali, specialmente quando coesistono anemia, ipovolemia, febbre, stati di ipercatabolismo. Ove possibile, una opportuna correzione di tali condizioni , unitamente alla messa in atto di un monitoraggio emodinamico adeguato, diventa di importanza determinante. Per quanto raccomandata, la somministrazione perioperatoria di calcio antagonisti e nitrati non risulta essere associata ad un effetto preventivo sull'ischemia perioperatoria evidente quanto quello emerso per i b-bloccanti. Questo verosimilmente a ragione del meccanismo stesso d'azione di questa classe di medicamenti. Nei pazienti in terapia con calcio-antagonisti e nitrati, infatti, la risposta in frequenza cardiaca allo stimolo simpatico può non essere marcatamente depressa. Lo stimolo algogeno può quindi essere responsabile di uno squilibrio acuto tra apporto e consumo di ossigeno, con conseguente ischemia. In questo contesto, l'impiego perioperatorio degli a2-agonisti potrebbe trovare uno spazio proprio, tanto più se si considera il fatto che questi medicamenti sono provvisti d'azione sedativa, ansiolitica ed analgesica e limitano l'entità del brivido postoperatorio, che comporta rilevante consumo di ossigeno [27]. Considerazioni particolari vanno fatte in merito all'impiego perioperatorio di ACE-inibitori, una classe di farmaci largamente utilizzati in pazienti con ipertensione arteriosa e con deficit di pompa cardiaca. In pazienti ipertesi trattati con ACE-inibitori, l’induzione della narcosi si può accompagnare a severi episodi ipotensivi, talora correggibili solo ricorrendo a farmaci vasopressori. Per questo motivo alcuni Autori consigliano, nel preoperatorio, di sospendere l'ACE-inibitore, sostituendolo con antipertensivi di altra classe farmacologica. I tempi minimi consigliati di sospensione dell’ACE-inibitore prima di un intervento chirurgico sono di 12 h per il captopril e il quinapril e di 24 h per l'enalapril, il linosipril e il ramipril [28]. Ammesso che la sospensione dell'ACE-inibitore possa essere ritenuta praticabile nel contesto di una cardiopatia ipertensiva, bisogna riflettere sull'opportunità di tale comportamento nei pazienti con funzione contrattile depressa, in cui l'ACE-inibitore è il vasodilatatore più largamente utilizzato. In questi pazienti infatti un aumento del postcarico può accompagnarsi a scompenso cardiocircolatorio acuto. L'esperienza maturata su pazienti in attesa di trapianto cardiaco sottoposti a procedure di chirurgia non cardiaca consente di affermare che il trattamento perioperatorio dei soggetti in precario compenso cardiocircolatorio non può essere standardizzato ma deve, in ogni singolo caso, essere guidato dal monitoraggio emodinamico (vedi oltre). Sebbene gli antiaritmici di classe Ia e Ib interferiscano con i curari non depolarizzanti (prolungandone la durata d'azione), l'eventuale terapia antiaritmica in corso deve essere mantenuta nel periodo perioperatorio per evitare la ripresa delle aritmie. Per quanto siano stati riportati casi di ipotensione refrattaria, bradicardia resistente all'atropina e dissociazione atrioventricolare nei pazienti in trattamento con amiodarone [29], la sospensione di tale terapia nel preoperatorio è inopportuna per ragioni cliniche (ripresa delle aritmie) e farmacocinetiche (il tempo di emivita dell'amiodarone è pari a 29-100 giorni). Per quanto attiene ai pazienti in trattamento endovenoso continuo con inotropi, nel perioperatorio, l’infusione di questi farmaci non va sospesa ma ottimizzata. A tal fine, il monitoraggio emodinamico (vedi oltre) è necessario. L’induzione della narcosi può associarsi a ipotensione (da deficit contrattile del cuore) con ipoperfusione, contenibile in parte somministrando gli anestetici lentamente, alle dosi minime possibili per ottenere l’effetto desiderato e tenendo conto del fatto che la latenza dell’effetto può essere marcatamente aumentata. Nel corso dell’intervento, le variazioni volemiche acute vanno contrastate e prontamente corrette. Allo stesso modo devono essere corrette le disionie, che possono causare gravi turbe del ritmo cardiaco.   Aspetti specifici sulla terapia con farmaci attivi sull'emostasi La maggioranza dei pazienti coronaropatici è in terapia antiaggregante, generalmente con acido acetilsalicilico a basse dosi o ticlopidina, più raramente con dipiridamolo, indobufene o picotamide monoidrato. Come per i b-bloccanti, anche l'acido acetilsalicilico va continuato nel perioperatorio in quanto il suo impiego è associato ad una minore incidenza di ischemia miocardica in assenza di un sostanziale aumento del sanguinamento chirurgico [24]. Malauguratamente, anche bassi dosaggi di aspirina possono causare gastropatia erosiva, il che giustifica la pratica di istituire una gastroprotezione farmacologica sistematica in tutti i pazienti in terapia antiaggregante con aspirina, indipendentemente da ogni contesto perioperatorio [30].Durante il periodo perioperatorio, che rappresenta una causa indipendente di stress per l'organismo, l'impiego di gastroprotettori, raccomandato in linea generale, è da ritenersi necessario nei soggetti in terapia con salicilati. La ticlopidina è l’antiaggregante di scelta nei pazienti intolleranti e/o allergici all'aspirina. L'effetto antiaggregante persiste per oltre 8 giorni dopo l'interruzione del farmaco. A tutt'oggi, la gestione della terapia con ticlopidina nel periodo perioperatorio non è codificata. Per una chirurgia elettiva, sembrerebbe prudente sospendere la terapia con ticlopidina [31, 32]. Per procedure d'urgenza, rimane dubbia l'efficacia della terapia steroidea e di desmopressina; nel caso di rischio emorragico rilevante, probabilmente è preferibile la trasfusione di concentrati piastrinici [32]. In considerazione del numero limitato di pubblicazioni pertinenti, non è possibile identificare linee guida in merito alla gestione perioperatoria della terapia antiaggregante con dipiridamolo, indobufene e picotamide. Sebbene qualche caso di ematoma epidurale dopo anestesia loco-regionale sia stato descritto in pazienti antiaggregati con aspirina o antinfiammatori non steroidei, l’incidenza di tale complicanza non pare essere significativamente maggiore nei pazienti trattati con aspirina rispetto a quelli non in terapia antiaggregante [33]. E' quanto emerge da dati ottenuti in studi clinici retrospettivi e prospettici condotti, nei primi anni novanta, su larghe casistiche di pazienti antiaggregati con aspirina, in cui pertanto la possibilità di un'anestesia loco-regionale non deve ritenersi preclusa dalla terapia antiaggregante [24]. Studi simili non risultano essere stati finora effettuati su popolazioni trattate con ticlopidina, a cui non pare corretto estendere le conclusioni emerse per l’aspirina. La gestione del paziente in terapia anticoagulante nel periodo perioperatorio di una chirurgia non cardiaca è estremamente difficile per la complessità intrinseca della materia e per la contemporanea esigenza di: 1. effettuare l'atto chirurgico in presenza di un assetto coagulativo quasi normalizzato, per limitare il rischio di complicanze emorragiche da eccessiva anticoagulazione (in corso di intervento o nell'immediato postoperatorio); 2. limitare al minimo necessario il periodo con assetto coagulativo ai limiti della norma per evitare l'insorgenza di complicanze tromboemboliche. E’ nostra convinzione che una gestione ottimale della terapia anticoagulante nel periodo perioperatorio sia uno degli elementi centrali nell’assistenza al malato cardiopatico. Un approccio razionale alla gestione della terapia anticoagulante, che può essere opportuno e preferibile concordare – a seconda delle diverse realtà operative – con l’internista o con specialisti nel campo dell’emostasi e trombosi, deve tener conto: 1. dei fattori che motivano la necessità dell'anticoagulazione nel singolo paziente (Tabella 5), 2. dell'atto chirurgico cui il paziente deve essere sottoposto (Tabella 6), 3. del rischio relativo di tromboembolia e di sanguinamento rispettivamente in corso di anticoagulazione perioperatoria completa e subottimale, 4. degli strumenti di cui il medico dispone per modificare l'assetto coagulativo in relazione con lo specifico contesto clinico (Tabella 7) [24, 34-38]. L'impiego dell'eparina viene limitato a brevi periodi di trattamento mentre la terapia anticoagulante cronica è basata sulla somministrazione per via orale di dicumarolici. In Italia sono commercializzate due dicumarolici, l'acenocumarolo (Sintromâ) e la warfarina (Coumadinâ), tra loro differenti per caratteristiche farmacocinetiche. Il tempo di emivita dell'acenocumarolo è infatti inferiore a quello della warfarina, di cui è pertanto più prolungata la durata dell'effetto farmacologico dopo la riduzione della posologia o la sospensione della terapia. Tabella 6 - Fattori da considerare nel paziente in terapia anticoagulante orale (TACO) da sottoporre a chirurgia non cardiaca a. Fattori inerenti alla cardiopatia: motivo per cui il paziente è in TACO  Fibrillazione atriale (unico fattore) Il rischio di sanguinamento facendo l'intervento in scoagulazione è maggiore del rischio di stroke: la sospensione dell'AC può essere accettabile e va ponderata in ogni singolo caso.   Valvulopatia reumatica su mitrale nativa, con atriomegalia sinistra e/o fibrillazione atriale La TACO cronica è necessaria; la terapia eparinica perioperatoria, limitata ai periodi in cui INR<2, va riservata ai pazienti ad alto rischio di complicanze emboliche (stroke nel mese precedente la chirurgia) a dispetto del maggior sanguinamento.   Protesi valvolare      Biologica: la TACO è necessaria solo nei primi 3 mesi dopo impianto. Meccanica: anticoagulazione obbligatoria per sempre: il passaggio alla terapia eparinica nel perioperatorio è necessario.     b. Fattori inerenti alla chirurgia non cardiaca nel portatore di protesi valvolari meccaniche   Chirurgia maggiore, indifferibile (es: politramatizzato con emorragia interna)  Vitamina K1 e.v. (2.5-5 mg, lentamente) ed eventualmente trasfusioni di plasma fresco congelato per contrastare l'emorragia   Chirurgia maggiore, differibile di 24 h    Vitamina K1 (1 mg, p.o. oppure 0.5 -1 mg i.v.) generalmente riduce l'INR da ~4.0 a ~1.5 in ~24 h nei pazienti in terapia con warfarina; nel postoperatorio, trattamento standard (vedi testo)   Chirurgia maggiore, elettiva  Prima dell'intervento, interruzione della TACO e sostituzione con terapia eparinica in infusione endovenosa (vedi testo)     Chirurgia minore, elettiva (es: avulsione dentaria, biopsia cutanea) Paziente in terapia con acenocumarolo: stop Sintrom per ~24 h (così che 1.51.5 cm2) sono spesso presenti fibrillazione atriale (cronica o parossistica), ipertensione polmonare e sovraccarico ventricolare destro. Il ritmo sinusale è importante per il compenso emodinamico. Tuttavia, nei pazienti in fibrillazione atriale cronica, il ripristino del ritmo sinusale mediante cardioversione elettrica o farmacologica è spesso impossibile. In questi soggetti, pertanto, la fibrillazione atriale va accettata. Nel caso in cui la frequenza di risposta ventricolare sia molto elevata, è tuttavia giustificato intervenire farmacologicamente, poichè solo la riduzione della frequenza ventricolare consente un riempimento ventricolare adeguato, da cui dipende criticamente la portata cardiaca. Nel paziente con stenosi mitralica è poi necessario mantenere normale la volemia, contrastare l'eccessiva vasodilatazione sistemica ed evitare (o correggere) gli stati di ipossiemia, ipercapnia e acidosi metabolica che aumentano i valori di pressione polmonare, già elevati in questa patologia.   Cardiopatie dilatative. Nei pazienti con cardiopatia dilatativa vanno valutate l'eziologia della cardiopatia di base (cardiopatia idiopatica, post-ischemica, valvolare, post-chemioterapica), il grado di compenso e la riserva funzionale del paziente. L'intervento, dove non esistano condizioni cliniche che ne rendono inopportuno il differimento, deve aver luogo dopo il raggiungimento delle condizioni di compenso cardiovascolare migliori possibili con la terapia medica. L'obiettivo perioperatorio è evitare brusche cadute del precarico, repentini aumenti del postcarico e le situazioni, anche iatrogene, che deprimono la già scadente contrattilità. Pazienti portatori di pace-maker e dispostitivi antiaritmici [41]. Noto il motivo per cui è stato impiantato uno stimolatore endocavitario (tipo di bradiaritmia), se ne devono conoscere tipo (stimolatore monocamerale o bicamerale) e modalità di programmazione (stimolazione fissa o demand; soglia di stimolazione e frequenza di stimolazione). Nel caso di interventi di chirurgia maggiore in pazienti totalmente dipendenti da pace-maker oppure di interventi in cui si prevede estensivo uso di bisturi elettrico, può essere opportuno riprogrammare lo stimolatore da modalità demand (VVI) a fissa (VOO) ed aumentare la frequenza di stimolazione. Generalmente i pace-maker vengono impostati a 70-75 battiti/minuto. Tale frequenza tuttavia può non essere sufficiente a garantire l'incremento di portata cardiaca desiderabile nel corso dell'intervento chirurgico e nel postoperatorio. Nel caso in cui la riprogrammazione non sia possibile, va considerata la possibilità di posizionare un elettrostimolatore endocavitario flottante. Un problema particolare è rappresentato dall'interferenza del bisturi elettrico nel funzionamento del pace-maker e dei defibrillatori impiantabili. Per ridurre l'entità dell'interferenza tra pace-maker ed elettrobisturi è necessario impiegare elettrocauteri bipolari (anziché unipolari), limitandone l'uso a brevi scariche. Inoltre la piastra isolante a contatto col paziente deve essere posta il più lontano possibile dalla scatola del pace-maker evitando che questa sia situata tra la piastra e il campo operatorio. I defibrillatori impiantabili devono essere disattivati prima dell'inizio dell'atto chirurgico. L'impiego del bisturi elettrico, come pure la defibrillazione esterna, può infatti danneggiare in modo permanente il dispositivo antiaritmico; in aggiunta, la corrente generata dall'elettrobisturi può essere letta dal dispositivo come "aritmia maligna" e attivare pertanto una defibrillazione interna inopportuna e pericolosa (innesco di una aritmia ventricolare maligna).  Pazienti sottoposti a trapianto cardiaco [42]. In aggiunta alle problematiche legate all'immunosoppressione (aumentata suscettibilità alle infezioni) e agli effetti collaterali della terapia (nefrotossicità da clclosporina, depressione corticosurrenalica da glicocorticoidi), il paziente sottoposto a trapianto cardiaco presenta problematiche peculiari poichè il cuore trapiantato è denervato. La denervazione cardiaca implica che: 1. mancano i riflessi barorecettoriali dall’arco aortico e dal seno carotideo; 2. il cuore risponde prontamente alle catecolamine di sintesi ma con più lentezza alle catecolamine endogene; 3. l’aumento della portata cardiaca avviene per aumento della gettata sistolica; 4. l’alleggerimento del piano di anestesia non causa tachicardia in via riflessa; 5. il paziente è molto sensibile all’ipovolemia e alle variazioni di postura; 6. la somministrazione di farmaci che agiscono sulla frequenza cardiaca tramite attivazione del sistema nervoso autonomo (l’atropina, in primo luogo) non modifica la frequenza stessa.   Pazienti con protesi valvolari meccaniche. Le problematiche peculiari in questi pazienti sono in relazione alla necessità di un’anticoagulazione cronica (vedi: Aspetti specifici sulla terapia con farmaci attivi sull'emostasi) e all’elevata suscettibilità alle infezioni della valvola protesica. I portatori di protesi valvolari devono effettuare la profilassi antibiotica dell’endocardite infettiva in occasione di procedure diagnostiche e terapeutiche potenzialmente associate a batteriemia (incluse le procedure odontoiatriche!) e di fatti flogistici a possibile eziologia batterica (flogosi delle vie respiratorie, delle vie urinarie, escoriazioni cutanee) [43].   Anestesia generale verso anestesia loco-regionale. L'anestesia generale e loco-regionale, se correttamente applicate, non presentano differenze importanti in merito al rispetto della funzione cardiaca. La scelta di una particolare tecnica quindi deve essere effettuata in base al tipo di procedura chirurgica, alle caratteristiche fisiche e psicologiche del paziente, alla familiarità dell’anestesista con la tecnica prescelta, all'ambiente in cui avrà luogo il decorso postoperatorio (con speciale riferimento alla possibilità di trasferire il paziente in un ambiente intensivo). Allo stato attuale delle conoscenze, anche per quanto attiene all’incidenza di complicazioni cardiovascolari perioperatorie, non pare esista differenza tra tecniche di anestesia generale e loco-regionale [44]. Vale la pena di ricordare a questo proposito il lavoro di Shah [2], che stima pari al 3% l'incidenza di infarto miocardico dopo interventi in anestesia loco-regionale ed identifica i pazienti diabetici ed i coronaropatici con ischemia silente come sottogruppi di pazienti a rischio di complicanze particolarmente elevato.   Monitoraggio intraoperatorio Le procedure chirurgiche di breve durata, eseguibili con anestesia locale, cioè buona parte di quelle in classe di rischio C, possono essere gestibili con una semplice MAC (monitored anesthesia care) e pertanto con ECG, pulsossimetria e pressione arteriosa non invasiva. Per gli interventi in classe di rischio superiore (classi B e A), il monitoraggio di base deve prevedere la rilevazione in continuo dell'ECG con cavo a 5 derivazioni e possibilmente 2 derivazioni in lettura continua simultanea (preferibilmente D2 e V4 o V5), pulsossimetria, capnometria, rilevazione della temperatura nasofaringea e pressione arteriosa cruenta. La gestione della volemia non può prescindere dalla valutazione oraria, oltre che delle perdite chirurgiche, della diuresi. Per gli interventi di classe A e buona parte di quelli in classe B, è opportuna la incannulazione di un vaso centrale per la valutazione della pressione venosa centrale. Tecniche supplementari di monitoraggio (analisi del tratto ST, cateterismo destro, ecografia transesofagea) devono essere messe in atto in casi selezionati.  Quanto all'analisi del tratto ST, è noto che esiste una correlazione positiva tra episodi ischemici preoperatori ed outcome [1]. L'attuale tecnologia di analisi computerizzata dell'ECG e del tratto ST permette di rilevare gli episodi ischemici con sensibilità e specificità elevate. L'analisi del tratto ST può essere consigliata nei pazienti con angina stabile a bassa soglia o con angina instabile. Il cateterismo cardiaco destro mediante catetere di Swan-Ganz non garantisce una rilevazione accurata degli episodi di ischemia miocardica intraoperatori, come dimostrano i bassi valori di specificità e sensibilità sulle variazioni della pressione di incuneamento [45]. Tuttavia, il catetere di Swan-Ganz fornisce utili dati sulla volemia, sulla portata cardiaca e sulle resistenze vascolari. Il catetere di Swan-Ganz a fibre ottiche in aggiunta consente la misurazione in continuo della saturazione venosa mista di ossigeno (SvO2) che, una volta escluse variazioni importanti di SaO2 e di emoglobina, è indicativa di variazioni (nello stesso senso) della portata cardiaca. L'impatto dell'impiego intraoperatorio del cateterismo cardiaco destro nella gestione dei pazienti è stato valutato dall'ASA nel 1993 [46]. Dagli studi esaminati non sono emerse evidenze forti per motivare l'impiego intraoperatorio del catetere di Swan-Ganz, il cui utilizzo è consigliabile solo nelle situazioni che prevedibilmente espongono il paziente ad elevato rischio di compromissione emodinamica. Limitatamente alla gestione del paziente critico, l’opportunità del cateterismo cardiaco destro rappresenta un problema tuttora insoluto per la difficoltà a stabilire scientificamente l’impatto della procedura sulla sopravvivenza dei pazienti, essendo a questo fine necessario un campione di dimensioni considerevoli. Infatti, se si volesse evidenziare una riduzione della mortalità dello 0.2% nel gruppo trattato con cateterismo destro rispetto ad un gruppo di controllo con mortalità del 3%, sarebbe necessario reclutare 233.010 pazienti con catetere di Swan Ganz (intervallo di confidenza del 95% e potenza del test dell’80%) [49]. In aggiunta, in un recente studio di Connors et al. [47], è stato ipotizzato un effetto netto di aumento della mortalità nel gruppo di pazienti in cui il cateterismo destro veniva applicato, un fatto che ha spinto alcuni Autori [48] ad auspicarne un attento impiego. In sintesi, il posizionamento intraoperatorio del catetere di Swan-Ganz è consigliabile negli interventi caratterizzati da elevato stress emodinamico e marcato spostamento di fluidi tra il compartimento centrale e i comparti tessutali. Esso è inoltre utile nei pazienti con depressa funzione contrattile, in cui la conoscenza del valore di pressione venosa centrale non è indicativa delle pressioni di riempimento nelle cavità sinistre e pertanto non può essere impiegata per guidare la terapia cardiovasoattiva. La scelta deve essere legata alla necessità di acquisire informazioni utili per la gestione ottimale in ogni singolo caso, valutando il rapporto costo-beneficio della scelta, senza dare eccessivo peso al rischio di complicanze, che in mani esperte è relativamente basso. L'ecografia transesofagea (TEE) fornisce informazioni qualitative e quantitative di elevato valore diagnostico sulla volemia, sulla cinesi globale e segmentaria di entrambi i ventricoli e sull'apparato valvolare cardiaco. Per quanto attiene specificamente alle variazioni della cinesi segmentaria in concomitanza di episodi ischemici, i riscontri ecocardiografici sono più numerosi e più precoci rispetto alle corrispondenti modificazioni elettrocardiografiche. Malgrado al momento attuale ci sia poca evidenza diretta che la diagnosi di ischemia miocardica mediante TEE migliori la prognosi, l'ASA nel suo documento del 1996 conclude che tale evidenza si può desumere indirettamente dagli studi che dimostrano come un precoce trattamento dell'ischemia e dell'infarto miocardico migliorino la sopravvivenza [50]. La TEE è una tecnica consigliabile in pazienti con stenosi aortica critica, con funzione di pompa depressa e con elevato rischio di ischemia miocardica, soprattutto nei casi in cui l'ECG ha un valore diagnostico limitato per presenza di ritmo da pace-maker o per blocco di branca sinistro. Un'applicazione clinica estensiva dell'ecografia transesofagea è purtroppo spesso limitata dalla difficoltà a disporre in sala operatoria dell'apparecchiatura necessaria e di un operatore esperto. Un ulteriore limite della tecnica è rappresentato dal fatto che, per ovvie ragioni, la sonda viene inserita dopo l'induzione della narcosi e rimossa prima dell'estubazione del paziente, il che non consente di monitorizzare due fasi della narcosi caratterizzate da elevato stress emodinamico.   Gestione postoperatoria del cardiopatico nell'ambito della chirurgia non cardiaca A fine intervento, la decisione in merito alla collocazione del paziente in recovery room, terapia intensiva o reparto di degenza dipende da una serie di parametri, tra cui sono particolarmente importanti le condizioni generali e la/e patologia/e di base del paziente, la procedura chirurgica effettuata, il decorso intraoperatorio, la logistica propria della struttura in cui avverrà il decorso postoperatorio e il livello di assistenza disponibile. Indipendentemente dal luogo (ambiente intensivo, subintensivo o reparto di degenza) in cui il paziente trascorre il periodo postoperatorio, dal punto di vista logistico-organizzativo, non lontano dal posto letto deve essere presente un cardiomonitor con defibrillatore funzionante. Il letto, inoltre, deve essere provvisto di un tavolato rigido sotto il torace al fine di assicurare l'efficacia di un eventuale massaggio cardiaco esterno. Il rischio di ischemia miocardica è maggiore nelle prime 48-72 h postoperatorie; pertanto le misure di monitoraggio dell'ischemia miocardica devono essere protratte almeno per questo periodo. Il monitoraggio delle condizioni cliniche include, oltre che la sorveglianza del paziente, la rilevazione dei parametri vitali (frequenza cardiaca, pressione arteriosa, diuresi, saturazione arteriosa di ossigeno per via transcutanea).Tra i criteri di dimissibilità del paziente dalle unità di cure intermedie al reparto non si può omettere la normalità dello stato neurologico e dell'equilibrio acido-base, oltre che dei parametri emodinamici ed elettrocardiografici precedentemente citati. Come detto, indipendentemente dalla cardiopatia di base, il paziente cardiopatico tollera male le situazioni di aumentato consumo di ossigeno. Nel postoperatorio immediato tali situazioni sono fondamentalmente dovute al brivido e al dolore. Pertanto, un buon riscaldamento corporeo e una terapia analgesica adeguata costituiscono i presupposti per un decorso postoperatorio non complicato da problematiche di natura cardiaca. Indipendentemente dall'adeguatezza della terapia analgesica, nel periodo postoperatorio l'organismo deve affrontare uno stato di stress dovuto in ogni caso ad un aumentato catabolismo e, talora, ad anemia, ipovolemia e ipertermia. Nel paziente cardiopatico, data la spesso limitata la possibilità di adeguare la portata cardiaca negli stati di stress, il verificarsi di queste situazioni cliniche comporta il concreto pericolo di una inadeguata perfusione tessutale. Una cura particolare va quindi posta nell'evitare gli squilibri volemici e nel trattare gli stati ipertermici [51]. Quanto alla relazione tra anemia e ischemia miocardica intra e postoperatoria, un recente lavoro di Hogue et al [52] ha dimostrato che l'incidenza di complicanze ischemiche è maggiore nei pazienti anziani con valori di ematocrito <28%, specialmente se coesiste tachicardia. Questa evidenza motiva il consiglio di considerare come soglia per la trasfusione nel paziente critico un valore di emoglobina di 10 g/dl [53]. In molti casi l’ischemia postoperatoria non è dovuta a turbe emodinamiche ma ad alterazioni emoreologiche mediate dalla reazione allo stress, il cui corrispettivo clinico è un sindrome infiammatoria sistemica con tendenza alla trombofilia. Per questo motivo, soprattutto nei pazienti cardiopatici, è opportuno riprendere la terapia anticoagulante e antiaggregante piastrinica non appena si possa ragionevolmente escludere o considerare ridotto il rischio di complicanze emorragiche di natura chirurgica.     Bibliografia 1. Slogoff S, Keats AS. Does perioperative myocardial ischemia lead to postoperative myocardial infarction? Anesthesiology 1985; 62:107-114.  2. Shah KB, Kleinman BS, Rao T et al. Angina and other risk factors in patients with cardiac diseases undergoing noncardiac operations. Anesth.Analg1990; 70:240-247. 3. 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Sirieix D, Lamonerie-Alvarez L, Olivier P et al. Evaluation du risque cardiovasculaire périopératoire en chirurgie non cardiaque. Ann Fr Anesth Réanim 1998; 17:1225-1231 _______________________________________________________ Il cuore come organo bersaglio dei tossici ______________________________________________________ Amedeo Pignataro, Servizio di Anestesia e Rianimazione, Ospedale Buccheri La Ferla, FBF, Palermo    1. Generalità Un gran numero di farmaci può influenzare selettivamente il cuore ed i vasi. L’effetto è nella maggior parte dei casi soltanto funzionale, ovvero perdurare per il tempo di esposizione ed è di solito dose dipendente. Il cuore, diversamente da altri organi o apparati, presenta un maggiore rischio di letalità per alterazioni funzionali e la morte improvvisa da aritmia per esposizione acuta ad un farmaco ne rappresenta un esempio drammatico. Se per certi farmaci la tossicità cardiaca riguarda gli effetti collaterali, per i farmaci cardiovascolari, gli effetti tossici possono manifestarsi per dosi appena superiori a quelle terapeutiche, soprattutto se si associano condizioni come ipossia, acidosi, alterazioni idro-elettrolitiche ed acido-base e altri farmaci ad azione cardiaca. Gli effetti di cardiotossicità di un farmaco possono essere diretti o indiretti (ad es. sul sistema nervoso centrale) e interessare il cuore, i vasi o entrambi. Il sistema cardiovascolare fornisce una corretta perfusione tissutale tramite un adeguato volume di riempimento vascolare, il tono vascolare, la contrattilità ed il ritmo cardiaco: tutte queste componenti possono essere influenzate da un farmaco cardiotossico per via di interazioni con i canali ionici cellulari ed i recettori di membrana. Gli effetti clinici che si determinano sono: Ipo o ipertensione Edema polmonare e scompenso cardiaco Aritmie Turbe della conduzione   2. Anestetici alogenati   Tutti I moderni anestetici alogenati, incluso desflurane e sevoflurane, deprimono la funzione contrattile del miocardio sano in vitro e in vivo.(1) Lavori sperimentali condotti negli anni ‘60 (2, 3, 4) hanno dimostrato che alotano causa una depressione dose dipendente della relazione forza-velocità e della curva Frank-Starling in preparati di muscolo cardiaco isolato e in cani a torace chiuso rispettivamente. Queste scoperte supportano le osservazioni nell’uomo di depressione circolatoria in corso di anestesia con alotano. Anche Enflurano (5) ed isoflurano (6) hanno dimostrato produrre effetti inotropi negativi diretti come indicato dalla riduzione della velocità massimale di contrazione, del picco di forza sviluppato e del tasso massimo di sviluppo della forza durante contrazione isotonica nei muscoli papillari isolati di felino. Tali riduzioni della contrattilità miocardia intrinseca causate da enflurano e isoflurano contribuiscono alla depressione cardiaca osservata nell’uomo con questi agenti. Concentrazioni equianestetiche di enflurano ed alotano deprimono la contrattilità miocardica allo stesso modo in vivo (7, 8). Studi sperimentali in animali, al contrario, hanno ripetutamente dimostrato che isoflurano produce una depressione miocardica minore di quella prodotta da alotano o enflurano. Desflurano causa effetti emodinamici sistemici e coronarici che sono simili a quelli prodotti da isoflurane (9, 10). Gli effetti del sevoflurano sulla contrattilità miocardica è stato dimostrato essere virtualmente indistinguibili da quelli prodotti da isoflurano (11) nei cani. Gli anestetici volatili, quindi, sembrano deprimere l’attività contrattile miocardica nel cuore sano nell’ordine seguente: alotano>enflurano>isoflurano=desflurano=sevoflurane. Gli anestetici inalatori deprimono la contrattilità miocardica per via di alterazioni dell’omeostasi del calcio intracellulare a diversi siti subcellulari nel miocita cardiaco normale.  Tutti gli anestetici volatili moderni causano una riduzione concentrazione-correlata della pressione arteriosa. Il meccanismo con cui questi agenti determinano ipotensione differisce tra gli anestetici. La riduzione della pressione arteriosa indotta da alotano ed enflurano può essere attribuita primariamente alla riduzione della contrattilità miocardica e della gittata cardiaca. Il decremento della pressione arteriosa associata con isoflurane (12), desflurane (13) e sevoflorane (14), al contrario, si verifica come risultato della riduzione del post-carico del ventricolo sinistro, mentre la contrattilità miocardica è relativamente preservata. Isoflurane, desflurane e sevoflurane, quindi, mantengono, nell’uomo, la gittata cardiaca poiché questi agenti determinano un meno pronunciata riduzione della contrattilità miocardica e una maggiore riduzione della resistenza vascolare sistemica rispetto ad alotano ed enflurano.    3. Sedativo/Ipnotici a. Propofol Il Propofol determina un aumento della capacitanza vascolare tramite un’inibizione dell’attività del sistema simpatico. L’aumento della capacitanza vascolare può contribuire a fenomeni significativi d’ipotensione durante l’infusione di propofol. Nei pazienti ipovolemici, il propofol può causare una riduzione del ritorno venoso e di conseguenza della gittata cardiaca. In pazienti con insufficienza cardiaca congestizia, d’altro canto, l’aumento della capacitanza vascolare causata dal propofol può portare alla riduzione del pre-carico e ridurre il lavoro cardiaco simultaneamente con la riduzione del post-carico. Gli eventi avversi riportati in uno studio multicentrico della fase 4 sono elencati in ordine d’incidenza: dolore all’iniezione 5.2% Nausea o vomito 1.9% Eccitazione 1.3% Ipotensione 1.1% Bradicardia 0.4% Ipertensione 0.3% Rash 0.2% Confusione 0.2% Tosse 0.2% Sonnolenza 0.2% Tachicardia 0.1%  Effetti cardiovascolari severi possono verificarsi con l’uso del propofol: ipotensione bradicardia, bradiaritmia, tachicardia, insufficienza cardiaca ed asistolia. Il propofol determina ipotensione dose dipendente e riduzione delle resistenze vascolari sistemiche che non si associa ad un significativo aumento della frequenza cardiaca o riduzione nella gittata cardiaca. Questo si verifica dal 3 al 10% dei pazienti adulti e nel 17% in quelli pediatrici. Una venodilatazione può contribuire all’ipotensione causata dal propofol. Alcuni autori hanno riportato una riduzione media della pressione sistolica di 30 mmHg ed una riduzione media della pressione diastolica di 11 mmHg (Muzi et al, 1992). Numerosi bambini hanno sviluppato un’ipotensione refrattaria associata ad acidosi metabolica in corso d’infusione prolungata di propofol . La sindrome da infusione di propofol è un’evenienza rara che spesso si rivela fatale in pazienti pediatrici critici (e meno frequentemente negli adulti) che hanno ricevuto infusioni di propofol per lungo tempo ed è caratterizzata da bradiaritmia, acidosi metabolica ed insufficienza renale. I dati biochimici rivelerebbero un’alterazione dell’ossidazione degli acidi grassi e l’accumulo di intermediari del metabolismo di acidi grassi a lunga media e corta catena sarebbe teoricamente responsabile delle manifestazioni cliniche presenti (Wolf et al, 2001). Sebbene i bambini siano maggiormente soggetti a questa sindrome, sono stati riportati casi di adulti che sono andati incontro a simili effetti clinici e anche a morte (Perrier et al, 2000; Cremer et al, 2001). In numerosi casi fatali di bambini che ricevevano propofol come sedativo in terapia intensiva le bradiaritmie sono state associate a progressiva insufficienza cardiaca (Parke et al, 1992; Strickland & Murray, 1995; Hanna & Ramundo, 1998). 5 bambini con infezioni delle alte vie aeree sono morti in seguito ad infusioni prolungate con propofol (Parke et al, 1992). Il decorso clinico fu identico in tutti i casi , per cui l’acidosi metabolica fu associata con bradiaritmia che progredì fino all’insufficienza cardiaca irresponsiva alla rianimazione. 5 pazienti adulti con trauma cranico andarono incontro ad arresto cardiaco dopo infusione prolungata di propofol per la sedazione. Gli eventi furono simili a quelli descritti per i bambini (acidosi metabolica, insufficienza cardiaca progressiva, aritmie, rabdomiolisi e iperkalemia al 4-5° giorno di sedazione). Tutti i pazienti ricevettero propofol a velocità superiori a 5 mg/kg/h per più di 58 ore, e gli autori trovarono un’associazione dose-dipendente tra l’infusione prolungata di propofol ad alte dosi e l’insufficienza cardiaca. Non è stato possibile stabilire una relazione causale (Cremer et al, 2001). b. Benzodiazepine Le benzodiazepine utilizzate da sole hanno modesti effetti emodinamici. Le variazioni emodinamiche predominanti consistono in una lieve riduzione della pressione arteriosa che risulta in un decremento della resistenze vascolari sistemiche. Gli effetti emodinamici del diazepam e del midazolam sono dose-dipendenti: maggiore il livello plasmatico, maggiore la riduzione della pressione arteriosa. L’associazione di benzodiazepine con oppioidi produce una riduzione della pressione arteriosa maggiore di quella che si verifica con le singole classi di farmaci. (combinazione di diazepam con fentanil o sufentanil, di midazolam con fentanil o sufentanil e lorazepam con fentanil o sufentanil) (15, 16), tutti producono un riduzione della pressione arteriosa sistemica maggiore di quella di ciascun farmaco da solo. La sedazione per lunghi periodi, per esempio in una terapia intensiva, viene realizzata con benzodiazepine. Infusioni prolungate può determinare un accumulo del farmaci e, nel caso del midazolam, una concentrazione significativa dei metabolici attivi. c. Barbiturici Gli effetti cardiovascolari preminenti dell’induzione dell’anestesia con barbiturici è una venodilatazione seguita dal sequestro di sangue in periferia (17). La contrattilità miocardica viene depressa, ma non allo stesso livello che con gli anestetici volatili (18). Il tiopentale in vitro, usando strisce atriali umane, inibisce la contrattilità più del midazolam, del propofol e della ketamina. La gittata cardiaca è ridotta anche se aumenta la frequenza cardiaca tramite il soltanto lievemente depresso meccanismo baroriflesso. Le resistenze vascolari sistemiche normalmente rimangono invariate. Non si verificano aritmie dopo l’induzione dell’anestesia con i barbiturici se ipossiemia e ipercapnia vengono evitati. I barbiturici deprimono anche l’attività simpatica del SNC. E non sensibilizzano il cuore alle catecolamine. Il tiopentale ed il metoexitale determinano un aumento della frequenza cardiaca, che si traduce in un aumento del consumo d’ossigeno miocardio (19). Se la pressione arteriosa, inoltre, è molto bassa, si riduce il flusso coronarico. I barbiturici, quindi, vanno usati con prudenza in tutte le situazioni nelle quali un aumento della frequenza cardiaca o una riduzione del precarico possono essere dannose per il paziente. Tali condizioni includono il tamponamento pericardio, l’ipovolemia, l’insufficienza cardiaca congestizia, la cardiopatia ischemica, il blocco cardiaco così come un elevato tono simpatico a riposo o l’ischemia miocardica. Alterazioni emodinamiche dopo induzione di anestesia con ipnotici non barbiturici     DIAZEPAM DROPERIDOLO KETAMINA LORAZEPAM MIDAZOLAM PROPOFOL HR -9-+13% Unchanged 0-59%  Unchanged -14-+12% -10-+10% MBP 0--19% 0--10% 0-+40% -7--20% -12--26% -10--40% SVR -22-+13% -5--15% 0-+33% -10--35% 0--20% -15--25% PAP 0--10% Unchanged +44-+47% -- Unchanged 0--10% PVR 0--19% Unchanged 0-+33% Unchanged Unchanged 0--10% PAO Unchanged +25-+50% Unchanged -- 0--25% Unchanged RAP Unchanged Unchanged +15-+33% Unchanged Unchanged 0--10% CI Unchanged Unchanged 0-+42% 0-+16% 0--25% -10--30% SV 0--8% 0--10% 0--21% Unchanged 0--18% -10--25% LVSWI 0--36% Unchanged 0-+27% -- -28--42% -10--20% dP/dt Unchanged -- Unchanged -- 0--12% Decreased               CI, cardiac index; HR, heart rate; LVSWI, left ventricular stroke work index; MBP, mean blood pressure; PAP, pulmonary artery pressure; PVR, pulmonary vascular resistance; PAO, pulmonary artery occluded pressures; RAP, right atrial pressure; SV, stroke volume; SVR, systemic vascular resistance 4. Oppioidi L’azione cardiaca diretta degli oppioidi, ed in particolare gli effetti sui meccanismi che regolano la contrattilità miocardica, sono significativamente inferiori a quelli di molti altri anestetici inalatori ed endovenosi. La maggior parte delle variabili emodinamiche, incluse la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa, la gittata cardiaca, le resistenze vascolari sistemiche e polmonari e la pressione polmonare a catetere bloccato, rimangono invariate dopo dosi elevate di fentanil (20). I meccanismi mediati dal controllo neurogeno sono i meccanismi primari nella bradicardia indotta dagli oppioidi. La morfina ha anche un effetto diretto sul nodo seno-atriale e sulla conduzione atrio-ventricolare. La bradicardia indotta dagli oppioidi può evolvere in asistolia e numerosi case reports illustrano i fattori predisponenti (vedi tabella). Sufentanil e alfentanil sembra che evolvano più frequentemente del fentanil in asistolia. La premeditazione con, o la concomitante somministrazione di beta bloccanti o calcio antagonisti può accentuare la bradicardia e può determinare asistolia dopo sufentanil. Clinicamente i disturbi della conduzione cardiaca dovuti agli oppioidi sono molto rari, ma possono verificarsi molto più frequentemente in presenza di beta bloccanti o calcio antagonisti. Alterazioni ormonali contribuiscono alle variazioni emodinamiche viste dopo la morfina ed includono un aumento dell’indice cardiaco e una riduzione della pressione arteriosa e delle resistenze vascolari sistemiche. La meperidina causa anche un rilascio d’istamina più frequentemente degli altri oppioidi, incluso morfina, fentanil, sufentanil e alfentanil (21). Al contrario di morfina (22, 23) o meperidina, fentanil, sufentanil, alfentanil e remifentanil (24, 25) non producono aumento dell’istamina plasmatici e l’ipotensione è meno frequente con questi oppioidi. Fattori predisponenti alla bradicardia e all’asistolia durante induzione dell’anestesia con oppioidi Presenza di beta bloccanti o calcio antagonisti Premedicazione con o uso concomitante di benzodiazepine Miorilassanti con scarse o assenti proprietà vagolitiche (vecuronio) Miorilassanti con proprietà vagotoniche (succinilcolina) Stimoli vagali associati (laringoscopia) Rapida somministrazione degli oppioidi     5. Anestetici locali Gli anestetici locali sono farmaci relativamente privi di effetti collaterali se vengono somministrati in dosi appropriate e nei siti anatomici corretti. Le reazioni tossiche locali e generalizzate possono verificarsi in seguito a somministrazioni accidentali. A differenza degli altri farmaci, la concentrazione ematica degli AL è un effetto indesiderabile che può essere responsabile d'effetti tossici. Gli anestetici locali possono esercitare un’azione diretta sul cuore e sui vasi sanguigni. I fattori che influenzano la tossicità degli AL sono elencati in tabella: A le proprietà fisico-chimiche: queste rendono conto della tossicità propria di ogni sostanza B i fattori che modificano il tasso plasmatico, poiché la tossicità acuta di un anestetico locale è condizionata da: la concentrazione plasmatica massimale (Cp max) l'intervallo di tempo in cui si raggiunge la Cp Max (T max) C i fattori suscettibili di ridurre la soglia di tossicità neurologica e cardiovascolare dei differenti AL. Alla somministrazione endovenosa accidentale di 100-200 mg di un potente anestetico locale (es. Bupivacaina), si assiste nell’uomo alla comparsa di turbe del ritmo, come extrasistoli ventricolari, tachicardie ventricolari e sopraventricolari e di difetti di conduzione con allargamento del QRS. La velocità con la quale si raggiunge la concentrazione plasmatica massimale (T Max) è un fattore determinante nella tossicità di un AL: un'eccellente prevenzione di questi problemi consiste, per via peridurale, nell'iniezione lenta e frazionata (5 ml/min) della soluzione dell'AL, mentre l'utilizzazione di una dose test con aggiunta di adrenalina, soprattutto nelle donne in travaglio, è controversa e non consigliabile. Nonostante le dimostrazioni in vitro della cardioselettività di alcuni AL (es. lidocaina e mepivacaina) per cui le convulsioni precedono sempre i segni di tossicità cardiaca (soglia plasmatica di tossicità cardiaca 2-3 volte superiore di quella convulsivante), questi dati non sono stati ritrovati in studi animali nei quali il sistema cardiovascolare è risultato sempre più resistente agli AL del SNC, per tutti gli anestetici testati. Per gli AL con potenza maggiore, l'aumento della tossicità non è perfettamente correlata ad un aumento dell'attività anestetica: la bupivacaina è stimata 17 volte più cardiotossica della lidocaina, mentre possiede un'attività anestetica soltanto 4 volte maggiore di quest'ultima.. La bupivacaina ha, in effetti, un'azione aritmogena maggiore di quella della lidocaina. Quest'ultima è antiaritmogena a dosi non tossiche, mentre la bupivacaina e l'etidocaina, qualunque sia la dose, inducono un effetto stabilizzante di membrana procainamide-simile a livello cardiaco. Quest'azione è aritmogena per piccoli aumenti della dose; ciò spiega la possibilità di trattare le turbe dell'eccitabilità miocardica ventricolare indotte dalla bupivacaina con la somministrazione di lidocaina. La ropivacaina, recentemente introdotta in commercio anche in Italia, sembrerebbe, in vitro, dotata di minori effetti negativi sull'elettrofisiologia cardiaca, risultandone, quindi, una minore cardiotossicità. I risultati di uno studio condotto su un preparato muscolare di fibre di Purkinje, hanno mostrato che la bupivacaina causa la maggiore depressione sull’eccitabilità e sulla conduzione cardiaca, la lidocaina ha il minore effetto depressivo, mentre la ropivacaina occupa una posizione intermedia tra i due anestetici. Analogo comportamento si verifica sull’attività elettrica cerebrale in seguito alla somministrazione endovenosa in ratti, cani e conigli, di bupivacaina, lidocaina e ropivacaina. La dose convulsivante della ropivacaina era maggiore della bupivacaina, ma inferiore a quella della lidocaina. La ropivacaina attraversa rapidamente la placenta : il minore legame proteico dell’anestetico nel feto riguardo alla madre, condiziona nel feto una concentrazione plasmatica minore di quella materna (26) . Uno dei maggiori problemi della bupivacaina quando iniettata endovena che ha spinto la ricerca verso nuovi anestetici locali di lunga durata, l’aumentata cardiotossicità durante la gravidanza, è stata superata con la ropivacaina. Il profilo cardiotossico della ropivacaina nelle pecore gravide è lo stesso di quello ottenuto nelle pecore non gravide. Per queste ragioni, sembra che la ropivacaina possa essere significativamente più sicura della bupivacaina per l’anestesia locale e regionale (27). Fattori che potenziano la tossicità cardiaca, comuni a tutti gli AL che ne riducono il margine di sicurezza sono mostrati nella tabella seguente: L'acidosi aumenta la captazione cellulare a livello polmonare, renale, epatico e cardiaco soprattutto degli AL con pKa elevato · L’iperKaliemia: favorisce le turbe della conduzione indotte dagli AL Ipossia miocardica. Per gli AL più potenti, bisogna aggiungere un fattore favorente supplementare rappresentato dalle condizioni cardiache preesistenti che, quindi, pur non controindicandone l'uso, richiedono particolare attenzione nel calcolo del dosaggio.   6. Antiaritmici La tossicità dei farmaci antiaritmici è spesso la manifestazione di sovradosaggi terapeutici in pazienti già in trattamento con tali farmaci, mentre un numero minore di segnalazioni riguarda l’ingestione accidentale da parte di bambini o il tentato suicidio di pazienti psichiatrici. L’esperienza con le intossicazioni con questi farmaci, tuttavia, è limitata, e il trattamento si basa sulla conoscenza dei meccanismi fisiopatologici sottostanti, sui case reports e sulla letteratura sperimentale. Gli antiaritmici modificano la generazione e la conduzione dell’impulso elettrico interagendo con i canali ionici membranari di calcio, sodio e potassio. La tossicità di tali farmaci si ritiene sia dovuta alla maggiore suscettibilità al rientro e generazione di tachiaritmie ventricolari, dovuto al rallentamento della conduzione. L’effetto finale della maggior parte dei farmaci anti-aritmici è la depressione della contrattilità miocardica. L’effetto è tanto più spiccato se l’antiaritmico è somministrato per via venosa o se la funzione cardiaca è precedentemente alterata. Lo stato emodinamico dipende dalla loro azione diretta o indiretta mediata dal sistema autonomo sul tono vascolare venoso o arterioso. Infine, l’efficacia degli anti-aritmici sulle turbe del ritmo è da tenere presente. In effetti, in caso di insuccesso terapeutico, la depressione miocardica indotta dall’anti-aritmico si somma allo squilibrio emodinamico relativo alla turba del ritmo. Le turbe della conduzione indotte dagli anti-aritmici possono manifestarsi con bradicardia severa, blocco senoatriale o atrio-ventricolare. Si riscontrano abitualmente in caso di sovradosaggio assoluto o relativo in pazienti affetti da turbe di conduzione preesistenti. Il tipo di alterazione dipende dalla classe di anti-aritmici utilizzata. Gli anti-aritmici di classe I sono più spesso all’origine di blocchi atrio-ventricolari infrahisiani ma anche di blocchi senoatriali per alterazione della conduzione delle cellule perisinusali. Un elemento semplice di sorveglianza del trattamento è costituito dall’allargamento del QRS che testimonia direttamente il rallentamento della conduzione intra-ventricolare. I B-bloccanti ed i calcio-antagonisti possono determinare blocchi atrio-ventricolari soprahisiani, blocchi senoatriali o ritmo sinusale basso per alterazione diretta dell’impulso sinusale. L’effetto proaritmico degli anti-aritmici si determina per il sopravvenire di turbe del ritmo più gravi di quelle all’origine della prescrizione. La frequenza di questi accidenti è stata stimata intorno all’8% in corso di trattamenti atti a prevenire le tachicardie o la fibrillazione ventricolare. Teoricamente tutti gli anti-aritmici sono potenzialmente aritmogeni ma questi accidenti interessano soprattutto gli anti-aritmici di classe Ic (encainide, flecainide]. Dal momento che i meccanismi non sono univoci, sono state invocate differenti cause. Esse comprendono l’aumento o la diminuzione dei loro tassi ematici, una reazione idiosincrasica, una diskaliemia o una dismagnesemia, un’interazione tra gli anti-aritmici e il SNA, un’alterazione delle performances cardiache e/o del tono vascolare periferico. Il meccanismo aritmogeno più verosimile sembrerebbe il rientro. Il rientro è favorito dal rallentamento delle velocità di conduzione indotte dagli anti-aritmici, all’origine dei blocchi funzionali [2,20]. Il propanololo ha dato prova di efficacia nel trattamento degli effetti proaritmogeni da flecainide, supportando inoltre l’ipotesi delle interazioni col sistema nervoso autonomo. La tossicità degli antiaritmici viene descritta utilizzando la nota classificazione di Williams: 1. Classe Ia: Chinidina, Procainamide, Disopiramide 2. Classe Ib: Lidocaina, Fenitoina, Mexiletina 3. Classe Ic Flecainide, Propafenone 4. Classe II: Beta bloccanti 5. Classe III: Amiodarone, Bretilio 6. Classe IV: Calcio antagonisti 7. Classe V: Digossina Classe Ia (Chinidina, Procainamide, Disopiramide) La depressione miocardica indotta dagli antiaritmici di classe I dipende dall’importanza del rallentamento della conduzione ventricolare e dalla durata del blocco dei canali del sodio in rapporto al ciclo cardiaco. Tale blocco è responsabile di una diminuzione della liberazione di calcio necessario alla contrazione dal reticolo sarcoplasmatico. A questa depressione partecipa pure l’alterazione dell’attività energetica del cuore. L’effetto inotropo negativo è variabile in funzione del farmaco utilizzato e del tipo di risposta del sistema nervoso autonomo. Tuttavia il rischio di provocare o aggravare un’insufficienza cardiaca è stato stimato intorno al 5% per i malati trattati con flecainide, ma questa insufficienza interviene in maniera del tutto imprevedibile. Classe Ib (Lidocaina, Fenitoina, Mexiletina) Le manifestazioni in overdose lievi sono essenzialmente di tipo neurologico: confusione, tinnito, parestesie periorali, vertigini, disartria, sonnolenza; in intossicazioni severe si verifica coma e depressione respiratoria. La cardiotossicità è simile a quella dei farmaci della classe Ia, con bradicardia severa, arresto sinusale, blocco atrioventricolare, tachiaritmie e slargamento del QRS. Classe Ic (Flecainide, Propafenone) Gli antiaritmici di questa classe esercitano proprietà di tipo anestetico locale che deprimono la contrattilità miocardia. I primi segni di tossicità si manifestano secondo un’attività pro-aritmica che conduce a fibrillazione ventricolare. Disturbi visivi come visione offuscata, fotofobia sono effetti indesiderati anche a dosi terapeutiche. Il trattamento è supportivo: sostegno delle funzioni vitali, decontaminazione gastroenterica, somministrazione di bicarbonato di sodio per la correzione dell’acidosi metabolica. Classe II Beta-bloccanti (vedi capitolo 8) Classe III (Amiodarone, bretilio) Questi antiaritmici agiscono prolungando il potenziale d’azione e la fase 3 della depolarizzazione della cellula cardiaca. Riducono l’automatismo e la velocità di conduzione: ne risulta un prolungamento del potenziale d’azione e del periodo refrattario. Essi inibiscono in maniera non competitiva l’attività alfa e beta adrenergica. Overdose di 2.5-8g in adulti hanno provocato bradicardia e prolungamento dell’intervallo QT. L’ipotensione è l’effetto cardiaco più comune dopo infusione rapida. L’uso cronica può determinare torsioni di punta, blocco AV e aritmie asintomatiche. Classe IV Calcio antagonisti (vedi capitolo 9) Classe V Digossina (vedi capitolo 8) 7. Calcio antagonisti I calcio antagonisti comprendono 3 gruppi di molecole classificate secondo un ordine decrescente di specificità (tab.1). Tutti hanno la capacità di bloccare l'ingresso di calcio nelle cellule, inibendo i canali membranari la cui apertura dipende da una variazione di potenziale. Questi canali lenti del calcio lasciano entrare il calcio durante la fase 2 del potenziale d'azione delle cellule a risposta rapida e durante la fase 0 della cellule a risposta lenta (nodo atrioventricolare, nodo del seno) (29). Una piccola quantità di calcio-ioni che attraversano la membrana induce un cospicuo rilascio di calcio dal reticolo sarcoplasmatico (rilascio di calcio-indotto). Questi farmaci hanno pertanto un'azione farmacologica predominante in tessuti in cui il calcio gioca un ruolo primario nella regolazione dell'accoppiamento eccitazione-contrazione: muscolo cardiaco, fibre muscolari lisce (29). Essi hanno, di contro, scarsi effetti sul muscolo scheletrico benché il sistema a T sia ben ricco di canali del calcio. Infatti, essendo l'azione dei calcio-antagonisti potenziale dipendente, il potenziale di riposo del muscolo scheletrico è sempre più iperpolarizzato di quelli del muscolo liscio e cardiaco e di conseguenza, mette il muscolo scheletrico in posizione sfavorevole. I calcio-antagonisti sono considerati dei vasodilatatori prevalentemente arteriosi periferici e coronarici. Scarsi effetti si osservano nei territori venosi di capacitanza. L'ipotensione arteriosa indotta dalla Nifedipina e Nicardipina determina un aumento della frequenza cardiaca attraverso il baroriflesso simpatico b-adrenergico. La Nimodipina è attualmente il calcio-antagonista meno cardiodepressivo in commercio. Nell'uomo l'attività spontanea del nodo del seno può essere soppressa dalla somministrazione endovenosa di Verapamil. Esistono 3 tipi di calcio antagonisti in commercio: fenil-alchilamine (esempio verapamil), benzodiazepine (diltiazem) e i derivati della diidropiridina (nifedipina, felodipina, nimodipina e amlodipina). La tossicità dei Ca-antagonisti è dovuta alla combinazione di vasodilatazione, depressione miocardica ed alterazioni della conduzione elettrica cardiaca (30). Altri segni di tossicità extracardiaca includono acidosi lattica, convulsioni, edema polmonare non cardiogeno: sono meno frequenti ma indicano una cattiva prognosi. La risposta individuale al sovradosaggio da Ca-antagonisti è molto variabile, in relazione alla presenza di altri farmaci o di malattie pregresse. Il margine terapeutico di questi farmaci è ristretto: dosi 2-3 volte le normali possono provocare intossicazioni gravi. Il meccanismo dell'effetto tossico è il blocco dell'apertura dei canali del calcio voltaggio-dipendenti. La vasodilatazione (inibizione della contrazione della muscolatura vasale) ed il blocco della conduzione (soprattutto nel nodo SA e AV dove non vi sono canali del Na) è totalmente dipendente dal flusso degli ioni Ca.  L'assorbimento dei Ca-antagonisti è rapido (1-2 ore) in caso d'ingestione; possiedono un significativo effetto primo passaggio epatico, anche se la biodisponibilità del farmaco può aumentare nelle overdose. Il volume di distribuzione è elevato e sono metabolizzati dal fegato. L'emivita a dosaggi terapeutici di verapamil e diltiazem è breve (3-7 ore), mentre per i nuovi Ca-antagonisti non vi sono dati farmacocinetici; in ogni caso non esistono dati sull'emivita nelle intossicazioni. I dati di farmacocinetica variano con i preparati a lento rilascio: onset ritardato con tossicità anche dopo 24 ore dall'assunzione del farmaco. La felodipina in particolare è un derivato della diidropiridina ed agisce inibendo l'ingresso del calcio attraverso i canali voltaggio-dipendenti di tipo 2 della fibra liscia vascolare, provocando una riduzione delle resistenze periferiche. La felodipina ha scarsi o nulli effetti sui canali del calcio miocardici da cui deriva una minore attività depressiva cardiaca. Le manifestazioni cliniche dell'intossicazione acuta da farmaci Ca-antagonisti sono: Manifestazioni cliniche Cardiache ipotensione  bradicardia sinusale -> blocco AV di 1 grado -> bradicardia giunzionale -> ritmo idioventricolare->asistolia Gastrointestinali nausea, vomito SNC possibili convulsioni La gravità dell'intossicazione e quindi la prognosi va messa in relazione al grado di blocco della conduzione cardiaca. In sua assenza l'ipotensione da sola risponde bene al riempimento con soluzioni cristalloidi e/o colloidi. Oltre al blocco cardiaco altri fattori depongono per una prognosi sfavorevole: 1 malattie cardiache concomitanti 2 presentazione tardiva/decontaminazione gastroenterica inefficace 3 coingestione o uso di beta-bloccanti o digitale 4 età avanzata Il trattamento delle intossicazioni da Ca-antagonisti prevede misure generali e specifiche: Misure di supporto incannulamento vascolare e riempimento con soluzioni cristalloidi/colloidi fino al ripristino della pressione arteriosa monitoraggio ECG Decontaminazione del tratto GE Lavaggio gastrico Carbone attivato (bolo + dosi ripetute) Lavaggio-irrigazione del tubo digerente Misure specifiche Calcio cloruro o gluconato (1g bolo + 1g ogni 5 min.; possibile infusione continua) Glucagone Atropina Pace-maker temporaneo     8. Digitalici La digitale è un farmaco utilizzato da secoli nella pratica clinica per il trattamento dello scompenso cardiaco congestizio e delle tachiaritmie sopraventricolari. I suoi effetti tossici, cardiaci, neurologici, gastroenterici, sono altrettanto noti (33). La digitale viene considerata il farmaco con indice terapeutico/tossico più basso tra quelli comunemente impiegati. Le due forme più utilizzate sono la digossina e la digitossina. Effetti clinici della digitale: Diretti Indiretti azione inotropa positiva aumento tono vagale azione dromotropa negativa sul nodo AV aumento sensibilità del nodo SA all'Acetilcolina > del periodo refrattario nodo AV < tono simpatico inibizione generazione impulso nodo SA   > eccitabilità, automatismo tessuto miocardico   Una volta ingerita, l'assorbimento della digossina avviene per il 60-85%, raggiunge il suo picco ematico dopo 1-1.5 ora e possiede un'emivita (a dosi terapeutiche) di circa 36 ore. La digitale possiede un elevato volume di distribuzione (5.6 l/Kg). Viene scarsamente metabolizzata ed escreta per via renale. Il range terapeutico è 0.5-2 ng/ml. La digitossina possiede un assorbimento pressoché completo, ha un onset lungo (30-120 min.) ed un'emivita di 5-7 giorni. Viene metabolizzata a livello epatico (in metaboliti inattivi) ed eliminata a lungo (fino a 3 sett.) dal rene. A livelli tossici la digitale determina un incremento dell'automatismo di tutte le cellule cardiache ed un rallentamento della propagazione di tali impulsi, con la comparsa di turbe del ritmo di ogni tipo, caratteristiche della tossicità cardiaca della digitale. L'intossicazione digitalica può essere acuta o cronica: in quest'ultimo caso si presenta in modo insidioso, spesso conseguente all''accumulo cronico della sostanza in soggetti in trattamento prolungato e con alterazioni delle capacità metabolico/escretorie. Si tratta in questi casi di pazienti cardiopatici, spesso anziani, con gradi medio-elevati d'insufficienza renale. La diagnosi di un'intossicazione digitalica può essere difficile per l'aspecificità dei segni e sintomi clinici (fatica, debolezza, nausea e anoressia) e per l'assenza di segni ECG caratteristici. La determinazione del tasso plasmatico della digossina ha permesso di ottimizzare la terapia digitalica e di ridurre i quadri d'intossicazione, ma la coesistenza di altre patologie rende variabile la correlazione tra tossicità e livello sierico della digossina. I fattori che alterano il margine di sicurezza tra dose terapeutica e dose tossica sono riassunti in tabella (34): allergia/ipersensibilità alla digitale fattori fisiologici che modificano la tolleranza alla digitale fattori che modificano la quantità di digitale nell'organismo fattori nervosi e metabolici che modificano la tolleranza modificaz. tolleranza per lo stato del tessuto miocardico modificaz. tolleranza per malattie di altri organi Malattie cardiache, insufficienza renale, ipokaliemia e ipotiroidismo sono le condizioni che contribuiscono ad accresce la tossicità della digitale. L'esatto ruolo di altre patologie (malattie epatiche, BPCO, disturbi acido-base) non è ancora ben chiaro (36, 37). La purificazione e la frammentazione degli anticorpi specifici per la digitale (Fab) ha condotto ad un netto miglioramento della prognosi dell'intossicazione digitalica. Il meccanismo d'azione dei Fab è il seguente: legame alla digossina libera subito dopo l'iniezione endovenosa diffusione nello spazio interstiziale e legame alla digossina libera creazione di un gradiente di concentrazione che richiama digossina intracellulare libera e digossina disaccoppiata dai recettori di membrana nell'interstizio e nel settore vascolare aumento considerevole della concentrazione dei complessi digossina-Fab eliminazione renale dei complessi digossina-Fab Le indicazioni all'uso dei Fab variano a seconda che si tratti di un'intossicazione acuta in un cuore normale o che si tratti piuttosto di un'intossicazione cronica in una malattia cardiaca. Intossicazioni acute in adulto sano Intossicazioni croniche con cardiopatia Blocco AV di grado elevato Blocco AV di grado elevato Fibrillazione/tachicardia ventricolare Fibrillazione/tachicardia ventricolare Tachicardia atriale parossistica con blocco Ritmo giunzionale Bradicardia sinusale grave Bradicardia sinusale grave/arresto Elevati dosaggi sierici di digossina Moderati dosaggi sierici IperK Ipok (funz. renale normale) Ingestione orale > 6mg IperK (insuff. renale) La dose di Fab da somministrare dipende daIla modalità dell'intossicazione (acuta o cronica) e dalla conoscenza o meno della quota di digossina ingerita. Il dosaggio dei Fab, pertanto, può essere calcolato moltiplicando la quota totale ingerita di digossina per un fattore di biodisponibilità dell'80% (mg X 0.8), o se non si conosce la dose ingerita ma è nota la digossinemia: dose in numero di fiale di Digibind (40 mg) = conc. sierica digossina (ng/ml) x peso corporeo (Kg)/100 Un altro metodo empirico viene indicato in tabella: acuto adulti 10-15 fiale   bambini 10-15 fiale cronico adulti 2-3 fiale   bambini 1/4-1/2 fiala Il trattamento aspecifico, ovverosia il sostegno delle funzioni vitali, è in ogni caso prioritario: in caso di bradicardia estrema, l'iniezione di atropina a dosi ripetute, può essere efficace. L'iperkaliemia è un'emergenza medica e va trattata immediatamente con le misure abituali: glucosio+insulina e bicarbonato di Na, dal momento che l'elevazione del K è abitualmente dovuta alla fuoriuscita cellulare dello ione. L'ipokaliemia accresce la tossicità della digitale e va rapidamente corretta. La aritmie ventricolari possono essere trattate con lidocaina e fenitoina. Il posizionamento di un pace-maker temporaneo può essere preso in considerazione, ma in presenza di un miocardio irritabile potrebbe peggiorare la situazione. Se coesiste iperK, la sua efficacia è limitata (34). 9. Beta Bloccanti Gli effetti emodinamici dei B-bloccanti consistono essenzialmente in una diminuzione della frequenza cardiaca e dell’entrata di calcio nelle cellule per la riduzione del numero dei canali del calcio disponibili. Determinano un aumento delle resistenze vascolari sistemiche. Così essi modificano la capacità di adattamento del sistema cardiovascolare e possono precipitare una insufficienza cardiaca. Tuttavia con l’esmololo tale rischio è limitato dalla sua breve durata d’azione. Bradicardia ed ipotensione sono gli effetti più comuni dell’overdose di beta bloccanti. Altri effetti cardiovascolari possono comprendere blocchi atrioventricolari, ritardi della conduzione atrioventricolare, aritmie ventricolari, edema polmonare ed arresto cardiaco. La depressione del CNS è comune in pazienti con tossicità cardiovascolare significativa. Convulsioni si verificano più frequentemente con propanololo. Le complicazioni dell’ipotensione grave possono includere insufficienza renale acuta, insufficienza respiratoria ed edema polmonare non-cardiogeno. Dosi terapeutiche di beta bloccanti possono causare broncospasmo in pazienti suscettibili.(Charan & Lakshminarayan, 1980; Botet et al, 1986; Prince & Carliner, 1983; Nelson et al, 1986). Depressione respiratoria, apnea ed arresto respiratorio possono svilupparsi in pazienti con intossicazioni severe.(Mattingly, 1979; Shore et al,,1981; Peterson et al, 1984; Petti et al, 1990). Ipotensione può svilupparsi dopo dosi terapeutiche (Greenblatt & Koch-Weser, 1973; Abrams et al, 1985; Michelson et al, 1986; Allin et al, 1986). Ipotensione severa può determinarsi dopo overdose (Agura et al, 1986; Lane et al, 1987). La bradicardia è un effetto commune a dosi terapeutiche.In overdoses può svilupparsi bradicardia severa. Mentre gli effetti sul SNC a dosi terapeutiche sono più spesso associate ai beta bloccanti maggiormente lipo-solubili (propanololo, metoprololo), nelle overdose tutti gli agenti causano depressione significativa del SNC. Gli effetti vanno dalla sonnolenza e letargia all’ottundimento e coma. Una depressione severa del SNC si sviluppa generalmente in pazienti con instabilità emodinamica. Effetti riportati a dosi terapeutiche includono sedazione, fatica, e riduzione della performance psicomotoria (McMahon et al, 1979; Greenblatt & Koch-Weber, 1973; Gengo et al, 1987; Allin et al, 1986). Con overdose di alprenololo, metoprololo e oxprenololo e dopo uso terapeutico di esmololo, sono state riportate occasionalmente convulsioni. Le convulsioni sono più comuni dopo overdose di propanololo. A dosi terapeutiche I beta bloccanti possono causare depressione, confusione, allucinazioni, agitazione, delusioni e paranoia. (Dhore et al, 1987; Petrie et al, 1982; White & Riotte, 1982; Sklar & Huck, 1983; Hinshelwood, 1969). Gli effetti tossici dei farmaci beta-bloccanti derivano da un duplice effetto (mediato dai recettori beta): uno sull'inotropismo cardiaco ed un altro sulla conduzione elettrica. Ipotensione e bradicardia sono infatti gli effetti clinici più evidenti dell'intossicazione da farmaci beta-bloccanti. Altri segni sono blocchi atrioventricolari, ritardi di conduzione intraventricolari, aritmie, edema polmonare ed arresto cardiaco. Alcuni beta-bloccanti possiedono effetti significativi sui canali ionici voltaggio-dipendenti (Na, Ca, K) responsabili di aritmie e depressione miocardica diretta.  La lipofilia di alcune molecole è responsabile degli effetti dei beta-bloccanti sul SNC: coma e convulsioni sono citati soprattutto nelle overdose di propanololo. Aumento delle resistenze polmonari, cianosi e depressione respiratoria fino all'arresto rappresentano i segni respiratori delle intossicazioni; possono comparire anche nausea e vomito. L'onset dei sintomi è di solito 1-2 ore ma può essere più precoce (20 minuti) o rallentato nei preparati a lento rilascio.  Il range di tossicità acuta da propanololo non è noto: le dosi assunte da adulti a scopo suicida vanno secondo la letteratura da 0.8 a 6 g. L'emivita dei beta-bloccanti a dosi terapeutiche è inferiore a 12 ore (circa 4 ore per il propanololo), ma non esistono dati di cinetica nell'overdose. A dispetto della riduzione del livello plasmatico del farmaco, gli effetti dei beta-bloccanti nelle intossicazioni massive possono persistere per giorni. Il metabolismo è essenzialmente epatico.  I fattori che aumentano la gravità delle intossicazioni sono: Ingestione di propanololo malattie cardiache concomitanti presentazione tardiva/decontaminazione gastroenterica inefficace coingestione/trattamento con digossina e Ca-antagonisti età avanzata Il trattamento delle intossicazioni da beta-bloccanti è essenzialmente di supporto.  Sintomatico Monitoraggio ECG cristalloidi/colloidi Decontaminazione gastroenterica Gastrolusi Carbone attivato Misure specifiche Atropina: 0.5-1 mg ogni 5 min. Dose massima 0.04 mg/kg Glucagone: aumento di AMP ciclico, attivazione di miosina-chinasi indipendente dai recettori beta. Dosi bolo: 5-10 mg - inf. cont. 1-5 mg/h Isoprenalina pace-maker    10. Antipertensivi I farmaci antipertensivi comprendono diverse classi eterogenee di sostanze tra le quali alcune a maggiore tossicità (es. reserpina, guanetidina) oggi raramente utilizzate nella pratica clinica e altre a bassa tossicità (ACE-inibitori, diuretici) che raramente danno origine a quadri d’intossicazione, se non per esagerazione degli effetti farmacologici. Nitroprussiato Determina vasodilatazione periferica per azione diretta sulla muscolatura liscia venosa ed arteriosa, riducendo le resistenze periferiche; aumenta la gittata cardiaca riducendo il post-carico; riduce l’impedenza aortica e del ventricolo sinistro. L’emivita del farmaco è di circa 10 minuti; quella del tiocianato 2.7-7 giorni (9 giorni nei pazienti con insufficienza renale) L’ovedose si manifesta con ipotensione, vomito, confusione, agitazione, cefalea, iperventilazione, bradicardia, mioclonie, acidosi metabolica e metaemoglobinemia. Il nitroprussiato e convertito a cianuro dagli eritrociti e dall’interazione con i gruppi sulfidrilici tissutali; il cianuro è trasformato a livello renale in tiocianato dalla rodanasi. Il tiocianato a sua volta determina tossicità che si manifesta con psicosi, delirio, tremori, ipereflessia, astenia, tinniti e coma. La tossicità da cianuro non si verifica abitualmente per la rapida captazione del cianuro negli eritrociti e la sua eventuale captazione nella cianocobalamina. Una prolungata somministrazione di nitroprussiato o una ridotta eliminazione, tuttavia, può portare all’intossicazione da cianuro. In questi casi, il controllo delle vie aeree con somministrazione di ossigeno è fondamentale, seguito immediatamente dalla terapia antidotica con amile nitrito, sodio nitrito 300 mg I.V. (10 mg/kg nei bambini) e sodio tiosolfato 12.5 g I.V. (1.5 mL/kg nei bambini). Bicarbonato di sodio (1 mEq/kg) per il trattamento dell’acidosi; idrossicobalamina o cobalto EDTA (Kelocyanor®) possono anche essere efficaci contro la tossicità da cianuro. Quest’ultima può essere prevenuta dalla somministrazione contemporanea di idrossicobalamina (2.4 g o 80 fiale di idrossicobalamina per 100 mg di nitroprussiato) o più praticamente con la co-somministrazione di sodio tiosolfato (1 g di sodio tiosolfato per ogni 100 mg di nitroprussiato). Il Propranololo può bloccare l’effetto ipertensivo rebound alla sospensione del nitroprussiato. L’aumento dell’eliminazione del farmaco può essere ottenuta con l’emodialisi quando aggiunta alla terapia antidotica.   Bibliografia Pagel PS, Warltier DC: Anesthetics and left ventricular function. In: Warltier DC (ed): Ventricular Function. Baltimore, Williams and Wilkins, 1995, pp 213-52. Goldberg AH, Ullrick WC: Effects of halothane on isometric contractions of isolated heart muscle. Anesthesiology 28:838, 1967. 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La guida per gli autori può essere consultata collegandosi al sito ANESTIT all'indirizzo: http://anestit.unipa.it/ utilizzando la sezione riservata ad ESIA-Italia; oppure può essere richiesta inviando un messaggio a lanza@unipa.it EDUCATIONAL SYNOPSES IN ANESTHESIOLOGY and CRITICAL CARE MEDICINE Sezione Italiana Il numero della rivista è anche ottenibile attraverso World-WideWeb WWW: l'URL per questo numero di ESIA è: http://anestit.unipa.it/esiait/esit200408.txt Il nome della rivista è esitaaaamm, dove aaaa è l'anno ed mm il mese (per esempio questo numero è esit200408.txt) LA REDAZIONE DI ESIA ITALIA DIRETTORE: Vincenzo LANZA Primario del Servizio d'Anestesia e Rianimazione Ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli Palermo LANZA@UNIPA.IT Terapia Intensiva Antonio Braschi Primario del Servizio d'Anestesia e Rianimazione 1 - Policlinico S. Matteo - IRCCS Pavia Anestesia Cardiovascolare Riccardo Campodonico Responsabile dell'Unità di Terapia Intensiva Cardiochirurgica - Azienda Ospedaliera di Parma ricrob@mbox.vol.it Anestesia e malattie epatiche Andrea De Gasperi Gruppo trapianti epatici / CCM - Ospedale Niguarda - Milano Medicina critica e dell'emergenza Antonio Gullo Professore di Terapia Intensiva - Direttore del Dipartimento di Anestesia e Terapia Intensiva -Università di Trieste Anestesia ed informatica Vincenzo Lanza Primario del Servizio d'Anestesia e Rianimazione - Ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli - Palermo Tossicologia Carlo Locatelli Direttore del Centro di Informazione Tossicologica Centro antiveleni di Pavia - Fondazione Scientifica "Salvatore Maugeri Clinica del Lavoro e della Riabilitazione"- Pavia Terapia Antalgica e Cure Palliative Sebastiano Mercadante Responsabile dell' Unità d'Anestesia e di Terapia del Dolore e Cure Palliative - Dipartimento Oncologico La Maddalena - Palermo terapiadeldolore@la-maddalena.it