__________________________________________________________________ __________________________________________________________________ ISSN 1080-3521 EDUCATIONAL SYNOPSES IN ANESTHESIOLOGY and CRITICAL CARE MEDICINE - Italia - Il giornale italiano on line di anestesia Vol 8 No 06 Giugno 2003 __________________________________________________________________ __________________________________________________________________ Pubblicato elettronicamente da: Vincenzo Lanza, MD Servizio di Anestesia e Rianimazione Ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli Palermo, Italy E-mail: (lanza@mbox.unipa.it) Keith J Ruskin, MD Department of Anesthesiology Yale University School of Medicine 333 Cedar Street, New Haven, CT 06520 USA Office: 203-785-2802 E-mail: ruskin@gasnet.med.yale.edu Copyright (C) 1996 Educational Synopses in Anesthesiology and Critical Care Medicine. All rights reserved. Questo rivista on-line può essere copiata e distribuita liberamente, curando che venga distribuita integralmente, e che siano riportati fedelmente tutti gli autori ed il comitato editoriale. Informazioni sulla rivista sono riportate alla fine. __________________________ In questo numero: ATTI CONGRESSUALI ONLINE XVII Congresso Nazionale della Società Italiana di Terapia Intensiva S.I.T.I dal corso "Tossicologia Clinica" 1 Gli Antagonisti degli Oppioidi 2 Gli Antagonisti delle Benzodiazepine _______________________________________________________ ATTI CONGRESSUALI ONLINE XVII Congresso Nazionale della Società Italiana di Terapia Intensiva S.I.T.I. La redazione di Esia-Italia dedica alcuni suoi numeri alla presentazione online di una selezione degli atti del XVII Congresso Nazionale SITI (Società Italiana di Terapia Intensiva), tenutosi nel Settembre 2003 a Palermo. Attraverso ESIA, i presidenti, il comitato organizzatore e il comitato scientifico del congresso SITI hanno deciso di offrire il materiale scientifico congressuale per la libera consultazione online, certi di incontrare il bisogno di formazione e di aggiornamento dei lettori: anestesisti-rianimatori, infermieri, chirurghi e altri addetti ai lavori dell'area critica. La selezione degli articoli spazia tra le diverse aree di interesse, valorizzando le competenze mediche e infermieristiche delle tematiche trattate, a sottolineare che solo una crescita culturale di tutto il gruppo di lavoro può garantire i migliori risultati di cura sui pazienti critici. Pertanto Esia-Italia, perseguendo le proprie finalità costitutive di strumento elettronico di formazione scientifica e tecnica, si offre come canale di pubblicazione dei lavori congressuali; in ogni caso la redazione di Esia-Italia non si riterrà responsabile di errori o di omissioni ravvisabili nei testi prodotti nè dell'eventuale impropria utilizzazione delle tecniche descritte.  _______________________________________________________ Gli antagonisti degli Oppiodi _______________________________________________________ GLI ANTAGONISTI DEGLI OPPIOIDI Carlo Locatelli, Valeria Petrolini, Raffaella Butera, Cristiano Gandini, Luigi Manzo* Servizio di Tossicologia, Centro Nazionale di Informazione Tossicologica e Centro Antiveleni di Pavia, I.R.C.C.S. Fondazione Salvatore Maugeri Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, Pavia, e *Dipartimento di Medicina Interna e Terapia Medica, Sezione Medicina Interna e Tossicologia Clinica, Università di Pavia  INTRODUZIONE Gli agonisti oppioidi (peptidi naturali o composti di sintesi con azione morfino-simile) svolgono il ruolo di modulatori nella trasmissione dell’informazione tra gli elementi del sistema nervoso. Essi vengono ampiamente utilizzati nella pratica anestesiologica e medica, principalmente per le ben note proprietà analgesiche e sedative. Gli agonisti oppioidi determinano i caratteristici effetti farmaco-tossicologici per (a) interazione con specifici recettori, presenti nel sistema nervoso e in altri organi e apparati, mimando l’azione di una serie di peptidi endogeni, e per (b) attivazione dei sistemi endogeni di modulazione della percezione dolorifica. A fronte di un meccanismo d'azione comune, esistono notevoli differenze fra i vari agonisti per ciò che riguarda la diffusione tessutale, la potenza relativa, l'affinità per i vari tipi di recettori e la durata d'azione. L'uso di tali farmaci è tuttavia gravato da importanti effetti collaterali quali la depressione respiratoria, la tolleranza e la dipendenza fisica e psichica. Alcuni farmaci oppioidi e un derivato illegale della morfina (eroina), inoltre, vengono utilizzati anche a scopo voluttuario: la patologia che ne può conseguire è estremamente varia, ma l'aspetto di maggior interesse per le caratteristiche d'urgenza è rappresentato dalla sindrome nota come overdose. Gli antagonisti degli oppioidi utilizzati nella pratica clinica agiscono sugli stessi recettori degli agonisti, principalmente impedendo o bloccando l’azione di questi ultimi (antagonismo competitivo).   I recettori per gli oppioidi L'esistenza di specifici siti recettoriali per gli oppioidi è stata proposta numerosi anni fa, ma la loro identificazione e caratterizzazione biochimica e farmacologica è iniziata solo a partire dagli anni '70. Si definisce recettore oppioide un recettore cui il naloxone si lega stereospecificamente e con alta affinità [1]. Negli ultimi venti anni sono stati identificati numerosi tipi e sottotipi di recettori per gli oppioidi (Tabella 1), diversamente rappresentati nei vari tessuti e in grado di mediare effetti differenti. Nel sistema nervoso centrale (SNC) sono presenti tre principali tipi di recettori per gli oppioidi (recettori m, d e k), di ognuno dei quali sembrano esistere due sottopopolazioni [1]. In particolare, i recettori m si suddividono a loro volta in due sottotipi, denominati m1 e m2, che presentano una diversa affinità per gli agonisti e mediano effetti diversi [2, 3, 4, 5]. Da un punto di vista evolutivo i recettori m1 sono apparsi a uno stadio dello sviluppo più recente rispetto ai recettori m2, d e k: la loro densità varia anche filogeneticamente, essendone state riscontrate concentrazioni più elevate nelle specie viventi più evolute. Altre classi di recettori non sono ancora state chiaramente caratterizzate (es. recettori e) [6]; sulla base di evidenze sperimentali, invece, i recettori s non vengono più considerati recettori oppioidi a tutti gli effetti [7]. Allo stato attuale delle conoscenze, non è inoltre sufficientemente chiarito se le tre principali classi di recettori (m, d e k) siano indipendenti e prive di reciproche interazioni, oppure se esistano interazioni allosteriche tra differenti recettori. In Tabella 1 sono riportate, in modo schematico e alla luce delle attuali conoscenze, le azioni mediate dalle diverse classi di recettori oppioidi. L'analgesia indotta dagli oppioidi, ad esempio, è mediata da complesse interazioni tra gli effetti modulati dai recettori m, d e k. A livello sopraspinale i recettori m sembrano i più importanti nell'esplicare questa azione, mentre i k sembrano più coinvolti a livello spinale; il ruolo dei recettori d è invece ancora controverso [1]. La caratterizzazione delle funzioni e delle proprietà delle singole classi di recettori oppioidi, tuttavia, è notevolmente complicata dal fatto che i differenti tipi di recettori e sottopopolazioni recettoriali possono coesistere nello stesso tessuto e persino su una stessa cellula, e dal fatto che sia i peptidi oppioidi endogeni sinora identificati che i composti di sintesi non sembrano avere una specificità farmacologica assoluta per una precisa classe di recettori. I farmaci oppioidi interagiscono con un numero variabile di tutti e tre i tipi di recettore, su ognuno dei quali possono avere effetto agonista, agonista parziale o antagonista (Tabella 2) [1]. Il profilo delle interazioni dei farmaci oppioidi con i recettori nell’uomo viene dedotto sia dall’osservazione clinica che dall’estrapolazione delle proprietà farmacologiche rilevate negli studi sperimentali. Attraverso studi di tipo radiorecettoriale è stato possibile caratterizzare la capacità di legame di singole sostanze con una o più classi specifiche di recettori (Tabella 3) [7, 8, 9, 10]. In particolare si è osservato che la morfina è dotata di una notevole affinità per i recettori m mentre meno specifici, ma comunque dotati di affinità maggiore per i m, sono il metadone e la meperidina. Le encefaline e le dinorfine, invece, si legano in maniera prevalente rispettivamente ai recettori d e k [2, 11, 12, 13, 14]. Fra gli agonisti non peptidici, l’etorfina è il prototipo di ligando generale dei recettori oppioidi dato che possiede un’alta affinità per tutti e tre i tipi di recettori. Tra gli agonisti parziali, la buprenorfina è dotata di affinità simile per i tre tipi di recettori, mentre nalorfina e pentazocina hanno maggiore affinità per i recettori m rispetto ai k e ai d [8]. Tra gli antagonisti puri, il naloxone e il naltrexone interagiscono con tutti e tre i tipi di recettore, ma hanno affinità circa 10 volte superiore per i m rispetto ai k e ai d. Le differenti affinità degli agonisti e antagonisti per i vari tipi di recettori possono spiegare la variabilità degli effetti farmacologici riscontrabili nella pratica clinica utilizzando alte o basse dosi di uno stesso farmaco [1]. Lo sviluppo di altri antagonisti reversibili e selettivi per ogni singolo tipo di recettore, utili nella pratica clinica, è oggi a uno stadio meno avanzato di quello degli agonisti e degli antagonisti irreversibili (sostanze in grado di alchilare il sito di riconoscimento del recettore oppioide) utilizzabili nella ricerca sperimentale.   Gli antagonisti degli oppioidi nella pratica clinica Numerose sostanze esercitano effetto antagonista sui recettori oppioidi. Fra queste, sono oggi utilizzate nella pratica clinica tre molecole che agiscono con meccanismo competitivo e che determinano un effetto antagonista puro: il naloxone, il naltrexone e il nalmefene, non ancora in commercio in Italia. In normali condizioni questi farmaci hanno effetti scarsi o nulli se non sono stati precedentemente somministrati degli agonisti [1]. Quando invece il sistema degli oppioidi endogeni è abnormemente attivato, come nello shock o in alcune forme di stress, la somministrazione di un antagonista oppioide può determinare la comparsa di effetti. Questi farmaci trovano il loro massimo utilizzo nel trattamento dell'overdose da oppioidi, nel trattamento della tossicodipendenza e, in campo anestesiologico e rianimatorio, per l’antagonismo della sedazione e depressione respiratoria indotta da oppioidi. Le crescenti evidenze e ipotesi sul ruolo dell’aumentato tono del sistema dei peptidi oppioidi endogeni in numerosi stati patologici, inoltre, ha portato in tempi recenti alla sperimentazione di questi farmaci in altre patologie. Vengono trattati in questo capitolo gli antagonisti puri attualmente disponibili per uso clinico. Non vengono trattati, invece, i farmaci ad azione mista agonista-antagonista (es. nalorfina, pentazocina, buprenorfina), gli antagonisti non competitivi e gli antagonisti selettivi per singoli recettori (es. cypridime, m-selettivo; naltrindolo, d-selettivo; nor-binaltorphimina, k-selettivo) o per sottopopolazioni recettoriali (es. naloxonazina, m1-selettivo) utilizzati nella ricerca di base ma non utilizzabili in campo clinico in quanto irreversibili o con effetti non ancora noti sull’uomo [1, 15, 16].     NALOXONE Il naloxone, N-allil-derivato dell’ossimorfone, è un antagonista puro che, pur con affinità diversa, si lega a tutti i recettori oppioidi (Tabella 2) [17]. Il suo peso molecolare è di 327,37 daltons, è solubile in acqua sotto forma di cloridrato ed è altamente liposolibile, con un coefficiente di partizione ottanolo/acqua più elevato di quello della morfina [18]. Il naloxone viene commercializzato in Italia sotto forma di cloridrato in fiale da 0,4 mg in 1 mL (Narcan®, Crinos) e in fiale da 0,04 mg in 2 mL (Narcan Neonatal®, Crinos). Esso può essere diluito in soluzione glucosata al 5% o di cloruro di sodio allo 0,9% fino a concentrazioni di 4 mg/L (diluizione 1:100); la soluzione è stabile per un range di pH compreso tra 2,5 e 5. Tale preparazione può essere conservata per 24 ore se protetta dalla luce [19, 20]. Nella preparazione delle soluzioni, il naloxone non deve essere miscelato con soluzioni alcaline, bisolfito, metabisolfito, anioni ad elevato peso molecolare o a lunga catena [20]. Farmacocinetica Il naloxone, molto liposolubile, attraversa rapidamente la barriera ematoencefalica, e mostra una farmacocinetica di tipo bicompartimentale. I parametri cinetici non differiscono nei bambini e negli adulti, mentre si osservano differenze nei neonati, prevalentemente per immaturità dei processi metabolici. Il farmaco può essere somministrato sia per os che per via parenterale. Benché assorbito rapidamente attraverso il tratto gastroenterico, la biodisponibilità risulta scarsa a causa della rapida e pressoché completa inattivazione metabolica al primo passaggio epatico [21]; ciò determina la necessità di somministrare dosi molto più elevate per raggiungere gli stessi effetti ottenibili per via parenterale con dosi molto più basse [22]. Il volume di distribuzione è di 2,9-3,5 L/Kg, pari a circa 200 litri negli adulti [21] e di 1,8-3,5 L/Kg nei neonati e nei bambini prematuri [23, 24]. La percentuale di legame con le proteine plasmatiche è del 54% circa [25]. La comparsa dell’effetto si ha a 2-3 minuti dalla somministrazione endovenosa [20] e dopo circa 15 minuti dalla somministrazione per via intramuscolare o sottocutanea [26]. Per somministrazione parenterale, la durata dell'effetto è in genere di circa 45 minuti, con un massimo di 3-4 ore in alcuni casi [27, 28]. Negli adulti l'emivita di distribuzione è in media di 4,7 minuti [29], mentre quella di eliminazione è di 30-100 minuti [21] con un valore medio di 65 minuti [29]. Nei neonati, invece, l’immaturità dei sistemi metabolici di glucuronazione e N-dealchilazione è responsabile di un prolungamento dell’emivita del farmaco fino a 2,5-3,5 ore [20, 23, 30]. Nei prematuri è stata osservata un'emivita media di 70,5 minuti con una clearance sistemica di 39,13 mL/Kg/minuto [24]. Negli adulti la clearance sistemica è compresa tra 14 e 30 mL/Kg/minuto [21, 29]. Il naloxone viene rapidamente metabolizzato a livello epatico, prevalentemente per N-dealchilazione e glucuronoconiugazione [21, 31, 32]. I metaboliti urinari principali sono il naloxone-3-glucuronide, la N-allil-7,8-diidro-14-idrossinormorfina (naloxone ridotto), e il 7,8-diidro-14-idrossinormorfinone (naloxone dealchilato) [31]. Il 65% di una dose somministrata per via endovenosa viene escreta come metabolita coniugato con le urine in 48-72 ore [21, 31] e una dose di 1 g di naloxone per os viene quasi completamente metabolizzata nell'arco di 24 ore [1]. Non sono noti dati su possibili modificazioni della farmacocinetica del naloxone nell'insufficienza epatica. In caso di insufficienza renale non sono necessari aggiustamenti dei dosaggi [33]. È invece possibile una comparsa ritardata dell'effetto in pazienti ipotesi o con diminuita circolazione periferica, così come è possibile un ritardo di molte ore nell’eliminazione del farmaco in pazienti in shock settico [34].   Impiego clinico del naloxone in medicina d'urgenza e in anestesia Il farmaco è privo di attività intrinseca e quindi non causa effetti morfino-simili [35] o effetti collaterali se somministrato in assenza di agonisti: esso non produce depressione respiratoria anche per somministrazioni endovenose di 30 mg in soggetti sani [36, 37, 38]. Il naloxone è efficace nell'antagonizzare non solo la depressione respiratoria [39], l'analgesia e gli effetti euforici, ma anche la disforia, le allucinazioni e gli effetti delusionali caratteristici degli oppioidi di sintesi [40, 41]. Esso rappresenta oggi il trattamento farmacologico di scelta per tutte le overdose da oppioidi, specie se associate a depressione respiratoria, coma e/o convulsioni (Tabella 4). Oltre che per via endovenosa, il naloxone può essere somministrato per altre vie, specie quando si abbiano difficoltà nel reperire un accesso venoso adeguato [42, 43] come in caso di shock [44]. La via intramuscolare può risultare efficace se non è presente ipoperfusione [43]. Tuttavia, in caso di paziente ipoteso e di impossibilità di incannulare rapidamente una vena centrale, l'iniezione sottolinguale risulta la via preferenziale e salvavita [43]. Nel caso di somministrazione endotracheale si raggiungono livelli serici e una cinetica del farmaco sovrapponibili a quelle ottenibili per via endovenosa [45]. La somministrazione per via endonasale determina un assorbimento livemente più lento rispetto a quella endovenosa ma più rapido di quella intramuscolare [46, 47]. La somministrazione endonasale e quella sublinguale vengono utilizzate a scopo diagnostico, essendo in grado di scatenare una sindrome di astinenza (Tabella 5) in soggetti tossicodipendenti [47, 48], ma possono risultare utili anche in urgenza nel trattamento dell'overdose. Nella diagnosi di tossicodipendenza il naloxone viene utilizzato sia per somministrazione intramuscolare [49, 50, 51] che per instillazione congiuntivale: questa permette di distinguere il consumatore occasionale dal tossicodipendente, in quanto provoca midriasi solo in questi ultimi [52]. La mancanza di effetti del naloxone lo rende un farmaco di grande utilità nella diagnosi ex adjuvantibus di overdose pura o mista da oppiodi [53].   Intossicazione da oppioidi (overdose) Benché il trattamento antidotico non sostituisca le manovre rianimatorie indicate nel singolo caso e le manovre di decontaminazione del tratto gastroenterico nelle intossicazioni per ingestione, il naloxone rappresenta oggi il trattamento farmacologico di scelta per la terapia delle overdose da oppioidi. La somministrazione di dosi elevate (singole o ripetute) non causa effetti tossici, dato che il farmaco è privo di attività intrinseca. Singole dosi di 24 mg in volontari sani e in tossicodipendenti da eroina [38], oppure di 2,4-3 grammi/die per os nel trattamento della dipendenza da oppioidi [22, 54], infatti, non hanno determinato la comparsa di effetti tossici o avversi. Indipendentemente dalla via di somministrazione, il naloxone deve essere somministrato in dose sufficiente per ottenere una risposta clinica efficace che consiste nell'antagonismo completo sia del coma che della depressione cardiorespiratoria. La dose efficace di naloxone è funzione della quantità dell'oppioide coinvolto e della sua affinità recettoriale: nelle intossicazioni da propossifene, pentazocina e farmaci correlati sono necessarie dosi più elevate che non nelle overdose da morfina o eroina [35, 55]. Per il trattamento delle overdose da oppioidi è consigliabile utilizzare una dose bolo per via endovenosa di 0,4-2 mg seguita, se necessario, da successive somministrazioni di 2 mg ogni 2-3 minuti fino al miglioramento della funzionalità respiratoria oppure fino ad un massimo di 10 mg; la mancata risposta clinica dopo tale dose totale rende dubbia la diagnosi di overdose da oppioidi e dovrebbe far prendere in considerazione altre cause di malattia [20]. La breve emivita del naloxone, tuttavia, è causa di possibili rebound dei sintomi di overdose che si possono ripresentare in modo drammatico a distanza di 20-60 minuti dalla somministrazione dell'antagonista [56]. La durata dell'effetto del farmaco per somministrazione endovenosa non è dose-dipendente [28]: per ottenere un prolungamento dell'effetto nel tempo è possibile somministrare boli ripetuti a brevi intervalli di tempo, associare la somministrazione intramuscolare a quella del bolo per via endovenosa, oppure somministrare il naloxone per via endovenosa continua. Più precisamente: ·      la contemporanea somministrazione per via endovenosa e intramuscolare [28] consente di prolungare l'effetto del naloxone a circa 3 ore, e risulta particolarmente indicata per prevenire ricadute nei pazienti che non possono essere mantenuti sotto controllo in ambienti ad assistenza diretta e continua · nei casi di intossicazione grave con ricomparsa di insufficienza cerebrale e/o respiratoria dopo breve tempo dalla dose bolo efficace, occorre ripetere la somministrazione dell'antagonista a boli ogni 20-60 minuti. ·      la somministrazione per infusione endovenosa continua deve essere iniziata immediatamente dopo il bolo, a una dose/ora pari a 2/3 della dose bolo risultata efficace. Nella maggior parte dei casi sono necessarie dosi comprese fra 0,4 e 4 mg/ora [41]. Per prevenire una diminuzione dei livelli ematici di naloxone può essere opportuno somministrare una seconda dose bolo, pari a metà della prima, 15 minuti dopo l'inizio dell'infusione [57]. Questo trattamento può essere utilizzato in tutte le overdose, ma è particolarmente indicato nelle intossicazioni da oppioidi a lunga emivita (es. metadone) e nei casi di assorbimento prolungato (es. concrezioni di compresse nell'intestino, diminuzione della peristalsi, farmaci a rilascio prolungato e pacchetti intestinali nei body-packers) [41, 58]. Durante la somministrazione per via endovenosa continua si possono verificare effetti collaterali (es. sindrome d'astinenza) o situazioni di ipodosaggio che richiedono stretta osservazione del paziente e continui aggiustamenti dell'infusione (Figura 1). Dopo 10 ore di infusione, il trattamento deve essere interrotto per la valutazione della funzionalità respiratoria, che va effettuata un'ora dopo la sospensione del farmaco: nel caso di intossicazioni da farmaci a rilascio ritardato è in genere necessario proseguire l'infusione anche oltre la decima ora [43]. Nelle overdose da oppioidi in età pediatrica, la dose di naloxone da somministrare per via endovenosa o endotracheale è di 0,1 mg/Kg/dose nei neonati (anche prematuri) e nei bambini fino a 5 anni di età o a 20 Kg di peso, oppure di 2 mg/dose nei bambini con più di 5 anni o di peso superiore a 20 Kg [59]. Le dosi possono essere ripetute al bisogno per mantenere un adeguato effetto antagonista [60]. In caso di overdose da sostanze a lunga emivita è consigliabile utilizzare la somministrazione endovenosa continua alla dose di 0,01 mg/Kg/ora [61, 62, 63]. Tutti i pazienti che sono stati trattati con naloxone per contrastare l’insufficienza cerebrale e/o respiratoria, i casi di tentativo di suicidio da oppioidi e i bambini vittime di abuso devono essere ricoverati in ambiente ospedaliero [43]. Il naloxone antagonizza gli effetti acuti dell’overdose ma non ha effetti sulle patologie di accompagnamento che frequentemente sono riscontrabili nel paziente tossicodipendente, né tanto meno sulle possibili patologie che possono complicare l’episodio dell’overdose (es. rabdomiolisi, edema polmonare, polmoniti) [64, 65, 66].   Intossicazioni da oppioidi a lunga emivita o ad alta affinità recettoriale Nelle overdose da oppioidi a lunga emivita o ad alta affinità recettoriale quali metadone [67, 68, 69, 70], propossifene [71, 72, 73], codeina [62], pentazocina [74], buprenorfina [65], fentanyl e derivati [75], difenossilato [37, 76, 77], butorfanolo [65], destrometorfano [78] (Tabella 6), così come nelle intossicazioni molto gravi (es. body-packers), possono essere necessarie dosi di naloxone particolarmente elevate oppure l'infusione continua protratta nel tempo. Come dose bolo si somministrano, sia nei bambini che negli adulti, 2 mg di naloxone per via endovenosa seguiti, in caso di mancata risposta clinica, da ulteriori dosi di 2-4 mg fino alla dose totale di 10-20 mg [43]. Se l’overdose è causata da un oppioide a lunga emivita, la dose efficace deve essere risomministrata ogni 20-60 minuti [41] oppure seguita dall’infusione continua per alcuni giorni [61, 79]. Il naloxone ad alte dosi (5-10 mg o più) per via endovenosa è in grado di antagonizzare la depressione respiratoria indotta da buprenorfina, ma con una latenza maggiore che per gli altri oppioidi (3 ore): ciò è probabilmente dovuto all'elevata affinità recettoriale della buprenorfina [80].   Diagnostica differenziale delle cause di insufficienza cerebrale L’assenza di attività intrinseca e di effetti collaterali per somministrazione in pazienti che non abbiano assunto oppioidi, ad esclusione di una possibile miosi [81], rendono il farmaco estremamente utile nella diagnosi differenziale delle cause di insufficienza cerebrale, così come delle overdose miste da farmaci [38]. Per tale ragione alcuni protocolli prevedono la somministrazione routinaria di naloxone anche nel soccorso preospedaliero ove sia presente una condizione di depressione dello stato di coscienza, riportando un'efficacia del farmaco nel 7,4% dei pazienti trattati [82].   Sedazione e insufficienza respiratoria da oppioidi in anestesia e in analgesia Studi controllati hanno dimostrato che il naloxone è in grado di diminuire gli effetti collaterali indotti dalla morfina (es. prurito) [12, 83, 84, 85] così come di migliorare la performance respiratoria [12], ma al tempo stesso il farmaco ne antagonizza anche l'effetto analgesico [86]. Basandosi su studi animali, Hensel et al [2] hanno postulato che la depressione respiratoria sia mediata dall'interazione degli oppioidi con i recettori m2, per i quali hanno elevata affinità, mentre l'analgesia deriverebbe dall’interazione con i recettori k, per i quali gli oppioidi hanno minore affinità. A basse dosi, il naloxone è in grado di antagonizzare la depressione respiratoria e non l'analgesia. Tuttavia, quando utilizzato nell’immediato post-operatorio per ottenere un rapido risveglio e una soppressione della depressione respiratoria, il farmaco può causare anche una non desiderata soppressione dell'effetto analgesico se utilizzato a dosi troppo alte [87, 88]. Nella letteratura scientifica sono riportate differenti dosi e modalità di somministrazione con le quali è possibile ottenere il rapido risveglio e una buona funzionalità respiratoria con persistenza dell'effetto analgesico. La dose iniziale di 0,1-0,2 mg per via endovenosa può essere ripetuta a distanza di 2-3 minuti fino al raggiungimento di un adeguato grado di ventilazione e stato di vigilanza; in alcuni casi possono essere necessarie ulteriori somministrazioni a 1-2 ore di intervallo [20, 89]. La somministrazione troppo rapida può causare nausea, vomito, sudorazione o tachicardia, mentre dosi più elevate possono provocare scomparsa dell'effetto analgesico e aumento della pressione arteriosa. Poiché tali effetti sono stati riscontrati anche per dosi di 0,1 mg [90], per ottenere un buon antagonismo degli effetti depressivi degli oppioidi senza interrompere l'effetto analgesico sembra preferibile utilizzare dosi ancora inferiori (1 g/Kg oppure 0,05 mg come dose totale) [91, 92]. Il naloxone risulta efficace anche nell'antagonizzare la depressione circolatoria e respiratoria indotta da neuroleptoanalgesia con fentanyl (da solo o associato a droperidolo) [93, 94]. In letteratura vengono riportate sporadiche segnalazioni di singoli casi di gravi reazioni avverse associate all'utilizzo di naloxone per antagonizzare gli effetti degli oppioidi nel post-operatorio: edema polmonare acuto [95, 96, 97, 98, 99, 100], fibrillazione ventricolare [90], arresto cardiaco [101, 102], aumento della pressione arteriosa [103, 104, 105, 106], ipertensione grave associata a tachicardia parossistica [107], a battiti ectopici sopraventricolari [108] oppure a rottura di aneurisma cerebrale [91]. Questi effetti potrebbero essere correlabili a un rilascio sistemico di catecolamine [103, 109, 110] e all’iperattività simpatica risultante dalla brusca sospensione dell’analgesia e dal risveglio brutale indotti dal naloxone [111, 112]. L’arresto cardiaco, la tachicardia e la fibrillazione ventricolare si sono sviluppati in pazienti con malattie cardiache preesistenti e sottoposti a by-pass coronarico [102] e non sono stati riscontrati in studi su animali [90]. I pazienti più predisposti a sviluppare aumenti pressori risultano quelli con preesistente ipertensione e, tra questi, quelli in terapia con beta2-stimolanti: un rischio molto aumentato è possibile per i pazienti in trattamento con clonidina o metildopa [106]. Tali osservazioni sporadiche non supportano in modo inequivocabile un ruolo scatenante del naloxone [41], e contrastano con le evidenze di studi su larga scala sulla somministrazione di naloxone ad alte dosi in pazienti con shock ipovolemico [113] o settico [34, 114], lesioni midollari [115], nonché in volontari sani e in pazienti ricoverati per overdose massiva (body-packers) [41]. In uno studio randomizzato e controllato non sono state riscontrate differenze endocrinologiche (aumenti di adrenalina, noradrenalina, ormone antidiuretico, ormone adrenocorticotropo, cortisolo, glucosio e lattato) né emodinamiche (pressione arteriosa, frequenza cardiaca, saturazione arteriosa di ossigeno) fra il gruppo trattato con naloxone e il gruppo controllo dopo neuroleptoanestesia modificata [116]. Gli autori concludono che dopo neuroleptoanalgesia piccole dosi di naloxone non alterano la risposta endocrina ed emodinamica allo stress. Il naloxone è il farmaco di scelta anche nel trattamento della depressione respiratoria da oppioidi nei neonati alla dose di 0,01 mg/Kg, ripetibile ogni 2-3 minuti fino al raggiungimento dell'effetto desiderato [20, 117, 118]. In alcuni casi, tuttavia, si sono rese necessarie dosi superiori (da 0,03 a 0,065 mg/Kg) per riuscire a neutralizzare gli effetti degli oppioidi somministrati alla madre durante il travaglio [23, 27, 119, 120, 121, 122, 123]. La somministrazione può essere fatta per via endovenosa, sottocutanea, intramuscolare, attraverso il tubo endotracheale o nella vena ombelicale, e, se non sono necessari grandi volumi di liquidi, è preferibile utilizzare la più concentrata preparazione per adulti, opportunamente dosata, anziché la preparazione "neonatale" [60].   Shock Il naloxone antagonizza l’effetto ipotensivo degli oppioidi endogeni, le endorfine [124], e numerosi lavori preliminari hanno riportato rilevanti aumenti pressori dopo somministrazione dell’antagonista in pazienti con shock settico o ipovolemico [120, 121, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 134, 135, 136]. È stato ipotizzato che nello shock settico e cardiogeno l’ipotalamo stimoli il rilascio da parte dell’ipofisi di pro-opiocortina [125, 127] con formazione di ACTH e b-endorfine. Tali sostanze sarebbero coinvolte nel determinismo delle complicanze emodinamiche dello shock quali ipotensione e vasodilatazione [114, 137] attraverso l’inibizione dell'azione delle prostaglandine e delle catecolamine sulla circolazione. Studi su animali hanno inoltre evidenziato come uno dei siti d’azione delle b-endorfine a livello del sistema nervoso nello shock settico sia il recettore d [138, 139, 140]; non è tuttavia noto se nello shock settico le ß-endorfine agiscano a livello centrale, periferico o a entrambi i livelli. I corticosteroidi potrebbero avere un effetto a feedback negativo inibendo l'ulteriore rilascio di pro-opiocortina. Il naloxone, mediante legame con i recettori d a livello di sistema nervoso centrale, miocardio, rene, piccolo intestino e fegato [141, 142], sarebbe in grado di antagonizzare l'effetto delle b-endorfine ristabilendo l'effetto di controllo sulla circolazione delle prostaglandine e catecolamine, e determinando quindi sia aumento della pressione arteriosa che miglioramento della contrattilità miocardica [143]. Benché alcuni Autori abbiano segnalato l'inefficacia del naloxone nell’aumentare la pressione arteriosa [114, 144, 145], numerosi studi clinici indicano una temporanea risposta pressoria dopo somministrazione di naloxone nello shock settico e cardiogeno [120, 121, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 130, 131, 133, 134, 135, 136, 146, 147, 148]. Nello shock settico le dosi efficaci sono più elevate (superiori a 1,2 mg) di quelle che vengono di norma utilizzate nell’overdose da oppioidi [136, 148], e la somministrazione più idonea sembra quella in infusione continua, talvolta associata a metilprednisolone [149, 150, 151]. La contemporanea somministrazione dei due farmaci, infatti, sembra potenziarne l'effetto [152], che appare invece attenuato in caso di somministrazione di metilprednisolone o desametasone 30 minuti prima del naloxone [153]. I risultati dei trials clinici condotti per valutare il possibile ruolo del naloxone nello shock hanno fornito finora risultati non conclusivi [154, 155], principalmente a causa delle numerose variabili confondenti che devono essere prese in considerazione (condizioni cliniche preesistenti, terapie concomitanti quali i corticosteroidi, tempo intercorso prima dell'inizio del trattamento, stadio della malattia, dose) [156] e della mancanza di criteri univoci e omogenei di definizione dello shock settico. Aumenti della pressione arteriosa dopo somministrazione di naloxone sono stati segnalati anche in caso di shock anafilattico [132]. In un caso di overdose da diidrocodeina con reazione anafilattoide, inoltre, il naloxone è risultato efficace nel ridurre il flushing vasomotorio, il prurito e l'edema facciale; tali effetti sono stati messi in correlazione con il blocco della degranulazione delle mastcellule causata dall'oppioide circolante [157].     Indicazioni cliniche obsolete del naloxone Overdose da diazepam Prima dell'immissione in commercio del flumazenil, alcune osservazioni sull'uomo [158, 159, 160] e su animali [161, 162] avevano suggerito che il naloxone potesse essere efficace nel trattamento della depressione respiratoria indotta da diazepam. Tali dati non sono stati confermati da uno studio controllato in doppio cieco [163] e da osservazioni sporadiche [164]. L'attuale disponibilità di un antidoto specifico per le benzodiazepine priva di razionale tale indicazione terapeutica.   Intossicazione acuta da etanolo Sulla base di diverse ipotesi [165, 166, 167], il naloxone ad alte dosi è stato in passato utilizzato per il trattamento dell’insufficienza cerebrale nell’intossicazione etanolica acuta. I dati clinici al riguardo sono contrastanti. La descrizione di casi sporadici [158, 165, 168, 169, 170], uno studio controllato [171] e la dimostrazione che una dose di almeno 1,2 mg di naloxone è in grado di rendere reversibile il coma da intossicazione etilica se somministrata entro 10 minuti dall’ingestione di alcool [172], sembrano indicarne l’efficacia in tale intossicazione. Questi dati, tuttavia, non sono stati confermati o sono stati confutati in altri lavori clinici [173, 174], in studi controllati su soggetti sani [175] e su pazienti con intossicazione acuta [176, 177, 178], nonché nella sperimentazione su animali [179, 180]. Pertanto allo stato attuale delle conoscenze, pur se in presenza di dati controversi, si ritiene che l’uso del naloxone non sia di utilità clinica nel coma da intossicazione etanolica [65].   Indicazioni cliniche non accertate o sperimentali del naloxone Intossicazione da clonidina e da captopril La clonidina viene utilizzata per il controllo dei sintomi da astinenza nei pazienti tossicodipendenti in terapia con metadone [181, 182]. Non si conoscono al riguardo, tuttavia, effetti del farmaco sulla liberazione di oppioidi endogeni o sull'interazione con i loro recettori. Per contro, il naloxone è in grado di antagonizzare, sia nel ratto che nell'uomo, gli effetti antiipertensivi della clonidina [183, 184, 185] e l'intossicazione da clonidina è in parte caratterizzata da sintomi osservabili anche nell'overdose da oppioidi (compromissione della coscienza e coma, depressione respiratoria e apnea, ipotensione, ipotermia, miosi puntiforme, ipotonia, assenza dei riflessi osteo-tendinei, blocco atrio-ventricolare, convulsioni) [186, 187, 188, 189, 190, 191, 192, 193]. Questi dati hanno suggerito che un antagonista degli oppioidi come il naloxone potesse essere efficace nel trattamento delle overdose da clonidina. A tale riguardo esistono segnalazioni contrastanti: in alcuni casi (quattro pazienti adulti) il naloxone si è rivelato efficace nel risolvere il quadro dell'overdose da clonidina [194, 195, 196], mentre in casi di intossicazione da clonidina in età pediatrica (52 casi) è stato riportato l'utilizzo senza successo del naloxone [197, 198]. In un solo caso il naloxone si è dimostrato efficace nel risolvere l'ipotensione correlata ad un'overdose da captopril [199].   Demenza di Alzheimer Il naloxone è stato utilizzato (a dosi comprese fra 1 e 10 mg per via endovenosa in singola somministrazione) nel trattamento della demenza senile e della demenza su base degenerativa associata a malattia di Alzheimer [200, 201, 202]. Ciò si basa sull’ipotesi, verificata in studi su animali, che gli oppioidi endogeni giochino un ruolo nell'immagazzinamento della memoria [203]. I risultati clinici riportati per somministrazione endovenosa appaiono insufficienti per verificare l'efficacia degli antagonisti oppioidi in tali patologie [204]. Effetti più sostanziali e duraturi di quelli ottenuti con il naloxone per unica somministrazione endovenosa potrebbero, tuttavia, essere ottenibili utilizzando antagonisti più potenti, somministrabili per os e per periodi di tempo prolungati (es. naltrexone).   Anoressia nervosa In uno studio su pazienti affetti da anoressia nervosa, l'infusione endovenosa continua di naloxone a dosi di 1-3,2 mg/12 ore per alcuni giorni ha determinato un aumento ponderale significativamente maggiore rispetto al periodo precedente e a quello successivo all'infusione; gli autori ipotizzano che ciò possa essere dovuto agli effetti antilipolitico e di rallentamento del metabolismo del naloxone [205].   Obesità Il sistema degli oppioidi endogeni sembra coinvolto nel controllo dell'assunzione del cibo sia nell'animale che nell'uomo. Benché nel plasma dei soggetti studiati non risulti presente un livello di endorfine abnormemente elevato [206], sia il naloxone che il naltrexone si sono dimostrati efficaci nel determinare la riduzione dell'apporto di cibo negli obesi [207, 208], e il naloxone ha mostrato una durata dell'effetto più lunga della propria emivita. In altri studi il naltrexone ha mostrato scarsa efficacia, più nelle donne che non negli uomini [209].   Deficit neurologici ischemici Studi su animali hanno segnalato una diminuzione della mortalità per trattamento con naloxone dopo ictus indotto sperimentalmente [210, 211]. Segnalazioni aneddotiche [212, 213] hanno riportato miglioramento dei deficit neurologici da incidente ischemico dopo somministrazione di naloxone; studi controllati su campioni più ampi riportano invece un'efficacia limitata [214] o del tutto assente in questo tipo di pazienti [215, 216, 217, 218]. Altri studi suggeriscono che la somministrazione di naloxone possa essere utile per discriminare fra pazienti con ischemia cerebrale reversibile o irreversibile, presentando i primi un drammatico miglioramento [219].   Effetto del naloxone sulla risposta respiratoria nella broncopneumopatia cronica (BPCO) Alcuni Autori hanno postulato che gli oppioidi endogeni giochino un ruolo nel diminuire la risposta ventilatoria dei pazienti affetti da BPCO [220, 221] e che il naloxone possa antagonizzare tali effetti. Miglioramenti della performance respiratoria sono stati osservati dopo somministrazione di naloxone o di naltrexone [220, 222]; tali effetti sono stati ottenuti con dosi elevate di naloxone (2 mg/ora) per alcuni giorni, seguiti da somministrazione di naltrexone per os (50-200 mg/die) [222]. I miglioramenti della funzionalità respiratoria sono stati osservati prevalentemente in episodi acuti di riacutizzazione della pneumopatia cronica [223] o in casi di insufficienza respiratoria acuta [224]. Per contro, altri studi non hanno riscontrato alcuna differenza dei parametri respiratori in seguito a somministrazione di naloxone [225, 226, 227]. L'uso del naloxone nella BPCO rimane ancora controverso, ma l'interpretazione dei dati risulta difficile per lo scarso numero di pazienti trattati: appare verosimile che esistano sottogruppi di pazienti affetti da BPCO che possono trarre beneficio dal trattamento con naloxone.   Stipsi I pazienti sottoposti a terapia cronica con analgesici morfinici sviluppano spesso una stipsi resistente ai lassativi [1, 228]. Tale effetto è mediato localmente dai recettori m e d del plesso mioenterico, anche se esistono evidenze sperimentali del coinvolgimento di cellule neuronali ed endocrine, e di una modulazione a livello centrale [1, 229]. La somministrazione di naloxone per via endovenosa determina l'antagonismo sia della costipazione [1, 230] che dell'analgesia [40, 54]. Migliori risultati sono ottenibili con la somministrazione per os. È stato infatti dimostrato che il naloxone per os è in grado di antagonizzare il rallentamento del transito oro-ciecale da loperamide (agonista oppioide periferico) [231] e può provocare sintomi da astinenza a livello gastrointestinale nei tossicodipendenti in terapia con metadone [232]. Nonostante la rilevante inattivazione metabolica al primo passaggio epatico [32, 233, 234], la somministrazione di naloxone per os a una dose corrispondente al 10% dell'oppioide agonista, ha dato buoni risultati nel controllo della stipsi senza neutralizzare gli effetti analgesici [235, 236]. Il livello plasmatico efficace in tale senso risulta pari a 3-6 ng/mL allo steady-state [237] e la somministrazione di dosi ripetute [235, 238] risulta più efficace della somministrazione singola [239], data la breve emivita del farmaco. Il naloxone si è rivelato efficace anche nei casi di costipazione cronica idiopatica, sia per os che per via endovenosa [229].   Prurito L'attività degli agonisti oppioidi può contribuire alla genesi del prurito nella colestasi [240, 241] e il naloxone può risultare efficace nel controllo di tale sintomo [241], benché esistano al riguardo dati contrastanti [242]. Il naloxone si è mostrato efficace anche nel controllo del prurito presente in altre patologie [243] e di quello indotto da somministrazione epidurale di morfina (con efficacia uguale a quella del propofol) [85, 244].   Comportamento autolesivo Il razionale dell'uso degli antagonisti degli oppioidi endogeni (naloxone e naltrexone) si basa sulle ipotesi di (a) un'insensibilità al dolore causata da una maggiore attività basale di oppioidi endogeni, oppure di (b) un'aumentata produzione e rilascio di tali peptidi [245, 246]. I dati clinici sull'uso del naloxone o del naltrexone in tale patologia sono contrastanti [246, 247, 248, 249, 250, 251, 252, 253, 254, 255] e basati su singoli casi.   Disassuefazione dalla tossicodipendenza La prevenzione dell'effetto euforizzante conseguente all'assunzione di eroina può ridurre i rischi di dipendenza o contribuire ad attirare i soggetti verso un programma di riabilitazione [256]. La somministrazione di naloxone per os abolisce gli effetti euforizzanti dell'eroina [22, 256] e, in combinazione con il trattamento metadonico [257] non precipita la sindrome d'astinenza. La somministrazione di 400 mg, 800-1200 mg, e di 1500 mg di naloxone per os dopo assunzione di 25-50 mg di eroina determina assenza degli effetti dell'agonista rispettivamente per più di 6, 18 e 24 ore [22]. Il naloxone è stato utilizzato anche per la rapida disassuefazione di pazienti tossicodipendenti [41, 54, 258, 259, 260, 261, 262, 263]: la rapida precipitazione dei sintomi di astinenza viene poi fatta seguire da una terapia di mantenimento con naltrexone [264]. Non è noto per quale meccanismo il methohexitone possa bloccare l'insorgenza acuta dei sintomi di astinenza dopo somministrazione di naloxone [265]. Agli inizi degli anni ’90, la Food and Drug Administration (FDA) ha designato come "orphan drug" l'uso della buprenorfina o della buprenorfina più naloxone per il trattamento della dipendenza da oppioidi [266].   Discinesia tardiva L'uso di naloxone ha migliorato, in alcuni casi, i sintomi da discinesia tardiva (forma abitualmente provocata negli anziani dall'uso protratto di neurolettici) [267, 268]. Questo effetto potrebbe essere correlato all'interazione tra l'attività dopaminergica cerebrale e il sistema degli oppioidi endogeni.   Encefalopatia nell'insufficienza renale È riportato un solo caso che documenta l'efficacia del naloxone (infusione endovenosa continua) nel trattamento dell'encefalopatia insorta in una paziente diabetica e in trattamento dialitico per insufficienza renale cronica [269].   Ipotermia La somministrazione di naloxone ha ridotto la gravità dell'ipotermia da shock spinale, probabilmente per azione sui recettori centrali per gli oppioidi [140].   Emicrania L'efficacia della somministrazione cronica del naloxone nell'emicrania senza aura in pazienti refrattari alle terapie convenzionali sembra correlabile a una ipersensibilizzazione ad opera del naloxone dei recettori per gli oppioidi [270].   Disforia ed effetti psicotomimetici da oppioidi Gli effetti disforici e psicotomimetici dell'eroina, di alcuni benzomorfinani e specialmente della pentazocina non sono antagonizzabili dal naloxone e sembrano determinati dalla loro interazione con almeno due distinti siti recettoriali nel sistema nervoso centrale [1, 271]. Il primo (chiamato PCP- o fenciclidina-recettore) ha grande affinità per la fenciclidina e determina inibizione del rilascio di glutammato e aspartato, mentre il secondo è un recettore s che lega numerose sostanze quali fenilpiperidine e piperazine.   Altri usi del naloxone Il naloxone è stato utilizzato senza successo o con peggioramento della sintomatologia in pazienti affetti da depressione [272], schizofrenia [273, 274, 275], sindromi maniacali [276], lesioni del midollo spinale [277, 278], sindrome di Tourette [279] e asfissia neonatale [280].   Controindicazioni, precauzioni, effetti collaterali e interazioni farmacologiche del naloxone Non esistono reali controindicazioni all’uso del naloxone. L'iniezione intramuscolare o sottocutanea in pazienti ipotesi o con diminuita circolazione periferica comporta una diminuzione dell'assorbimento e un ritardo nella comparsa dell'effetto. La sindrome d'astinenza (vomito, agitazione, sudorazione, dolori addominali, piloerezione, tachicardia, ecc.) rappresenta il più frequente effetto collaterale dopo somministrazione di naloxone nei pazienti tossicodipendenti da oppioidi [40, 281], ivi compresa la buprenorfina [282]; in rari casi può comparire comportamento violento [283]. Essa si può presentare anche nei neonati di madri tossicodipendenti. Negli adulti tale sindrome è di breve durata e non è mai pericolosa per la vita, mentre nei neonati può portare a convulsioni anche letali. Tale evenienza, tuttavia, appare estremamente rara e non limita l’indicazione all’uso del naloxone nelle overdose nei neonati [41]. Alcune segnalazioni isolate descrivono "reazioni avverse" al naloxone che includono edema polmonare, ipertensione, ipotensione, aritmie e arresto cardiaco [90, 96, 97, 98, 101, 102, 107]. Tali effetti si sono generalmente verificati in pazienti sottoposti ad anestesie con agenti multipli, trattati con altri farmaci potenzialmente cardiotossici, nonché portatori di patologie che di per se stesse possono favorirne la comparsa, e sono in disaccordo con gli ampi studi in cui alte dosi di naloxone sono state somministrate a pazienti con shock ipovolemico [113], shock settico [34, 114], lesioni spinali [115], nonché nei numerosi casi di overdose nei "body-packers" [41, 58]. Elevate dosi di naloxone sono state inoltre somministrate a volontari sani senza significativi effetti collaterali acuti, benché alle dosi più alte siano stati notati alcuni effetti comportamentali e ormonali [134]. La formulazione commerciale di naloxone contiene un conservante, il metilparaben (p-idrossibenzoato di metile) che, in studi in vitro ma non in vivo, ha mostrato la capacità di spiazzare la bilirubina dall'albumina [284, 285, 286, 287]. Nei neonati e nei prematuri ciò potrebbe aumentare la quota di bilirubina libera, aggravare l'ittero e costituire un fattore di rischio per l'ittero nucleare. La segnalazione di un allungamento del tempo di tromboplastina parziale dopo somministrazione di dosi elevate di naloxone per più giorni consecutivi [22] non ha trovato conferma in altri studi. Attualmente non esistono evidenze conclusive che indicano un rapporto causa-effetto tra naloxone e alterazione di test ematologici. Una singola dose di naloxone (0,03 mg/Kg) determina un decremento della conta dei T-linfociti e della proliferazione linfocitaria senza influenzare l'espressione dell'interleuchina-2 [288]. Le cellule natural killer e l'interleuchina 2 aumentano lentamente dopo l'iniezione di naloxone, mentre la maggior parte dei parametri alterati ritornarono ai valori basali dopo 150 minuti. Con l'utilizzo di naloxone nel decorso postoperatorio sono stati associati rari effetti collaterali a carico del sistema cardiovascolare ed edema polmonare (vedi paragrafo: Sedazione e insufficienza respiratoria da oppioidi in anestesia e analgesia). Un caso di convulsioni da grande male si è avuto 30 secondi dopo la somministrazione di 0,8 mg di naloxone per via endovenosa in paziente affetto da linfoma non-Hodgkin per antagonizzare gli effetti della morfina somministrata a scopo antalgico [289]. Il solo episodio di laringospasmo dopo estubazione è stato descritto dopo somministrazione di 0,4 mg di naloxone nel postoperatorio in una paziente che aveva già avuto precedenti episodi di laringospasmo [290]. L'uso del naloxone in gravidanza non sembra correlabile, alla luce delle attuali conoscenze, a rischi per il feto [63, 291, 292].   Interazioni farmacologiche Il naloxone può bloccare gli effetti antiipertensivi del captopril [293, 294]. Un possibile blocco temporaneo degli effetti ipotensivi e della bradicardia osservabili per assunzione cronica di clonidina [183] non è stato confermato da altri studi [295]. Nelle overdose da clonidina, invece, la somministrazione di naloxone può provocare un aumento della pressione arteriosa [296, 297]. La concomitante assunzione di eroina e cocaina riduce, sia nell'animale che nell'uomo, la gravità dei sintomi d'astinenza indotti da naloxone [298].   Efficacia del naloxone rispetto ad altri agenti terapeutici simili Nalorfina e levallorfano sono oppioidi ad azione mista agonista-antagonista che hanno significative proprietà agoniste se somministrati in assenza di altri oppioidi agonisti [38, 299], e possono provocare una sindrome di astinenza dopo sospensione improvvisa [26]. La nalorfina, inoltre, produce acidosi respiratoria nella madre e acidosi metabolica nel feto quando somministrata a madri non tossicodipendenti a termine [300]. Tale farmaco non può pertanto essere utilizzato al posto del naloxone, che risulta il farmaco di scelta anche per neutralizzare la depressione respiratoria del neonato. In uno studio in doppio cieco, il naloxone ha mostrato la stessa efficacia della nalbufina nell'antagonizzare la depressione respiratoria indotta da oppioidi nel post-operatorio. La nalbufina può pertanto rappresentare alternativa al naloxone per antagonizzare la depressione respiratoria da oppioidi, e sembra da preferirsi nei pazienti che hanno ricevuto elevate dosi di oppioidi durante l'intervento e nei quali è prevedibile la comparsa di dolore nel decorso post-operatorio [301]. La nalbufina, inoltre, si è rivelata più efficace del naloxone nel ridurre gli effetti collaterali della morfina (nausea, prurito, sedazione) somministrata per via epidurale in pazienti sottoposte a taglio cesareo [302].     NALTREXONE   Il naltrexone è un antagonista oppioide semisintetico (17-N-(ciclopropilmetil)-4,5-a-epoxy-3,14-diidrossimorfinian-6-one cloridrato), N-ciclopropilmetil-congenere del naloxone. Agisce come antagonista a lunga emivita degli oppioidi, sia spiazzandoli, sia impedendone l'accesso ai recettori [291, 303, 304, 305]. Dati che necessitano di ulteriori conferme suggeriscono una modesta azione agonista del naltrexone somministrato a soggetti sani [306, 307, 308]. Viene commercializzato in Italia con il nome di Antaxone - Zambon (flaconcini da 50 mg e 100 mg, capsule da 10 e 50 mg), Nalorex - Molteni (capsule da 50 mg) o Narcoral - Crinos (capsule da 10 e 50 mg) ed è somministrabile solo per os. Indicazioni La disassuefazione dei tossicodipendenti costituisce la più importante indicazione all'uso del naltrexone, che viene impiegato anche nella sindrome d’astinenza da metadone e come terapia aggiuntiva nella dipendenza da alcool [309, 310, 311, 312]. Il farmaco si è dimostrato in alcuni casi efficace anche in altre patologie quali l'amenorrea di origine ipotalamica, le crisi di apnea nei pazienti in età pediatrica, nel trattamento dell’impotenza [313, 314], del prurito [315] e degli esiti di commozione cerebrale [316], nonché come anoressizzante [209, 317]: tali applicazioni necessitano ulteriore approfondimento.   Dosi Dosi di 50 o 100 mg di naltrexone per os inibiscono gli effetti di 25 mg di eroina rispettivamente per 24 e 48 ore. La dose consigliata è di 50 mg per os/die e 100 mg il sabato, oppure 100 mg il lunedì, 100 mg il mercoledì e 150 mg il venerdì [318].   Farmacocinetica Dopo assunzione per os, il picco plasmatico si ha dopo un'ora. L'assorbimento nel tratto gastroenterico è completo, e il farmaco viene metabolizzato a livello epatico con un importante effetto di primo passaggio. Il volume apparente di distribuzione è 1350 litri [318]. Il principale metabolita è il 6-b-naltrexolo, dotato di un ridotto effetto terapeutico. Il naltrexone è scarsamente legato alle proteine plasmatiche (20,7%). Viene eliminato quasi completamente attraverso le urine; l’emivita di eliminazione di una dose singola è di circa 10,3 ore e quella del metabolita attivo 6-b-naltrexolo di 12,7 ore.   Controindicazioni ed effetti avversi L'uso del naltrexone è controindicato in pazienti in terapia con analgesici oppioidi, negli epatopatici e nei soggetti in stato di astinenza. Negli soggetti con dipendenza da oppioidi esistono precise linee guida per l'utilizzo del farmaco; l'uso del naltrexone può essere iniziato, a dosi progressivamente crescenti, solo in soggetti che non abbiano utilizzato oppioidi per almeno 7 - 10 giorni, nelle cui urine non siano presenti derivati morfinici e in cui la somministrazione di naloxone non provochi la comparsa di sindrome astinenziale. Il farmaco può provocare confusione, depressione, affaticamento, irritabilità, [307, 308], anoressia, perdita di peso e inappetenza [319, 320]. Ansia, insonnia e mialgia si verificano nel 10% dei pazienti [318]. Possono inoltre verificarsi nausea, dolore addominale [305, 321, 322], diarrea o costipazione [318]. In pazienti che assumevano elevate dosi giornaliere di naltrexone (uguali o superiori a 300 mg) è stato rilevato l'aumento transitorio degli enzimi indicativi di necrosi epatica con normalizzazione del quadro alla sospensione del trattamento [209, 318, 323]; lo stesso effetto è stato notato per uso protratto [324]. Il naltrexone somministrato acutamente aumenta i livelli serici di gonadotropine, ACTH, cortisolo e catecolamine; tale effetto non si verifica per somministrazione cronica [325]. L'ingestione accidentale di naltrexone ha scatenato la sindrome d'astinenza in tre tossicodipendenti 5 minuti dopo l'ingestione del farmaco [326].     NALMEFENE   Il nalmefene (17-(ciclopropilmetil)-4,5 alfa-epossi-6-metilenmorfinian-3,14 diolo) è un antagonista oppioide derivato dal naltrexone: ha azione simile a quella del naloxone, ma con una durata dell'effetto più prolungata. Il farmaco non è attualmente commercializzato in Italia. L'emivita di eliminazione è di 8-9 ore dopo somministrazione endovenosa [327] e di 11 ore circa dopo somministrazione orale [328]. Il nalmefene non provoca effetti simili a quelli dei morfinici quando somministrato a tossicodipendenti [329]. È in grado di contrastare la depressione respiratoria e l'effetto sedativo dei morfinici con una potenza maggiore rispetto a quella del naloxone. La somministrazione endovenosa di 1 mg di nalmefene si è rivelata più efficace e più prolungata della somministrazione di 1 mg di naloxone nel neutralizzare gli effetti sedativi della meperidina [330]. Il farmaco è stato utilizzato nel trattamento dell’overdose da oppioidi, ma la sua lunga durata d’azione (da 8 fino a 48 ore per una dose di 100 mg) si può associare a manifestazioni astinenziali di lunga durata [331, 332]. La dose efficace per contrastare gli effetti sedativi del fentanyl (somministrato per via endovenosa fino a raggiungere una concentrazione ematica stabile di 1,5 ng/mL) è pari a 1 g/Kg; a questa dose la durata dell'effetto è di 105 minuti, ma dosi superiori sono risultate equipotenti [333]. Dosi di 0,5 g/Kg non antagonizzano gli effetti analgesici del fentanyl somministrato per via epidurale [334]. La somministrazione di 15-25 g di nalmefene nell’immediato post-operatorio consente di ridurre gli effetti collaterali della morfina impiegata a scopo antalgico (prurito, nausea), senza ridurne l’effetto terapeutico [335]. Il farmaco inoltre si è rivelato efficace nel 60% dei casi nel dominare il prurito quando somministrato a pazienti con ittero colestatico [336, 337], con orticaria cronica o affetti da dermatite atopica [338]. Il nalmefene ha dimostrato una buona tollerabilità alle dosi impiegate (10-20 mg); gli effetti collaterali rilevati sono stati nausea, affaticabilità e vertigini [338]. Gli impieghi del nalmefene in altre condizioni patologiche (es. dipendenza da alcool, stroke, cistite interstiziale) necessitano di ulteriore validazione clinica [331, 339].     TRATTAMENTO DEL PAZIENTE OPPIOIDO-DIPENDENTE RICOVERATO PER PROBLEMI MEDICI, CHIRURGICI OD OSTETRICI   Alla presa in carico di pazienti oppioido-dipendenti (in trattamento metadonico o no), è opportuno effettuare la determinazione di morfina e metadone urinari prima della somministrazione di qualsiasi farmaco. Non devono essere effettuati tentativi di disassuefazione nei pazienti in gravi condizioni cliniche. Il paziente in trattamento metadonico dovrebbe continuare ad assumere la dose di mantenimento, possibilmente suddivisa in due somministrazioni al giorno. In caso non sia possibile l’assunzione di farmaci per os, il metadone può essere somministrato per via intramuscolare (due volte al di), a una dose giornaliera totale pari a metà di quella abituale di mantenimento. Il paziente tossicodipendente non in trattamento metadonico dovrà essere messo in trattamento metadonico per os o per via intramuscolare non appena compaiono i primi sintomi della sindrome d’astinenza e dopo che questi saranno stati controllati con un oppioide a breve durata d’azione [43]. _______________________________________________________ Gli Antagonisti delle Benzodiazepine _______________________________________________________  GLI ANTAGONISTI DELLE BENZODIAZEPINE   Carlo Locatelli, Valeria Petrolini, Raffaella Butera, Luigi Manzo* Servizio di Tossicologia, Centro Nazionale di Informazione Tossicologica e Centro Antiveleni di Pavia, I.R.C.C.S. Fondazione Salvatore Maugeri Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, Pavia, e *Dipartimento di Medicina Interna e Terapia Medica, Sezione Medicina Interna e Tossicologia Clinica, Università di Pavia Indirizzo: Servizio di Tossicologia, Centro Nazionale di Informazione Tossicologica e Centro Antiveleni di Pavia, I.R.C.C.S. Fondazione Salvatore Maugeri Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, via A. Ferrata 8, 27100 Pavia Telefono: 0382 26261 (per tutti gli autori) fax: 0382 24605 (per tutti gli autori) e-mail: clocatelli@fsm.it (per tutti gli autori) INTRODUZIONE Le benzodiazepine (BDZ) sono farmaci ampiamente utilizzati nella pratica clinica grazie ai molteplici effetti farmacologici (ipnotico, ansiolitico, miorilassante, anticonvulsivante) ed a un favorevole indice terapeutico. Alcune BDZ (es. flunitrazepam, diazepam, midazolam) vengono estesamente impiegate anche in campo anestesiologico e intensivistico. A causa della loro grande diffusione, le BDZ risultano oggi tra le sostanze più frequentemente coinvolte nelle intossicazioni, sia accidentali che a scopo autolesivo. Le BDZ inoltre possono determinare effetti collaterali (es. sedazione e ipostenia prolungate dopo sedazione per interventi ambulatoriali) che in alcuni casi ne limitano l’impiego clinico. Diverse molecole sono state utilizzate nel passato come antidoti nel sovradosaggio da BDZ (es. fisostigmina, aminofillina) [[1] [2][3]]), ma dopo l’introduzione nella pratica clinica dell’antagonista recettoriale specifico flumazenil (dal 1989 disponibile anche in Italia) tali farmaci hanno conservato solo un interesse storico. Il flumazenil è oggi l’antagonista di scelta delle BDZ e le sue indicazioni cliniche comprendono il trattamento del sovradosaggio e la neutralizzazione degli effetti prolungati o indesiderati (es. effetto paradosso) di questi farmaci.   I recettori specifici e il meccanismo d'azione delle benzodiazepine Le BDZ si caratterizzano chimicamente per la presenza di un anello benzenico condensato con un anello diazepinico; la presenza di un radicale arilico in posizione 5, configura il gruppo delle 5-aril-1,4-benzodiazepine. L'inserimento di un anello imidazolico in posizione 1,2 dà origine alle imidazo-BDZ, fra le quali figurano il midazolam e il flumazenil. Figura 1. Schema del complesso recettoriale GABAA-benzodiazepine. GABA-r = recettore per il GABA; BZ-r = recettore per le BDZ L'azione farmacologica delle BDZ si realizza attraverso il legame con specifici siti recettoriali (Tallman e Gallager, 1985; Torta e Biggio, 1995; Iyo et al, 1991; Farrell e Roberts, 1998). Nel sistema nervoso centrale (SNC), a livello della membrana post-sinaptica, i recettori per le BDZ (BZr) formano un complesso recettoriale con un tipo di recettore per l’acido g-aminobutirrico (recettore GABAA) (figura 1); tale complesso è costituito da due subunità a (siti di legame per le BDZ), due subunità b (siti di legame per il GABA) e un canale ionoforo per il cloro (figura 2). Il legame del GABA al suo sito recettoriale determina l'apertura di questo canale e la penetrazione nella cellula di ioni cloro con conseguente iperpolarizzazione della membrana neuronale, che diviene meno eccitabile (Haefely et al, 1975). Il ruolo dei BZr presenti a livello del SNC accoppiati a quelli per il GABA consiste nel modulare l'attività di quest’ultimo. Ai BZr si legano fisiologicamente molecole endogene (endozepine o benzodiazepine endogene) (Rothstein et al, 1992a; Taupin et al, 1993; Li e Pelletier, 1995) che possono aumentare o diminuire la permeabilità agli ioni cloro, esercitando effetti opposti (Torta e Biggio, 1995), e avere un ruolo nella genesi di malattie neuropsichiatriche (Polc, 1995). Un aumento della concentrazione sierica e liquorale di una di queste, la endozepina-4, sembra essere correlata alla comparsa dello "stupor idiopatico ricorrente" (Rothstein et al, 1992b). Figura 2 Rappresentazione del complesso recettoriale costituito da quattro subunità e dal canale ionoforo per gli ioni cloro (Cl-). Sui recettori centrali per le BDZ possono agire tre principali tipi di legandi esogeni: gli agonisti (es. diazepam), gli agonisti inversi (es. beta-carboline) e gli antagonisti (es. flumazenil) (Möhler e Richards, 1988; Nutt et al, 1982). I primi due inducono una modificazione della conformazione del canale del cloro, rispettivamente aumentando e diminuendo il flusso di ioni cloro e quindi lo stato di inibizione neuronale. Gli antagonisti, invece, si oppongono al legame con il recettore sia degli agonisti che degli agonisti inversi, senza modificare l’interazione tra il recettore per il GABA e il canale per il cloro: essi sono quindi privi di effetto specifico sul recettore (figura 3). I recettori centrali delle BDZ sono distinti in due sottotipi denominati BZ1 (W1) e BZ2 (W2), rispettivamente accoppiati a due sottotipi di recettori GABAA. Benché non ancora completamente chiarita, l'eterogeneità degli Figura 3. Ligandi per il recettore benzodiazepinico (BZ-r) centrale. L'attività intrinseca è schematicamente indicata con + se positiva e - se negativa. Il flumazenil non è dotato di attività intrinseca. (GABA-r: recettore per il GABA). effetti prodotti dalla somministrazione di BDZ suggerisce una specificità funzionale dei singoli sottotipi di recettori. Studi condotti con farmaci attivi selettivamente sui recettori W1 (alpidem e zolpidem) hanno suggerito il ruolo prevalente di questi recettori negli effetti sedativo e ipnotico; la loro stimolazione non sembra invece indurre incoordinazione motoria né esercitare effetto anticonvulsivante (Monti, 1989; Wheatley, 1989; Langtry e Benfield, 1990; Benavides et al, 1993). I farmaci che agiscono selettivamente su questi recettori, inoltre, non inducono tolleranza e dipendenza. Tali studi sembrano pertanto suggerire che i recettori W2 possano essere maggiormente coinvolti nei meccanismi di miorilassamento, nella determinazione di alcuni effetti collaterali (es. atassia) e, probabilmente, anche nei fenomeni di tolleranza e dipendenza alle BDZ (Sanger et al, 1994; Torta e Biggio, 1995; Davies et al, 1994; Lavoisy et al, 1992; Miller et al, 1992). La distribuzione dei recettori per le benzodiazepine nel SNC non è uniforme: essi risultano maggiormente rappresentati a livello corticale, mentre la loro densità è bassa nella sostanza bianca e intermedia a livello dello striato e del talamo (Price et al, 1993; Lassen et al, 1995, Millet et al, 1995). In particolare, i recettori W1 rappresentano circa il 60-70% dei recettori benzodiazepinici nella corteccia cerebrale e cerebellare, nel pallido ventrale e nella sostanza nera, mentre gli W2 sono localizzati per lo più nell'ippocampo, nel midollo spinale e nei gangli della base (Torta e Biggio, 1995).   IL FLUMAZENIL Figura 4. Formula di struttura di flumazenil Il flumazenil (RO 15-1788; FMZ) è una imidazo-benzodiazepina con formula C15H14FN3O3 (figura 4). E’ una base debole, liposolubile, con un peso molecolare di 303,3 daltons e un pKa pari a 1 (Wanke, 2000). A basse concentrazioni (10%) la molecola è solubile in acqua. In Italia il FMZ è commercializzato con il nome di Anexate® (Roche SpA) in fiale per uso endovenoso da 0,5 e 1 mg (5 e 10 ml, rispettivamente) che possono essere conservate a temperatura ambiente (15-30 °C). La preparazione può essere diluita in soluzione fisiologica, glucosata al 5%, e in ringer lattato; le soluzioni così ottenute hanno stabilità superiore a 24 ore (Wanke, 2000; Hojer et al, 1990). La preparazione per somministrazione orale non viene commercializzata ed è sperimentalmente impiegata per il trattamento dell'epilessia (v. oltre).   Meccanismo d’azione Il flumazenil si lega al recettore per le BDZ, per il quale ha elevata affinità, spiazzando da questo gli agonisti e gli agonisti inversi. Tale legame non provoca importanti modificazioni steriche del recettore, e di conseguenza, il FMZ a dosi terapeutiche è sprovvisto di attività farmacologica propria (Hunkeler et al 1981). Studi nell’uomo hanno dimostrato che il FMZ si localizza nel SNC nelle aree a maggior concentrazione di reccettori benzodiazepinici (Mindus et al, 1986). Esso si lega con elevata affinità tanto ai recettori BZ1 (W1) che BZ2 (W2), risultando pertanto efficace sia nei confronti delle BDZ che di farmaci W1-selettivi strutturalmente non correlati alle benzodiazepine quali la imidazopiridina zolpidem (Naef et al, 1989; Lheureux et al, 1990) e la pirazolopirimidina zaleplon (Hurst e Noble, 1999). Il flumazenil, inoltre, non interferisce con farmaci e sostanze (es. barbiturici, neurolettici) i cui effetti si esplicano attraverso l’interazione con recettori diversi da quelli benzodiazepinici (Brogden e Goa, 1988; Amrein et al, 1988a; Amrein et al, 1988b; Hunkeler et al, 1981; Darragh et al, 1981b; Darragh et al, 1982; Lauven et al, 1985; Klotz et al, 1985b).   Farmacocinetica I parametri farmacocinetici del FMZ sono stati ampiamenti studiati (Tabella 1) e configurano un modello di tipo bicompartimentale. L’assorbimento dopo somministrazione orale è rapido (emivita di assorbimento: 20 minuti) e il picco plasmatico viene raggiunto dopo 20-90 minuti. La biodisponibilità orale è tuttavia bassa (approssimativamente 16%) a causa di un esteso effetto di primo passaggio epatico (Klotz, 1988; Roncari et al, 1986; Klotz e Kanto, 1988). Tab 1 Principali parametri farmacocinetici di flumazenil emivita di assorbimento per os 0,3 ore picco plasmatico (somministrazione per os) 20-90 minuti biodisponibilità per via orale 16% fase di distribuzione dopo iniezione endovenosa < 5 minuti volume di distribuzione 0,63-1,60 L/kg legame con le proteine plasmatiche 40-50% rapporto sangue/plasma 0,8-1,3 rapporto cervello/sangue (10 min dopo iniezione) 3:1 percentuale di metabolismo epatico 99% emivita di eliminazione (T ½b) 0,7-1,4 ore farmaco escreto immodificato nelle urine 0,1% clearance plasmatica totale (CLpl) 1 L/minuto Dopo iniezione endovenosa nell'adulto, la fase di distribuzione è molto breve (inferiore a 5 minuti) (Wanke, 2000). Il farmaco passa velocemente nel SNC concentrandosi nella sostanza grigia prevalentemente a livello della corteccia cerebrale (rapporto cervello/sangue pari a 3:1 dieci minuti dopo somministrazione endovenosa) (Klotz e Kanto, 1988; Persson et al, 1985), con una scomparsa dal circolo pari al 90 e il 99% della dose iniettata rispettivamente dopo circa 2 e 4 ore (Wanke, 2000). Nell’uomo il FMZ è legato alle proteine plasmatiche per il 40-50% (di cui 2/3 all’albumina), mostra un rapporto sangue/plasma pari a 0,8-1,3 e ha un volume di distribuzione compreso tra 0,63 e 1,60 L/Kg (Klotz et al, 1984; Klotz e Kanto, 1988; Roncari et al, 1986; Roncari et al, 1993). La clearance plasmatica totale del FMZ è di circa 1 L/minuto (Breimer et al, 1991, Roncari et al, 1993), ed è attribuibile quasi interamente al fegato, che metabolizza rapidamente circa il 99% del farmaco in un derivato acido carbossilico e nel suo corrispondente glucuronide (entrambi inattivi) (Klotz et al, 1984; Brogden e Goa, 1988; Roncari et al, 1986; Klotz e Kanto, 1988; Amrein e Hetzel,1990). La clearance renale è invece trascurabile, poiché solo lo 0,1% della dose somministrata viene escreta immodificata nelle urine. Nei pazienti con significativa insufficienza epatica, pertanto, la clearance del FMZ può risultare ridotta del 40-75% e l’emivita plasmatica può aumentare di sette volte (van der Rijt et al, 1991). L'eliminazione segue una cinetica di primo ordine e la sua velocità è proporzionale alla dose iniziale. L’emivita di eliminazione è di circa 1 ora (da 0,7 a 1,4 ore) (Klotz et al, 1984; Roncari et al, 1986; Klotz e Kanto, 1988; Klotz, 1988). Uno studio più recente (Breimer et al, 1991) ha evidenziato una cinetica di eliminazione bifasica, con un’emivita media a di 4,1 minuti e un’emivita b di 70,2 minuti. L’assorbimento e i parametri farmacocinetici del flumazenil non vengono influenzati dall’età (Roncari et al, 1993) né da interazioni reciproche con le BDZ. Concentrazioni plasmatiche efficaci e comparsa dell’effetto terapeutico Il FMZ può essere dosato nel plasma mediante mediante HPLC (high performance liquid chromatography) con rilevatore UV (Timm e Zell, 1983) o GLC (gas liquid chromatography) con rilevatore azoto-fosforo (Abernethy et al, 1983). Tale determinazione, tuttavia, non è di pratica utilità per l’impiego clinico dell’antidoto. Il FMZ non interferisce con le determinazioni delle BDZ (es. diazepam, oxazepam) (Doem e Unger 1988) Dopo somministrazione di una singola dose orale di 200 mg di FMZ si ottiene un picco di concentrazione plasmatica di 143-439 ng/mL entro 20-90 minuti (media: 41 minuti), seguito da una rapida diminuzione dei livelli sotto il limite di rilevabilità (10 ng/mL) entro 4-6 ore (Brogden e Goa, 1988; Brogden e Goa, 1991; Roncari et al, 1986). Dati osservati durante la sperimentazione clinica dell’antidoto mostrano che la somministrazione di 0,1-0,2 mg e di 1-2 mg per via endovenosa determina concentrazioni plasmatiche rispettivamente di 3-6 e 10-20 ng/mL: le prime esercitano un antagonismo solo parziale, mentre quelle più elevate risultano efficaci nel risolvere l’effetto depressivo sul SNC indotto dalle usuali dosi sedative di BDZ (es: 30 mg diazepam, 10 mg midazolam) (Klotz et al, 1984; Klotz et al, 1985b). La comparsa dell’effetto terapeutico dopo somministrazione endovenosa si manifesta entro 1-2 minuti (Rodrigo e Rosenquist, 1987; Amrein et al, 1988a; Jensen et al, 1987; Kirkegaard et al, 1986; Alon et al, 1987; Sage et al, 1987; Wolff et al, 1986; Hofer e Scollo-Lavizzari, 1985, Locatelli et al, 1988) e ha una durata relativamente breve, variabile da 1 a 4 ore (Hofer e Scollo-Lavizzari, 1985; Jensen et al, 1987; Darragh et al, 1981a; Locatelli et al, 1988). La durata dell’effetto non sembra variare per dosi comprese tra 0,2 e 1 mg, mentre risulta raddoppiata dopo somministrazione di dosi più elevate (3 mg) (Dunton et al, 1988). Studi mediante PET (positron emission thomography) hanno dimostrato che la somminstrazione di 1,5 mg di FMZ porta a una occupazione iniziale del 55% dei recettori, mentre 15 mg bloccano pressoché totalmente i siti recettoriali benziodiazepinci (Savic et al, 1991).   Impiego clinico del flumazenil in medicina d’urgenza e in anestesia L’antagonismo dell’azione depressiva sul SNC, sulla funzione muscolare e su quella respiratoria causata da BDZ rappresenta la principale indicazione clinica all’uso del FMZ (Brogden e Goa, 1991; Farrell e Roberts, 1998; Howland 1998; Saviuc e Castot, 2000). Oltre che nei casi di sovradosaggio, l’antidoto si rivela efficace nell'antagonizzare l'effetto delle BDZ assunte in dose terapeutica, qualora sedazione e ipotonia persistano per periodi eccessivamente prolungati (es. dopo sedazione per esami diagnostici) oppure nel trattamento di effetti paradossi da BDZ (es. agitazione psico-motoria). L’assenza di attività intrinseca, inoltre, rende il FMZ utilizzabile anche nella diagnosi differenziale delle cause di insufficienza cerebrale di origine non nota (Locatelli et al, 1988; Hojer et al, 1990; Winkler et al, 1993; Weinbroum et al, 1996). Questa indicazione, tuttavia, non è univocamente condivisa in quanto lo spiazzamento delle BDZ esogene o endogene dai siti d’azione potrebbe, in alcuni casi, annullarne l’effetto protettivo nei confronti di possibili fenomeni eccitatori a carico del SNC (es. convulsioni) causati da condizioni misconosciute (concause tossiche o patologiche). Il FMZ viene somministrato nella pratica clinica per via endovenosa, ma può essere somministrato anche per via endotracheale (Palmer et al, 1998) o per via rettale nei bambini (Lopez-Herze et al, 1994; Wanke, 2000). Il metodo di somministrazione più idoneo è quello della titolazione, che consiste nel frazionamento della dose in una serie di piccoli boli da somministrare in successione fino al raggiungimento dell’effetto desiderato o della dose massima raccomandata. Questo metodo consente di controllare l’antagonizzazione della sedazione fino al grado desiderato e di ridurre al minimo gli eventuali effetti collaterali (Wanke,1995; Howland 1998). Tabella 2. Dosi efficaci di flumazenil nelle indicazioni cliniche accertate. patologia/effetto da antagonizzare dose bolo boli successivi infusione continua sovradosaggio da BDZ 1-3 mg 0,5-1 mg ogni 20 min 0,2-2 mg/h sedazione dopo anestesia 0,2-1 mg 0,2 mg/min oppure 1 mg ogni 20 min 0,2-1 mg 0,2 mg/min oppure 1 mg ogni 20 min sedazione in terapia intensiva 1 mg oppure 4 mg in 60 min effetto paradosso 0,2-1 mg Come ci si deve attendere in base alle caratteristiche farmacocinetiche, la comparsa dell’effetto del FMZ è rapida ma di breve durata: ciò può determinare, nei casi di sovradosaggio da BDZ, la ricomparsa di un quadro di insufficienza cerebrale nel soggetto trattato con una singola dose dell’antidoto. Per il trattamento di tali pazienti, pertanto, si rende spesso necessaria la somministrazione di ulteriori dosi bolo frazionate o l’infusione endovenosa continua (Locatelli et al, 1988; Wanke, 2000; Baud e Brouard, 1992; Howland 1998; Saviuc e Castot, 2000). Il trattamento di una patologia da BDZ con FMZ può portare a rapida risoluzione del quadro clinico di presentazione; ciò non deve tuttavia esimere dall’effettuare l’eventuale trattamento di decontaminazione del tratto gastroenterico, il monitoraggio clinico e gli altri trattamenti di supporto. Nei casi di risposta parziale al trattamento antidotico è inoltre necessario escludere la presenza di altre cause o concause di insufficienza cerebrale. Le dosi efficaci di FMZ (Tabella 2) variano nelle diverse indicazioni per le quali l’antidoto viene utilizzato. La maggior parte dei pazienti con intossicazione acuta da BDZ risponde a dosi di 1 mg per via endovenosa; una dose di 3 mg produce effetti simili che perdurano il doppio rispetto alla dose di 1 mg. Non è necessario modificare la posologia nei pazienti geriatrici; in presenza di insufficienza epatica, invece, le dosi successive a quella iniziale devono essere ridotte in quantità o in frequenza, a causa di una clearance significativamente ridotta (Wanke, 2000 Farrell e Roberts, 1998).   Intossicazione acuta da benzodiazepine Il sovradosaggio da BDZ risulta, nella maggior parte di casi, mono-medicamentoso in età pediatrica, mentre è sovente poli-medicamentoso e massivo nell’età adulta. In Francia, le benzodiazepine sono presenti nel 60% dei casi di intossicazione volontaria da farmaci (Saviuc e Castot, 2000). Le BDZ a breve emivita, in grado di provocare intensa amnesia dei fatti recenti, vengono talvolta utilizzate con intento criminoso (sottomissione medicamentosa) (Saviuc e Castot, 2000). Intossicazioni da BDZ in età pediatrica possono conseguire a somministarzioni intenzionali per maltrattamento (Wiley e Wiley 1998). Le benzodiazepine sono farmaci di pericolosità relativamente limitata: nelle intossicazioni pure non vi è correlazione tra dose assunta e grado di insufficienza cerebrale e i casi di morte accertata da sovradosaggio di sole BDZ sono rarissimi nonostante l’elevata frequenza di queste intossicazioni (Bozza Marrubini et al, 1987). Quadri clinici particolarmente gravi, anche letali, sono invece possibili per associazione di alte dosi di BDZ con altre sostanze o farmaci neurodepressori. L'intossicazione acuta da benzodiazepine ad azione ultrabreve (es. temazepam) sembra essere più pericolosa, con maggior possibilità di casi letali (Martin e Chan, 1986; Forrest et al, 1986; Saviuc e Castot, 2000). L’intossicazione acuta da BDZ può comportare complicanze pericolose ove esistano particolari fattori di rischio. Nei pazienti con patologie cardiorespiratorie di base possono verificarsi ipotensione, depressione cardiorespiratoria e apnea per effetto centrale di questi farmaci (Taveira da Silva, 1998; Saviuc e Castot, 2000). Nell’anziano l’effetto miorilassante risulta accentuato e di lunga durata; ciò, unitamente all'effetto depressivo sul SNC, è all’origine delle complicanze respiratorie che si possono frequentemente osservare in questi pazienti (Saviuc e Castot, 2000). L’uso del FMZ non sembra avere un vantaggioso rapporto costo/efficacia nelle intossicazioni intenzionali ad eziologia ignota (Barnett et al, 1999), non abbrevia il decorso delle intossicazioni acute da BDZ, ma ne modifica favorevolmente l'espressione clinica (Saviuc e Castot, 2000). Per un trattamento ottimale delle overdose da BDZ risulta opportuno somministrare il FMZ con il metodo della titolazione a piccoli boli successivi al fine di limitare la comparsa di effetti avversi. A tal fine il produttore e alcuni autori raccomandano la somministrazione di una dose iniziale per via endovenosa di 0,2 mg in 30 secondi, seguita da Tabella 3. Sintomi e segni di sovradosaggio da benzodiazepine S. NEUROLOGICI - miosi - insufficienza cerebrale di media gravità, fino al coma con riflesso vestibolo-oculare conservato - ipotonia muscolare di grado elevato, non correlata al livello di insufficienza cerebrale - iporeflessia o areflessia osteo-tendinea S. RESPIRATORI - insufficienza respiratoria secondaria all'ipotonia muscolare (pazienti anziani e defedati) S. CARDIOCIRCOLATORI - bradicardia (flunitrazepam) - ipotensione (incostante) TERMOREGOLAZIONE - ipotermia (possibile) una dose di 0,3 mg dopo ulteriori 30 secondi e quindi, nel caso di assenza di risposta, da dosi successive di 0,5 mg a intervalli di un minuto una dall’altra fino ad una dose cumulativa massima di 5 mg (oltre alla quale ulteriori somministrazioni di flumazenil non producono effetti aggiuntivi) (Wanke, 2000; Farrell e Roberts, 1998; Howland 1998). L’esperienza clinica e le casistiche della relative alle intossicazioni dell’adulto e dell’anziano indicano l’uso frequente di dosi bolo di 0,2-1 mg (Prischl et al, 1988; O’Sullivan e Wade, 1987; Bismuth et al, 1985; Hofer e Scollo-Lavizzari, 1985; Weinbroum et al, 1996; Baud e Brouard, 1992). La maggior parte dei pazienti risponde a una dose bolo totale di FMZ compresa tra 1 e 3 mg, e solo in rari casi sono state utilizzate dosi bolo comprese fra 5 e 10 mg (Hofer e Scollo-Lavizzari, 1985; Lheureux e Askenasi, 1986; Scollo-Lavizzari, 1983; Hojer et al, 1991; Skielboe et al, 1991; Votey et al, 1991; Weinbroum et al, 1991: Weinbroum AA et al, (1997; Saviuc e Castot, 2000). Nelle intossicazioni da farmaci W1-selettivi (es. zolpidem) le dosi efficaci sono le stesse utilizzate nei sovradosaggi da BDZ (Naef et al, 1989; Lheureux et al, 1990). Nelle intossicazioni pure da BDZ l’effetto del FMZ è in genere rilevabile dopo pochi minuti dalla somministrazione endovenosa di una dose complessiva che può anche essere inferiore a 1 mg; nelle intossicazioni miste il risveglio del paziente è meno rapido e completo per la persistenza degli effetti sedativi di altri farmaci, è di durata più breve ed è spesso ottenuto per dosi superiori (fino a 5 mg) (Hojer et al, 1990; Hojer e Baehrendtz, 1988, Bismuth et al, 1985; Lheureux e Askenasi, 1988, Baud e Brouard, 1992; Pollard et al, 1989). La durata dell’effetto ottenibile con FMZ è variabile anche in funzione del tipo di BDZ coinvolta nel sovradosaggio, e varia da 15 minuti a 5 ore (Baud e Brouard, 1992; Bismuth et al, 1985; Saviuc e Castot, 2000). Nei casi di intossicazione da BDZ a breve durata d’azione (es. triazolam) e nelle intossicazioni in età pediatrica può essere sufficiente la sola somministrazione della dose bolo compresa fra 10 a 20 mg/Kg (Hofer e Scollo-Lavizzari, 1985; Bismuth et al, 1985; Lheureux e Askenasi, 1988; Wood et al,1988a; Wood et al,1988b). Nelle intossicazioni volontarie dell’adulto e nel paziente anziano, invece, si rende spesso necessario far seguire alla dose iniziale delle somministrazioni aggiuntive di 0,5-1 mg ad intervalli di 20 minuti oppure la somministrazione endovenosa continua di 0,1-2 mg/ora (Locatelli et al, 1988; Baud e Brouard, 1992; Saviuc e Castot, 2000). Il FMZ è in grado di contrastare anche alcuni effetti cardiotossici (blocco atrioventricolare di primo grado) che si possono verificare in caso di intossicazione acuta da BDZ, probabilmente contrastando la blanda azione calcio-antagoniste delle BDZ sui recettori miocardici periferici (Mullins 1999). Nei pazienti in trattamento cronico con BDZ la somministrazione dell’antidoto può provocare sintomi da astinenza (Baud e Brouard, 1992; Kulka e Lauven, 1992). Tale effetto, ampiamente descritto negli studi su animali trattati per lunghi periodi con BDZ (Lukas e Griffiths, 1982; Rosenberg e Chiu, 1982), risulta, seppur presente, di scarsa rilevanza negli studi clinici (Hofer e Scollo-Lavizzari, 1985; Saviuc e Castot, 2000). Le limitate casistiche sull'uso del FMZ in campo pediatrico (Wood et al, 1988a; Wood et al, 1988b, Sugarman e Paul, 1994; Perry e Shannon, 1996; Saviuc e Castot, 2000) indicano che l'uso di questo antagonista nelle intossicazioni pure da BDZ in età pediatrica è raro (intorno al 5% dei casi) (Wiley e Wiley 1998) e che sono risultate efficaci dosi bolo comprese fra 0,005 e 0,01 mg/kg e l’infusione continua di 0,1 mg/kg/ora. Il FMZ si è dimostrato efficace anche nell’impiego anestesiologico per antagonizzare la sedazione ottenuta con BDZ (Shannon et al, 1997) e per contrastare l'insufficienza respiratoria nel neonato conseguente a somministrazione di BDZ alla madre (Dixon e Dixon, 1998).   Diagnostica differenziale delle cause di insufficienza cerebrale. Diagnosi e trattamento di intossicazioni miste L'assenza di attività intrinseca, e quindi di effetti farmacologici propri, ha portato ad utilizzare il FMZ nella diagnosi ex adjuvantibus delle cause di insufficienza cerebrale di origine ignota (Locatelli et al, 1988; Weinbroum et al, 1996) e come mezzo diagnostico e terapeutico nelle intossicazioni polifarmacologiche (Hojer et al, 1990; Ahmad et al, 1991; Martens et al, 1990; Farrell e Roberts, 1998; Weinbroum et al, 1996; Barnett et al, 1999; Saviuc e Castot, 2000). La somministrazione di una singola dose di FMZ risulta un test sensibile, anche se poco specifico, nella diagnosi di intossicazione da BDZ (Singh e Richell-Herren 2000). Tale impiego, tuttavia, può spiazzare le BDZ (esogene o endogene) dai siti recettoriali e, in alcuni casi, annullarne l’effetto protettivo nei confronti di possibili fenomeni eccitatori a carico del SNC causati da condizioni misconosciute. Quadri convulsivi, ad esempio, talora associati ad aritmie cardiache, sono stati descritti dopo somministrazione di FMZ nelle intossicazioni miste da BDZ e antidepressivi triciclici, con esito anche letale (Baud e Brouard, 1992; Geller et al, 1991c; Spivey, 1992; Bodenham, 1989; Burr et al, 1989; Marchant et al, 1989; Howland 1998), oppure in pazienti epilettici in trattamento benzodiazepinico (Spivey, 1992; Haverkos et al, 1994: Chern TL, Kwan A (1996); Gueye et al, 1996). In altri studi, tuttavia, il FMZ si è rivelato un efficace presidio diagnostico e terapeutico, sia nei casi di insufficienza cerebrale da causa ignota che nei sovradosaggi polifarmacologici (Locatelli et al, 1988; Weinbroum et al, 1996; Hojer et al, 1990; O'Sullivan e Wade, 1987; Weinbroum et al, 1996). Esso si è rivelato in grado di migliorare lo stato di coscienza ed evitare l’intubazione endotracheale senza causare effetti collaterali di rilievo, anche in caso di assunzione di sostanze con azione eccitatoria sul SNC quali gli antidepressivi triciclici e la carbamazepina (Hojer et al, 1990; Weinbroum et al, 1996, Martens et al, 1990; Saviuc e Castot, 2000). L’uso del FMZ nelle intossicazioni pure e miste, inoltre, riduce di circa il 30-40% l’impiego di procedure diagnostico-terapeutiche invasive (lavanda gastrica, intubazione e ventilazione assistita, cateterismo vescicale, TAC encefalo) e/o costose (Hojer et al 1990). Allo stato attuale delle conoscenze e sulla base delle esperienze cliniche è pertanto da ritenersi impropria e potenzialmente pericolosa la somministrazione di FMZ in pazienti che presentino (i) anamnesi positiva per assunzione di alte dosi di sostanze ad azione potenzialmente convulsivante, (ii) anamnesi positiva per epilessia o episodi convulsivi di altra natura (specie se in trattamento benzodiazepinico), (iii) insufficienza cerebrale con sintomi di eccitazione (possibile espressione di attività anticolinergica). Nei casi di overdose mista l'impiego del FMZ può costituire un trattamento efficace e sicuro purché la sua somministrazione venga effettuata previa un'attenta ed esperta valutazione del quadro clinico e dei dati circostanziali dell'intossicazione (Weinbroum et al, 1996; Saviuc e Castot, 2000).   Sedazione e insufficienza respiratoria da benzodiazepine in anestesia e analgesia Il FMZ può essere utilizzato per antagonizzare in modo rapido la conscious sedation o l’effetto neurodepressore delle BDZ in anestesia (Whitwam 1995; Williamson et al 1997: Farrell e Roberts, 1998). Questo impiego può essere utile per abbreviare i tempi di recupero nei pazienti sedati con BDZ per interventi chirurgici ambulatoriali o indagini diagnostiche (Grande e Guerra-Narducci, 1991; Lauven e Kulka, 1990; Kirkegaard et al, 1986; Alon et al, 1987; Darragh et al, 1981a; Darragh et al, 1981b; Wolff et al, 1986; Ricou et al, 1986; Jensen et al, 1987; Sage et al, 1987; Rodrigo e Rosenquist, 1987; Raeder et al, 1987; Cooper et al, 1991; Davies et al, 1990; Philip et al, 1990; Restall et al, 1990; Gobeaux e Sardnal, 1990; Carter et al, 1990; Pearson et al, 1990; Birch et al, 1990; Kulka et al, 1990; Farrell e Roberts, 1998; Gross et al 1996; Patat et al 1994; Howland 1998; Oshima et al, 1999; Wille et al, 2000), anche nei bambini con età > di 6 anni (Peters et al, 1999). Il FMZ può risultare utile anche in caso di reazioni paradosse a BDZ (Fulton e Mullen 2000). In terapia intensiva il FMZ può essere impiegato con efficacia per antagonizzare l’amnesia, la sedazione e la depressione respiratoria indotte da BDZ al fine di consentire una valutazione delle funzioni cognitive dei pazienti (Geller et al, 1988a; Curran e Birch, 1991; Gross et al, 1991; McKay et al, 1990; Amrein e Hetzel, 1991; Grande e Guerra-Narducci, 1991). Per entrambe queste indicazioni è raccomandata la somministrazione dell'antidoto a piccoli boli (0,2 mg ogni 30-60 secondi fino al risveglio del paziente o fino a una dose massima di 1 mg) (Wanke, 2000). Nella somministrazione per via rettale nei bambini vengono utilizzate dosi di 0,015-0,040 mg/kg, seguite talvolta da una seconda dose di 0,010 mg/kg dopo 15 minuti (Lopez-Herce et al. 1994; Carbajal et al, 1996) Per l'antagonismo della sedazione postoperatoria sono solitamente sufficienti dosi totali di FMZ comprese tra 0,2 e 1 mg (Wolff et al, 1986; Ricou et al, 1986; Alon et al, 1987; Sage et al,1987; Grande e Guerra-Narducci, 1991). Gli effetti collaterali per somministrazione di dosi fino a 1 mg di FMZ risultano poco frequenti e di scarsa rilevanza clinica (dolore in sede di iniezione, agitazione, ansia), e l'antagonismo della sedazione non è accompagnato da aumento della frequenza cardiaca o da riduzione dell'analgesia. Nella maggior parte dei casi i pazienti così trattati rimangono vigili per un periodo di almeno tre ore, ma nel 3-15% dei pazienti è possibile osservare una risedazione, specialmente quando sono state utilizzate elevate dosi di BDZ (es. > 20 mg midazolam) e quando l'intervento dura più di un'ora (Hennis et al, 1988). In tali casi possono essere necessarie dosi di FMZ più elevate o la ripetizione della somministrazione in bolo (0,2 mg/min. fino a un massimo di 3 mg in un'ora). La durata dell’effetto ottenuto dipende dalla cinetica e dalla dose di benzodiazepina somministrata, e in alcuni casi una depressione centrale di vario grado può ricomparire 1-4 ore dopo la somministrazione del FMZ (Jensen et al, 1987; Darragh et al, 1981b; Kaukinen et al, 1990; Cooper et al, 1991; Davies et al, 1990; Halim et al, 1990; Whitwam, 1990). In tali casi devono essere somministrate dosi di 1 mg di FMZ ogni 20 minuti (frazionate in boli ripetuti di 0,2 mg/minuto) (Wanke, 2000) fino alla comparsa del completo risveglio del paziente. Il FMZ viene utilizzato anche per facilitare lo svezzamento di pazienti sottoposti a ventilazione assistita e trattati con BDZ al fine di ottenere un migliore adattamento alla ventilazione meccanica. Per contrastare la depressione del centro del respiro e l'astenia dei muscoli respiratori è stata utilizzata una dose di 1 mg in bolo seguita da un’infusione di 4 mg in 60 minuti (Kleinberger al, 1985). Recenti studi clinici hanno dimostrato che il risveglio ottenuto con 0,5 mg di FMZ in pazienti sottoposti a ventilazione meccanica e sedati con midazolam non causa reazioni acute da stess, ma solo un limitato incremento del consumo miocardico di ossigeno per aumento dell'attività simpatica per antagonismo della depressione cardiovascolare indotta da midazolam (Kamijo Y et al, 2000). Il FMZ è risultato efficace anche nel contrastare il laringospasmo indotto da somministrazione di midazolam (Davis et al, 1998).   Indicazioni cliniche non accertate o sperimentali del flumazenil Epilessia L'epilessia, soprattutto se in trattamento cronico con BDZ, e tutte le condizione patologiche "epilettogene" rappresentano una controindicazione all'uso del FMZ nel trattamento e nella diagnosi ex adjuvantibus del sovradosaggio da BDZ per la possibilità di scatenare crisi convulsive in pazienti farmacologicamente protetti da BDZ (Spivey, 1992; Wanke, 2000; Ashton, 1985). Osservazioni sperimentali su animali, tuttavia, hanno evidenziato un effetto intrinseco anticonvulsivante del FMZ se somministrato ad alte dosi (Albertson et al, 1982; Nutt et al, 1982; Braestrup et al, 1982; Vellucci e Webster, 1983; Vellucci e Webster, 1984; File, 1984). Anche nell'uomo il FMZ può avere un ruolo nella terapia anticonvulsivante. Una dose di 2,5 mg per via endovenosa o di 50 mg per os è in grado di provocare la scomparsa o la marcata riduzione dell'attività elettroencefalografica di tipo epilettico registrata in pazienti con grande male (Scollo-Lavizzari, 1984). La somministrazione di dosi comprese tra 10 e 90 mg di FMZ per os al giorno, talora in associazione ad altre terapie, si è mostrata efficace nel 70% dei pazienti epilettici non ancora sottoposti ad altri trattamenti e nel 50% dei pazienti già pretrattati con terapie convenzionali (Scollo-Lavizzari, 1988). Altri studi hanno riscontrato un’attività antiepilettica del FMZ alla registrazione elettroencefalografica in pazienti con epilessia refrattaria non responsiva al trattamento convenzionale (Sharief et al, 1993). La capacità del FMZ di indurre convulsioni può essere sfruttata durante il monitoraggio preoperatorio per la localizzazione delle aree epilettogene in pazienti con forme di epilessia intrattabile con terapia medica (Schulze-Bonhage e Elger 2000). Sperimentalmente, la contemporanea somministrazione di BDZ e di FMZ ad alte dosi sembra potenziare l'effetto anticonvulsivante delle benzodiazepine, oltre che ridurre la comparsa di tolleranza a queste ultime (Savic et al, 1991; Schmidt, 1994; Reisner Keller e Pham, 1995).   Intossicazione etanolica Sulla base delle evidenze sperimentali di un'azione dell’etanolo sul complesso recettoriale per il GABA (Cott et al, 1976; Ticku e Burch, 1980; June e Lewis, 1994), è stato ipotizzato che il FMZ sia in grado di antagonizzare l'effetto dell'alcool etilico e possa quindi essere utilizzato come antidoto in questa intossicazione acuta. Segnalazioni su piccoli gruppi di pazienti e studi su volontari sani hanno fatto osservare una riduzione della sintomatologia e una transitoria risoluzione delle alterazioni elettroencefalografiche indotte da etanolo dopo somministrazione di dosi di FMZ comprese tra 0,5 e 10 mg (Scollo-Lavizzari e Matthis, 1985; Klotz et al, 1986; O'Sullivan e Wade, 1987). I risultati degli studi clinici randomizzati e controllati hanno invece confutato tale ipotesi, dimostrando l'inefficacia della somministrazione di FMZ (in dosi comprese tra 0,5 e 13,8 mg per via endovenosa) sia nel migliorare la performance del paziente sia nel modificare il punteggio nel Glasgow Coma Score in caso di intossicazione acuta da etanolo (Fluckiger et al, 1988; Klotz et al, 1986; Clausen et al, 1990; Lheureux e Askenasi, 1991; Howland 2000).   Astinenza da etanolo Il FMZ è stato utilizzato nel trattamento della sindrome da astinenza da etanolo sulla base di un ipotetico coinvolgimento di anomalie dei recettori benzodiazepinici o di un'azione di ligandi endogeni con effetto agonista inverso in tale sindrome. Alcuni sintomi della sindrome da astinenza da etanolo (tremori, sudorazione, nausea, ansia, depressione e irrequietezza), infatti, possono risultare significativamente meno intensi nei pazienti che ricevono flumazenil (0,5 mg ogni 6 ore per 48 ore) rispetto a placebo (Gerra et al, 1991; Nutt et al, 1993).   Encefalopatia epatica L'encefalopatia epatica è una sindrome multifattoriale correlata a una condizione di grave insufficienza epatica; essa può manifestarsi acutamente con una depressione centrale di variabile gravità fino al coma oppure, come spesso avviene nelle epatopatie croniche, con sintomi caratterizzati da bradifrenia, rallentamento dei riflessi e difficoltà nell’apprendimento. Tra i molteplici meccanismi che sottendono al suo instaurarsi, l’ipertono del sistema GABAergico sembra giocare un ruolo fondamentale (Ferenci, 1991); tale conclusione è il frutto di risultati di molteplici studi sperimentali condotti su modelli animali che dimostrano un aumento del numero dei recettori GABAergici (Zeneroli, 1985; Gammal et al, 1990; Baraldi, 1990; Baraldi et al, 1984), un aumento della concentrazione di sostanze endogene con azione benzodiazepino-simile (Skolnick, 1989; Basile et al, 1989; Basile et al, 1991), oppure un'aumentata sensibilità alle benzodiazepine e agli agonisti dei recettori GABA (Jones et al, 1989). In effetti, la somministrazione di un antagonista del recettore per le benzodiazepine ad animali si è rivelato efficace nel produrre un transitorio miglioramento clinico ed elettrofisiologico (Bosman et al, 1991; Steindl et al, 1991). Recenti studi hanno dimostrato anche nell'uomo con encefalopatia epatica cronica stabile di I e II grado (in cirrosi alcool-correlata) una maggiore disponibilità di recettori benzodiazepinici cerebrali (Jalan et al, 2000). Nell’uomo, il FMZ è stato utilizzato con beneficio nel trattamento dell'encefalopatia epatica, nella quale risulta capace di migliorare, seppure in modo variabile e non costante, lo stato di coscienza e i parametri elettroneurofisiologici del paziente (Bansky et al, 1989; Burke et al, 1988; Cadranel et al, 1995; Ferenci et al, 1989; Gammal e Jones, 1989; Grimm et al, 1988a; Grimm et al, 1988b; Klotz e Walker, 1989; Meier e Gyr, 1988; Sutherland e Minuk, 1988; Scollo-Lavizzari e Steinmann, 1985; Farrell e Roberts, 1998; Hoffman e Warren, 1993; Butterworth RF (2000). Anche nel trattamento delle forme "croniche", caratterizzate da sola bradifrenia, il FMZ si è rivelato efficace migliorando i tempi di reazione dei pazienti trattati rispetto ai controlli (Gooday et al, 1995). Sebbene i casi segnalati di inefficacia (Sutherland e Minuk 1988; Marsepoil 1990; van der Rijt et al, 1989) o di irrilevante efficacia (Devictor et al, 1995) siano poco numerosi rispetto a quelli più incoraggianti citati in precedenza, questa indicazione del FMZ non sembra rivestire un grande interesse nella pratica clinica. Ciò dipende in parte dalla fugacità dell'effetto (mediamente meno di un'ora e fino a un massimo di 6 ore) (Scollo-Lavizzari e Steinmann, 1985; Grimm et al, 1988b; Howland 2000), ma, soprattutto, dal fatto che esso modifica solo l'espressione finale dello scompenso di un complesso sistema senza modificarne le cause. Le dosi di FMZ utilizzate nel trattamento dell'encefalopatia epatica variano da 0,5 a 15 mg con una dose bolo seguita da somministrazione di infusione continua per tre ore (Scollo-Lavizzari e Steinmann, 1985; Grimm et al, 1988a; Grimm et al, 1988b). Poiché l’eliminazione del farmaco dipende essenzialmente dal suo metabolismo epatico, essa risulta fortemente diminuita in presenza di gravi epatopatie (van der Rijt et al, 1991); l'aumento dell’emivita plasmatica richiede pertanto di ridurre adeguatamente le dosi di FMZ in questi pazienti, specie quando viene somministrato per boli ripetuti o per infusione endovenosa continua.   Altre intossicazioni da farmaci e sostanze d’abuso Sporadiche segnalazioni della letteratura scientifica hanno riportato l'efficacia del FMZ in casi aneddotici di intossicazioni da farmaci diversi dalle BDZ, e talora in caso di sovradosaggio da miscele di numerosi farmaci. Il FMZ si è rivelato efficace in casi di sovradosaggio da carbamazepina (Martens et al, 1990; Zuber et al, 1988; Farrell e Roberts, 1998), ma il meccanismo attraverso cui tale effetto si esplica non appare ancora chiarito. Il FMZ è risultato in grado di antagonizzare la sedazione indotta da altri farmaci non benzodiazepinici, quali il cloralio idrato (Donovan e Fisher 1989), la cui azione sedativa si pensa mediata dai recettori benzodiazepinici. Tre casi di intossicazione da prometazina sono stati trattati con FMZ (O'Sullivan e Wade, 1987; Plant e MacLeod, 1994); in uno di questi, la somministrazione di 0,5 mg di FMZ ha risolto la depressione centrale indotta dall'errata somministrazione di 200 mg di prometazina (Plant e MacLeod, 1994). L'effetto del FMZ su tale farmaco (derivato fenotiazinico con potente azione sui recettori H1 e dopaminergici) è stato correlato al fatto che la sua azione sedativa sembra, almeno in parte, mediata da un effetto sui recettori benzodiazepinici (Zorumsky e Yang, 1992; Speeg et al, 1981). Il FMZ, invece, risulta efficace a basse dosi (0,2 mg in bolo seguito da infusione di 0,1 mg/ora) nel trattamento del sovradosaggio da zopiclone, un ipnotico ciclopirrolonico che, benché strutturalmente non correlato alle BDZ, ne possiede effetti farmacologici simili (Ahmad et al, 1991; Goa e Heel, 1986; Farrell e Roberts, 1998). L'effetto di tale farmaco si realizza attraverso un aumento dell'azione GABA dipendente da un'azione a livello del complesso recettoriale GABA-benzodiazepine, ma su un sito differente da quello benzodiazepinico e a quest'ultimo legato allostericamente (Brun, 1988; Griffiths et al, 1986). Lo zopiclone sembra legarsi a tali recettori solo a livello cerebrale corticale, cerebellare e ippocampale; non si legherebbe invece ai recettori periferici (Blanchard et al, 1982; Trifiletti e Snyder, 1984; Blanchard et al, 1983; Shibuya e Sato, 1984). Il FMZ risulta efficace anche nel contrastare l’effetto neurodepressore del miorilasaante centrale clorzoxazone, farmaco non benzodiazepinico che può interagire con il recettore delle BDZ (Roberge et al, 1998). Similmente, il FMZ antagonizza l’effetto neurodepressore del carisoprodol, farmaco con effetti analgesico e miorilassante centrali, che, come il metabolita attivo meprobamato, potrebbe agire come agonista indiretto del recettore GABA attraverso effetti sulla conduttanza al cloro simili a quelli delle BDZ (Roberge et al, 2000). In rari casi di interesse pediatrico il FMZ ha antagonizzato la depressione centrale da cannabis (Rubio et al, 1993).   Stupor idiopatico ricorrente Lo "stupor idiopatico ricorrente" è una sindrome caratterizzata da episodi ricorrenti di stupor o coma spontaneo non associato a patologie metaboliche, tossiche o ad anomalie strutturali cerebrali conosciute. Esso sembra invece correlato ad un aumento, da causa non nota, dei livelli di endozepina-4, una benzodiazepina endogena. In questi pazienti, durante gli episodi di stupor o coma, le concentrazioni sieriche e liquorali di endozepina-4 risultano circa 300 volte superiori a quelle di individui normali (Rothstein et al, 1992b; Montagna et al, 1995; Tinuper et al, 1992; Tinuper et al, 1995). La sindrome è stata descritta in pazienti in buono stato di salute e di età compresa fra 18 e 67 anni. Gli episodi si presentano in modo imprevedibile e possono durare da due ore a cinque giorni; la loro frequenza varia da meno di uno all'anno fino a 2-3 per settimana, e in alcuni casi possono scomparire spontaneamente dopo 1-6 anni di malattia (Rothstein et al, 1992b; Tinuper et al, 1992). Durante gli episodi non si riscontra mai compromissione delle funzioni vitali: la respirazione è spontanea e regolare, sono presenti ipotonia muscolare e miosi, e i pazienti sono in genere risvegliabili (ma per un periodo breve) con stimolazioni tattili, verbali o dolorose. La somministrazione di 0,4-2 mg di FMZ determina immediato risveglio del paziente accompagnato da comparsa di tracciato di veglia alla registrazione EEGrafica (Rothstein et al, 1992b; Tinuper et al, 1992); l'effetto del FMZ svanisce dopo 20-40 minuti se non vengono effettuate ulteriori somminisrazioni.   Apnea notturna, apnea ostruttiva postoperatoria e riflessi delle vie aeree superiori Le BDZ aumentano il numero e la gravità degli episodi ostruttivi nei pazienti con apnea ostruttiva notturna a causa dell’effetto inibitorio sull’attività del muscolo genioglosso (Leiter et al, 1985). Quando usate in anestesia, esse (es. midazolam) possono essere causa ostruzione delle vie aeree superiori nel post-operatorio per effetto sul tono dei muscoli faringei (Dhonneur et al, 1999; Oshima et al, 1999). Questi effetti possono essere contrastati dal FMZ (Schonhofer e Kohler 1996). Il FMZ contrasta la depressione indotta da BDZ sui riflessi delle vie aeree superiori (Murphy et al 1994; Negus e Street 1994).     Controindicazioni, precauzioni, effetti collaterali e interazioni farmacologiche del flumazenil La somministrazione di flumazenil è controindicata nei pazienti con nota ipersensibilità al farmaco o alle BDZ e nei pazienti in trattamento con BDZ per il controllo delle convulsioni e dell'aumento della pressione intracranica (Wanke, 2000; Chiolero et al, 1988; Mastronardi, 1992). Tra gli effetti indesiderati da somministrazione di FMZ, il rischio di convulsioni per spiazzamento delle BDZ dai loro siti di legame è sicuramente il più temuto e accomuna situazioni differenti nelle quali il farmaco deve essere utilizzato con cautela: queste comprendono le intossicazioni miste (con sostanze potenzialmente convulsivanti), le lesioni cerebrali (ove sussiste anche il rischio di un’alterazioni del flusso ematico cerebrale), e una positività anamnestica per episodi convulsivi (soprattutto nei pazienti in trattamento cronico con BDZ). La prevalenza di convulsioni dopo somministrazione di FMZ è bassa anche in pazienti che abusano di BDZ o alcool (Spivey et al, 1993), ma può avere esito letale (Spivey, 1992: Haverkos et al, 1994) e accadere nei bambini (McDuffee e Tobias, 1995). Su circa 3500 pazienti trattati nei trials clinici, vengono riportati 37 casi di convulsioni correlate all’uso di FMZ, la maggioranza dei quali in pazienti in trattamento anticonvulsivante (12 casi), con intossicazioni miste da sostanze convulsivanti (20 casi), dipendenza da BDZ (3 casi). I 6 casi letali si sono verificati in pazienti affetti da una sottostante patologia convulsiva o in intossicazioni miste, per dosi di FMZ comprese tra 2 e 10 mg in bolo per via endovenosa (Wanke, 2000). Le convulsioni, in ogni caso, non rappresentano l’espressione di un’attività intrinseca del flumazenil, ma un rischio legato alla presenza di altri fattori pro-convulsivanti (sostanze assunte o condizioni patologiche preesistenti o concomitanti) (Ng et al, 1994; Spivey, 1992; Farrell e Roberts, 1998). Si tratta pertanto di un’evenienza evitabile attraverso un’adeguata selezione dei pazienti da trattare e l’uso di piccole dosi di FMZ (non superiori a 1 mg) (Spivey et al, 1992); le convulsioni da FMZ rispondono in genere a trattamento con BDZ (Geller et al, 1991c). Nei pazienti in trattamento cronico con BDZ, nei quali si può instaurare una dipendenza da tali farmaci, il FMZ può precipitare una sindrome da astinenza (tabella 4) (Kulka e Lauven, 1992; Wanke, 2000; Farrell e Roberts, 1998; Mintzer et al, 1999); intensa agitazione è stata osservata anche in un caso di overdose da lorazepam trattato con 1 mg di FMZ e che non presentava una storia di abuso da BDZ (Lopez e Rebollo, 1990). La capacità del FMZ di precipitare sindrome d’astinenza può essere limitata se non si supera la dose di 1 mg poiché questa dose lascia liberi circa il 50% dei recettori benzodiazepinici (Persson et al, 1989). Il trattamento della sindrome da astinenza richiede una sedazione con BDZ o barbiturici (Kulka e Lauven, 1992; Wanke, 2000). La somministrazione di flumazenil può scatenare un attacco di panico nei pazienti affetti da tale patologia (Wanke, 2000; Nutt et al, 1990; Woods et al, 1991). Gli effetti collaterali più comunemente osservati nei trials clinici (Wanke, 2000; Zuurmond et al, 1989; Riishede et al, 1988; Breimer et al, 1988; Winckler et al, 1988; Wolff, 1988; Merry et al, 1988; Prischl et al, 1988) sono rappresentati da nausea e vomito (incidenze variabili dal 6% al 16 %); può comparire vasodilatazione cutanea con sudorazione, rossore e vampate calde. A carico del sistema nervoso centrale gli effetti secondari sono rappresentati da vertigini (1,07% dei casi) e, in genere con incidenza inferiore all'1%, amnesia, irritabilità, confusione, depressione, euforia, paura, allucinazioni, astenia, cefalea, sensazione di freddo, brividi, ansia, tremori; agitazione, eccitazione e irrequietezza. Gli effetti collaterali a carico del sistema cardiovascolare sono più rari (incidenza 0,9%) e sono caratterizzati principalmente da aritmie cardiache, bradicardia, tachicardia, ipotensione, ipertensione con dolore toracico (Geller et al, 1991c; Howland, 2000). È stato riportato un caso di aritmia ventricolare in un paziente che ha ricevuto FMZ per un'intossicazione da cloralio idrato (Short et al, 1988). Sono stati inoltre descritti sintomi locali quali dolore all’iniezione (Claeys et al, 1988; Dunton et al, 1988; Breimer et al, 1988). Il singhiozzo è stato riscontrato raramente (Dunton et al, 1988), e non sono invece state riportate alterazioni ematologiche (Wanke, 2000). Tabella 4. Sindrome di astinenza da benzodiazepine SEGNI E SINTOMI PSICHICI delusione paranoia depersonalizzazione depressione agorafobia insonnia ansia confusione disorientamento temporo-spaziale panico allucinazioni delirio "craving" anoressia SEGNI E SINTOMI SOMATICI cefalea parestesie dolori diffusi scosse miocloniche tremori ipertono muscolare atassia anomalie visive tinnitus nausea, vomito ipertermia convulsioni SEGNI STRUMENTALI (EEG) anomalie diffuse aumento della fase REM Nota 1: farmaci (i) che hanno mostrato un effetto teratogeno o embriocida nell'animale, ma per i quali non esistono studi controllati nelle donne, oppure (ii) per i quali non esistono studi disponibili sia nell'animale che nell'uomo Nota 2: farmaci che sono stati assunti solo da un limitato numero di donne incinte e donne in età fertile senza che siano stati osservati un aumento della frequenza di malformazioni o altri effetti pericolosi diretti e indiretti sul feto. Studi in animali hanno mostrato evidenza di un aumento di danno fetale il cui significato è considerato incerto nell’uomo. Agli abituali dosaggi terapeutici, il FMZ non causa significative alterazioni dei parametri emodinamici o respiratori in pazienti con cardiopatia ischemica: non sono pertanto necessarie particolari precauzioni o variazioni posologiche in questi pazienti (Croughwell et al, 1990; Geller et al, 1991a; Geller et al, 1991b). Il FMZ è classificato dalla casa produttrice nella categoria C del FDA Pregnancy Category (Nota 1) (FDA, 1982) e nella categoria B3 della Australian Drug Evaluation Committee (ADEC 1996).   Interazioni farmacologiche La contemporanea somministrazione di BDZ e del FMZ non ne modifica le rispettive cinetiche (Darragh et al, 1982; O'Boyle et al, 1983; Doem e Unger, 1988; Klotz et al, 1985b; Klotz et al, 1985a; Wala e Sloan, 1995). L'etanolo, invece, prolunga la durata dell’effetto del flumazenil ma non ne ritarda l’inizio (Baehrendtz e Hojer, 1988). Uno studio controllato in doppio cieco verso placebo in campo anestesiologico ha inoltre dimostrato che il FMZ diminuisce la durata dell'effetto del tiopentone (intervallo di tempo tra somministrazione di tiopentone e primo movimento), ma non quella del propofol (Fassoulaki et al, 1993).     ALTRI ANTAGONISTI DELLE BENZODIAZEPINE Varie molecole di sintesi, utilizzate principalmente nella ricerca preclinica, mostrano attività antagonista (reversibile o irreversibile) per il recettore benzodiapenico. Fra queste merita particolare interesse il RO 15-4513, una imidazobenzodiazepina strutturalmente analoga al flumazenil che è stata ampiamente utilizzata negli studi di affinità al recettore delle BDZ, al quale si lega in modo reversibile (Sieghart et al, 1987). Il RO 15-4513 ha stimolato l'attenzione dei ricercatori dopo la segnalazione che la molecola era in grado di antagonizzare, sperimentalmente, alcuni effetti neurochimici, comportamentali ed elettrofisiologici dell'etanolo (Suzdak et al, 1986). Tali dati fecero supporre il possibile sviluppo di una molecola con effetto specifico di "antagonista dell'alcool etilico". Numerosi studi in vitro e in vivo hanno valutato i meccanismi attraverso i quali questa molecola, con caratteristiche di agonista parziale inverso (a bassa efficacia) dei recettori benzodiazepinici risulta in grado di antagonizzare gli effetti centrali dell'etanolo (Lister e Nutt, 1987) e il danno gastrico (Naijim e Karim, 1993). Il RO 15-4513 ha mostrato di possedere un'alta affinità per il recettore, e di essere in grado di antagonizzare gli effetti depressori delle BDZ e, in parte, anche di barbiturici ed etanolo (Bonetti et al, 1988). Esso tuttavia non protegge dagli effetti letali dell'etanolo negli animali di laboratorio e quindi non sembra poter essere di beneficio nel caso di intossicazioni con livelli potenzialmente letali di etanolo nell'uomo (Nutt et al, 1988) ed è un proconvulsivante (Lister e Nutt, 1987; Bonetti et al, 1988). Oltre a ciò, non appare etico rendere disponibile un farmaco in grado di antagonizzare gli effetti comportamentali dell'etanolo inducendo una sensazione di sobrietà in soggetti intossicati. Tale effetto, peraltro transitorio, potrebbe infatti consentire di intraprendere attività che richiedano un elevato livello di concentrazione (es. guida di veicoli) e consentire l'ulteriore assunzione di alcool. Inoltre, il Ro 15-4513 non esercita un'attività antagonista nei confronti dei meccanismi che sottendono all'istaurarsi dei molteplici danni organici associati all'abuso cronico di alcool (lesioni neurologiche, epatopatie ecc.). Il Ro 15-4513 potrebbe avere un ruolo nei trattamenti tendenti a ridurre il consumo cronico di alcool qualora si dimostrasse in grado di bloccare in modo completo le sue proprietà stimolanti; se il blocco non risultasse completo, infatti, il consumo di alcool potrebbe aumentare, come dimostrato per soggetti trattati con basse dosi di antagonisti di altre sostanze di abuso (Goldberg et al, 1971; Yokel e Wise, 1976). Recenti studi sembrano indicare la necessità di un intervento polifarmacologico per meglio di antagonizzare i molteplici effetti tossici dell'alcool (Elmer e George, 1995). Informazioni sulla rivista ESIA-Italia EDUCATIONAL SYNOPSES IN ANESTHESIOLOGY and CRITICAL CARE MEDICINE - Italia costituisce la parte Italiana della versione Americana, pubblicata su Internet da Keith J Ruskin, Professore di Anestesia alla Università di Yale. I lavori saranno accettati sia in lingua Italiana che Inglese. In quelli di lingua Italiana un corposo riassunto in Inglese verrà preparato dalla redazione, qualora l'autore non fosse in grado di fornirlo. A cura della redazione sarà inoltre la traduzione in Italiano dei manoscritti inviati in lingua Inglese. La rivista sarà inviata gratuitamente a tutti quelli che ne faranno richiesta, inviando il seguente messaggio "Desidero ricevere ESIA versione italiana" indirizzato a LANZA@UNIPA.IT La rivista pubblica rewiews e lavori originali compiuti nei campi dell'anestesia e della medicina critica. I lavori originali riguardano ricerche cliniche, di laboratorio e la presentazione di casi clinici. Le reviews includono argomenti per l'Educazione Medica Continua (EMC), articoli di revisione generale o riguardanti le attrezzature tecniche. ESIA pubblica le lettere all'Editore contenenti commenti su articoli precedentemente publicati ed anche brevi comunicazioni. La guida per gli autori può essere consultata collegandosi al sito ANESTIT all'indirizzo: http://anestit.unipa.it/ utilizzando la sezione riservata ad ESIA-Italia; oppure può essere richiesta inviando un messaggio a lanza@unipa.it EDUCATIONAL SYNOPSES IN ANESTHESIOLOGY and CRITICAL CARE MEDICINE Sezione Italiana Il numero della rivista è anche ottenibile attraverso World-WideWeb WWW: l'URL per questo numero di ESIA è: http://anestit.unipa.it/esiait/esit200306.txt Il nome della rivista è esitaaaamm, dove aaaa è l'anno ed mm il mese (per esempio questo numero è esit200306.txt) LA REDAZIONE DI ESIA ITALIA DIRETTORE: Vincenzo LANZA Primario del Servizio d'Anestesia e Rianimazione Ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli Palermo LANZA@UNIPA.IT Terapia Intensiva Antonio Braschi Primario del Servizio d'Anestesia e Rianimazione 1 - Policlinico S. Matteo - IRCCS Pavia Anestesia Cardiovascolare Riccardo Campodonico Responsabile dell'Unità di Terapia Intensiva Cardiochirurgica - Azienda Ospedaliera di Parma ricrob@mbox.vol.it Anestesia e malattie epatiche Andrea De Gasperi Gruppo trapianti epatici / CCM - Ospedale Niguarda - Milano Medicina critica e dell'emergenza Antonio Gullo Professore di Terapia Intensiva - Direttore del Dipartimento di Anestesia e Terapia Intensiva -Università di Trieste Anestesia ed informatica Vincenzo Lanza Primario del Servizio d'Anestesia e Rianimazione - Ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli - Palermo Tossicologia Carlo Locatelli Direttore del Centro di Informazione Tossicologica Centro antiveleni di Pavia - Fondazione Scientifica "Salvatore Maugeri Clinica del Lavoro e della Riabilitazione"- Pavia Terapia Antalgica e Cure Palliative Sebastiano Mercadante Responsabile dell' Unità d'Anestesia e di Terapia del Dolore e Cure Palliative - Dipartimento Oncologico La Maddalena - Palermo terapiadeldolore@la-maddalena.it