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COMPLICANZE CARDIACHE PERIOPERATORIE
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G. Hartstein


I. INTRODUZIONE

A. Incidenza, Impatto, Definizioni

I progressi recenti della pratica anestesiologica moderna hanno permesso, da un lato, una riduzione importante nell'incidenza degli accidenti anestesiologici spesso associati a morbidità e mortalità elevati (intubazione esofagea, deconessione, sovradosaggio in alogenati, ipertermia maligna, etc.) e dall'altro hanno permesso ai chirurghi di realizzare interventi sempre più aggressivi in pazienti portatori di patologie via via più severe.
Malgrado questi progressi, le complicanze cardiache perioperatorie (CCP) restano una fonte di morbidità e mortalità considerevole. Si stima che la metà dei decessi perioperatori sia legata a CCP. Nella maggior parte dei lavori su questo argomento sono considerati CCP: gli infarti del miocardio perioperatori (IMP), l'angina instabile, lo scompenso cardiaco acuto, le aritmie maligne (tachicardia e fibrillazione ventricolare, TV e FV). Il periodo perioperatorio è spesso definito dall'inizio dell'intervento sino alla fine della prima settimana. Tuttavia gli studi recenti allargano questo periodo e ricercano le conseguenze della CCP sino a due anni dopo l'ingresso in sala operatoria.

Il gruppo più a rischio di sviluppare CCP è quello che soffre di patologia aterosclerotica coronarica. E' difficile dare delle cifre esatte sull'incidenza delle CCP. La diagnosi di IMP, ad esempio, necessita di tecniche molto sofisticate perché la maggior parte di questi infarti sono silenti e spesso sottoendocardici. L'ischemia miocardica perioperatoria è quasi sempre silente e senza un monitoraggio in continuo del tratto ST è quasi impossibile metterla in evidenza. Lo stesso vale per le aritmie maligne che sono raramente accompagnate da sintomi.

Per ciò che riguarda l'IMP, l'incidenza nella popolazione generale (in chirurgia non cardiaca) varia tra 0 e 0.7%. Nei pazienti coronarici tale incidenza sale all'1.1%. In un paziente con infarto che data più di sei mesi, molti studi sono in accordo su un rischio di reinfarto intorno al 5%. Se l'infarto è avvenuto prima dei sei mesi il rischio è del 27% nei primi tre mesi, dell' 11% tra tre e sei mesi. Queste cifre sono state però contestate, come vedremo più avanti.
L'incidenza di scompenso cardiaco perioperatorio varia tra il 3.7% ed il 6.5%. Per le aritmie maligne, bisogna sottolineare che pochi studi distinguono le aritmie nuove da quelle insorte su un'aritmia preesistente perché necessiterebbe di un monitoraggio di tipo Holter per il periodo pre e post-operatorio. Si stima che la severità delle aritmie ventricolari aumenti nel 10% dei pazienti durante il periodo postoperatorio.
La conseguenze delle CCP vanno al di là dei numeri di giorni di ricovero supplementari e del numero di decessi postoperatori. In effetti uno studio recente mostra che i pazienti che sono sopravvissuti ad un IMP hanno un'incidenza 20 volte maggiore di complicanza cardiaca nei due anni successivi l'evento chirurgico. I pazienti che non hanno avuto un infarto ma un episodio ischemico hanno un rischio doppio. Questo significa sia che le CCP, e soprattutto l'ischemia miocardica postoperatoria, evidenziano dei processi che minacciano la vita dei pazienti durante gli anni che seguono l'intervento ed inoltre che sono dei markers di severità della malattia. In ogni caso possiamo supporre che tutte le misure prese soprattutto a prevenire piuttosto che a trattare le CCP saranno efficaci nel prevenire questa morbidità e mortalità ritardata.

B. Cenni storici

Tracciando le grandi linee storiche dei lavori che hanno studiato l'incidenza delle CCP si constata che la maggior parte degli studi sono consacrati all'identificazione dei pazienti a rischio e alla stratificazione dei pazienti in gruppi ad alto, medio e basso rischio. Gli antecedenti di infarto miocardico sono stati identificati come un fattore importante per l'incidenza di CCP negli anni '30. Nel corso dei quattro decenni successivi, ricercatori ed epidemiologi, utilizzando delle tecniche statistiche sofisticate, hanno elaborato degli indici multifattoriali di rischio di CCP. Nel 1977, Goldman e coll. hanno pubblicato il Multifactorial Cardiac Risk Index. Hanno identificato 9 fattori influenzanti l'incidenza di complicazioni cardiache. Questi fattori possono essere divisi in 3 gruppi: quelli dipendenti dall'anamnesi e dall'esame clinico, quelli individuati dagli esami complementari, e quelli messi in rapporto con la chirurgia prevista. Goldman dà a ciascun fattore un valore, in funzione della sua importanza, nella determinazione del rischio (Tavola 1). Dopo la somma dei punti lo score totale permette una classificazione dei pazienti in 4 gruppi. Possiamo notare che poco dei fattori "Goldman" sono suscettibili di essere modificati in vista di un intervento chirurgico. Dopo questo studio altri ricercatori hanno modificato l'indice di Goldman per migliorare il suo valore predittivo.

Lo sviluppo di tecniche di esplorazione cardiaca per mezzo di radioisotopi, dell'elettrocardiografia di stress miocardico (esercizio, dobutamina, dipiridamolo) e del monitoraggio dell'ECG sec. Holter ha fornito ai ricercatori dei nuovi strumenti per la stratificazione dei pazienti. In molti casi però resta ancora da definire la validità statistica e dunque le indicazioni di questi esami complementari nell'inquadramento del paziente. Negli anni 80 la natura dinamica delle modificazioni fisiologiche subite dal paziente durante il periodo operatorio è stato riconosciuto come un fattore potenziale di CCP. Più recentemente è stato studiato il periodo postoperatorio. In effetti sembra che siano proprio gli stress vissuti dal paziente durante questo periodo all'origine degli accidenti cardiaci.

A lato di un grande numero di studi che valutano il rischio perioperatorio, vi è una assoluta carenza di dati di letteratura riguardanti l'influenza delle manipolazioni (pre, intra e post-operatorie) sull'incidenza delle CCP. Questi studi sull" outcome" sono recenti ma rappresentano la via dell'avvenire.

C. Qualche nozione statistica

La sensibilità rappresenta nel contesto delle CCP, la percentuale dei pazienti che presentano delle CCP che hanno un test predittivo positivo. La specificità è definita come la percentuale dei pazienti non aventi delle complicanze che hanno un test predittivo negativo. Il valore predittivo positivo è il numero dei test positivi corrispondenti al numero delle complicanze, mentre il valore predittivo negativo è il numero dei tests negativi corrispondenti ad una evoluzione senza complicanze. Un valore elevato di questo parametro comporta che un test negativo rappresenti veramente l'assenza di rischi di complicanze.

II. DIAGNOSI DEL RISCHIO

L'interesse di determinare il rischio che presenta un paziente di essere vittima di una CCP è tripla. Intanto, se il rischio è estremamente elevato, la decisione stessa di operare può essere messa in discussione, a favore di un'opzione terapeutica più conservatrice. Inoltre, una tale stratificazione permette di ottimizzare lo stato del paziente in funzione dei fattori di rischio che esso presenta. Finalmente questo permette un'utilizzazione razionale delle tecniche di riduzione del rischio (monitoraggio, piano anestetico, ricovero in terapia intensiva).

TAVOLA I - Indice multifattoriale di rischio cardiaco


A. Periodo preoperatorio

1. Anamnesi ed esame clinico
a. Scompenso cardiaco - La presenza di scompenso cardiaco aumenta il rischio di CCP. Ricordiamo lo score importante attribuito da Goldman alla presenza di due segni di scompenso, la presenza di un terzo tono cardiaco, ed una distensione giugulare. Antecedenti di edema polmonare o dispnea di grado IV (NYHA) sono degli altri fattori importanti. L'utilizzazione di un derivato digitalico sembra essere associato ad un rischio elevato. E' probabile che un trattamento efficace riduca il rischio in questi pazienti scompensati.

b. Antecedenti di infarto miocardico - La nozione di infarto è uno dei fattori più solidi nella valutazione del rischio. Il tempo trascorso tra l'infarto e la chirurgia è cruciale; in effetti, nei prime tre mesi il rischio di reinfarto varia tra 27 e 37% (con una mortalità tra il 50 ed il 70%). Dopo 6 mesi il rischio si stabilizza al 5%. Gli studi di Rao e colleghi ha rapportato dei tassi di reinfarto nettamente inferiori (5.7% entro tre mesi, 2.3% da 4 a 6 mesi, 1% dopo i 6 mesi) da loro attribuiti ad un monitoraggio emodinamico aggressivo ed a un intervento farmacologico tendente a normalizzare qualsiasi perturbazione dell'omeostasi. Questi risultati non sono stati ancora prodotti da altri autori. La questione di sapere se la topografia dell'infarto o il suo spessore (transmurale o sottoendocardico) modifichino il rischio, resta controverso.

c Angina pectoris
E' un fattore di rischio di CCP però se si considera che almeno il 75% degli episodi d'ischemia miocardica sono silenti, si comprende bene la difficoltà di mettere in evidenza il legame tra l'angor ed il rischio. Eagle considera l'angina pectoris come uno dei fattori di rischio di CCP.

d Età
l'età avanzata può logicamente essere considerato come un fattore di rischio. Infatti i pazienti con più di 70 anni ricevono 5 punti nell'indice di Goldman. L'età fisiologica avanzata, stimata per l'incapacità di aumentare la frequenza cardiaca al di sopra di 99 b/min durante 2 minuti di test da sforzo, aumenta il rischio di CCP.

e Ipertensione arteriosa
Benché l'ipertensione sia un fattore di rischio di instabilità perioperatoria, un'associazione diretta con le CCP non è stata dimostrata. L'ipertensione è però un fattore predittivo di ischemia miocardica postoperatoria, essa stessa fattore di CCP.

f Diabete
Il diabete è un fattore di rischio di CCP. Esso aumenta il rischio di malattia coronarica ed è associato allo sviluppo di cardiomiopatia. Il ruolo di controllo metabolico "stretto" così come l'esistenza di una differenza di rischio tra i diabetici insulino- e non insulino-dipendenti deve essere determinato.

g Tabacco
Il fumo influenza sfavorevolmente diversi aspetti dell'equilibrio tra trasporto e consumo di ossigeno a livello miocardico. Malgrado questa associazione un legame tra tabagismo e CCP deve essere dimostrata. L'utilizzazione del tabacco è considerata per Mangano e colleghi come un fattore di rischio di presenza di malattia coronarica.

h Valvulopatia
Allo stato attuale delle nostre conoscenze, solo la stenosi aortica sembra essere associata ad un aumento del rischio di CCP. La stenosi aortica "importante" vale 3 punti nell'indice di Goldman.

i Malattia vascolare periferica
Il paziente portatore di malattia vascolare periferica è ad alto rischio di CCP. I lavori di Hertzer hanno dimostrato che tra il 14% (malati senza segni di danno cardiaco) ed il 78% ( pazienti presentanti dei segni di coronaropatia) dei paz. in programma operatorio per un intervento vascolare hanno delle stenosi significative (>70%) di almeno una coronaria. Il ruolo degli esami complementari nella preparazione dei pazienti con patologia vascolare sarà affrontata nel paragrafo successivo.

2. Esami complementari
La decisione di utilizzare un esame complementare per definire il rischio presentato dal paziente sottoposto ad intervento chirurgico non cardiaco dipende dal rendimento del test in questione. Devono essere tenuti nel conto il tasso di falsi positivi, falsi negativi, il costo, e le eventuali complicazioni ed effetti secondari dell'esame.

a ECG standard
L'incidenza di ECG preoperatori anormali può raggiungere il 70%. Goldman assegna ad un ritmo non sinusale, come la presenza di extrasistoli sopraventricolari o più di 5 extrasistoli ventricolari per minuto, 7 punti. Sembra che la presenza di anomalie del tratto ST e/o dell'onda T o una turba di conduzione intraventricolare siano associate ad un rischio elevato di CCP. L'ipertrofia ventricolare sinistra è un fattore di rischio di ischemia miocardica postoperatoria e dunque di CCP.

b ECG da sforzo
Il ruolo dell'ECG da sforzo nella stratificazione del rischio, è controverso. E' probabile che esami altamente positivi (variazione del tratto ST caratteristiche, immediate, > di 2.5mm, di lunga durata ed associate ad una caduta della pressione arteriosa) definiscano un gruppo di pazienti ad alto rischio. Il paziente vascolare può non essere capace di terminare un protocollo di esercizio ergometrico. Sono stati infatti proposti, per questi pazienti, altri esami.

c ECG sec. Holter
La registrazione in continuo dell'ECG permette di diagnosticare degli episodi di sotto e sopra slivellamento del tratto ST. E' probabile (ma non formalmente dimostrato) che questi episodi rappresentino dei periodi di ischemia miocardica. Raby e al. hanno dimostrato che il 18% di 176 pazienti vascolari presentano degli episodi di ischemia miocardica nelle 48 ore preoperatorie. Soltanto un paziente che non aveva avuto ischemia preoperatoria ebbe una CCP. Il valore predittivo negativo è dunque molto elevato (99%). Questo esame possiede il vantaggio di non essere troppo costoso. Tuttavia, alcuni pazienti non possono approfittare di questa modalità di monitoraggio. Così quelli portatori di blocco di branca sinistra, di ipertrofia del ventricolo sinistro con sovraccarico, di pacemaker, con anomalie di ripolarizzazione o impregnati di digitale hanno dei segmenti ST-T difficilmente interpretabili.

d Frazione di eiezione
La determinazione della frazione di eiezione (con scintigrafia, ventricolografia, per ecocardiografia) aiuta a stratificare il rischio di CCP. Una frazione <0.35 è associata ad un rischio elevato di complicanze. Tuttavia, il valore predittivo negativo è basso, non potendo escludere una CCP in un paziente con frazione di eiezione normale.

e Scintigrafia al dipiridamolo-tallio
La vasodilatazione coronarica intensa provocata dall'iniezione intravenosa di dipiridamolo può essere utilizzata nei pazienti vascolari incapaci di effettuare un test da sforzo adeguato. Di regola solo le zone normalmente perfuse si dilateranno lasciando dei "buchi" al tallio nelle zone dipendenti da arterie coronarie stenosate. Una redistribuzione del tallio nelle immagini tardive evidenzia una zona a rischio di ischemia, mentre la persistenza di una mancanza di riempimenti identifica una zona di cicatrice. L'utilizzazione più razionale della scintigrafia al dipiridamolo-tallio unisce dei parametri clinici in un algoritmo per determinare quali pazienti beneficeranno dell'esame. Sono stati definiti come fattori di rischio : età>70, diabete, onde Q all'ECG, angina pectoris, ed aritmia ventricolare. In assenza di criteri clinici, il rischio è talmente basso che non è indicato l'esame. In presenza di 3 o più criteri, il rischio di CCP è molto alto, per cui la scintigrafia non apporta alcuna informazione supplementare. In presenza di uno o più criteri la scintigrafia permette di stratificare meglio i pazienti In effetti, in assenza di ridistribuzione del tallio, il rischio di CCP è relativamente basso (valore predittivo negativo di 96,8%).

f Altro
Una captazione polmonare di tallio anormalmente elevata sembra definire un gruppo di pazienti ad alto rischio di complicanze cardiache. Questa captazione anormale sembra essere in rapporto con una defaillance ischemica del ventricolo sinistro. Il ruolo dell'ecocardiografia da stress, provocata sia dalla dobutamina che dal dipiridamolo non è stata studiata nel contesto della valutazione del rischio di CCP nella chirurgia non cardiaca.

B. Periodo intraoperatorio

Le perturbazioni fisiologiche che intervengono durante il periodo intraoperatorio (attivazione del sistema ortosimpatico, anemia, modificazione dell'ossigenazione, transfert volemici, etc.) sono capaci, teoricamente, di alterare l'equilibrio tra il rilascio ed il consumo di O2 a livello miocardico e di provocare così un'ischemia. La scelta della tecnica di anestesia non sembra influenzare il rischio di CCP. Esistono alcune controversie e situazioni speciali. Le rachianestesie per le resezioni transuretrali della prostata sono associate ad un tasso di reinfarto più basso che dopo anestesia generale (Steen et al.). Anche gli studi di Yeager et al. e di Goldman sottolineano, in pazienti scompensati, una minore incidenza di CCP dopo anestesia loco-regionale. Questi studi sono soggetti a molte critiche sul piano metodologico. La questione concernente l'utilizzazione di isoflurano e l'importanza di un eventuale "furto" coronarico non è ancora risolta, ma l'effetto clinico non è probabilmente molto marcato. La chirurgia vascolare, intratoracica e addominale alta sono quelle associate ad un tasso elevato di CCP. Una durata d'intervento superiore alle 3 ore è un ulteriore fattore di rischio di CCP, così come gli interventi di urgenza.

L'ipertensione arteriosa intraoperatoria non sembra predire il sopraggiungere di CCP, benchè la questione sia ancora controversa. Bisogna segnalare come gli effetti dell'ipertensione, sui parametri di consumo e rilascio di ossigeno a livello miocardico, dipendano intimamente dalla funzione ventricolare; questo potrebbe spiegare una parte delle differenze notate in letteratura.

L'ipotensione intraoperatoria è predittiva di CCP. I criteri che definiscono l'ipotensione sono differenti da studio a studio; spesso una caduta maggiore del 20% rispetto ai valori preoperatori o di 30mmHg per più di 10 min. è ritenuta una ipotensione significativa. La tachicardia è spesso associata allo sviluppo di ischemia intraoperatoria, soprattutto se si accompagna ad ipotensione. Un rapporto con CCP dunque esiste.

Nel contesto della chirurgia cardiaca si è visto che negli interventi di rivascolarizzazione miocardica, un'ischemia intraoperatoria triplica il rischio di infarto postoperatorio. La diagnosi di ischemia in sala operatoria viene posta con l'ECG (con o senza analisi automatica del tratto ST), con l'ecocardiografia e talvolta con il catetere di Swan-Ganz. Le derivazioni più sensibili sono V5 (75% episodi di ischemia), V4 (61%) e V6 (37%). Combinando le derivazioni la sensibilità è migliorata: V4+V5 (90%), D2+V4+V5 (96%). L'aggiunta di derivazioni V2 e V3 aumenta la sensibilità al 100%. Anche se le anomalie segmentarie di contrattilità viste con l'ecocardiografia precedono un sottoslivellamento dell'ST, l'utilizzazione di questa tecnica nel periodo intraoperatorio in chirurgia non cardiaca per la stratificazione del rischio di CCP non sembra destinata a diventare tecnica di routine. Stesso discorso vale per l'ECG a 12 derivazioni. In chirurgia non cardiaca sembra che vi sia una associazione tra ischemia intraoperatoria e CCP.

C. Periodo post-operatorio

Così come il periodo intraoperatorio, il periodo post-operatorio costituisce teoricamente un grande stress per il paziente a rischio di CCP. Il dolore, il transfert di liquidi e le modificazioni respiratorie ed emostatiche sono fattori di rischio per lo sviluppo di complicanze cardiache. Curiosamente è stato necessario attendere il 1990 e gli studi del gruppo di Mangano per avere una idea chiara sul rischio reale. Questi ricercatori, utilizzando la registrazione continua dell'ECG (due derivazioni) per una settimana dopo l'intervento hanno evidenziato un'ischemia postoperatoria nel 41% dei pazienti ad alto rischio di malattia coronarica. Questi episodi erano più severi (come profondità del sottoslivellamento) e più prolungati di quelli visti nel periodo pre ed intraoperatorio. L'incidenza di una tale ischemia aumenta le possibilità di subire una CCP per un fattore di 2,8x. La probabilità di una complicanza ischemica (morte, infarto, angor instabile) era aumentato di 9,2x. Da notare che il 97% di questi episodi erano silenti. La preponderanza dell'ischemia silenziosa nel postoperatorio può essere dovuto agli effetti residui degli anestetici, e degli analgesici somministrati.
I fattori patogenetici di questa ischemia postoperatoria non sono chiari tanto più che solamente il 23% di questi episodi erano accompagnati da un aumento del 20% della frequenza cardiaca nei 10 min. che precedono l'episodio e che solamente il 30% erano preceduti da modificazioni della pressione arteriosa. Tuttavia , la frequenza cardiaca media era più elevata nel periodo post-operatorio (74 vs 90bpm). Questa tachicardia relativa sembra importante nella genesi dell'ischemia. Se è vero che la maggior parte degli episodi si verificano nei primi 3 gg. postoperatori, altri vengono registrati sino ad una settimana; l'associazione con CCP resta valida anche per questi episodi relativamente lontani dall'intervento. Nella serie studiata esiste un legame interessante tra il rischio di tachicardia ventricolare postoperatoria e l'utilizzazione dei derivati digitalici nel preoperatorio. Responsabile di questa associazione sarebbe la fluttuazione del potassio.
La "solidità" del legame tra l'ischemia postoperatoria e le CCP solleva un problema di rapporto costo/beneficio. In effetti l'applicazione dell'ECG a due derivazioni in continuo con analisi del tratto ST a tutti i pazienti a rischio (7 milioni negli USA) implicherebbe una spesa enorme. Due questioni si pongono:

1. l'outcome dei pazienti migliorerebbe trattando aggressivamente gli episodi ischemici postoperatori? A questa domanda non è stata trovata le risposta.

2. Possiamo definire in maniera prospettica i fattori che aumentano il rischio di ischemia postoperatoria?

Se così fosse potremmo selezionare i pazienti da monitorizzare dopo l'intervento. Nel 1992 Mangano e i suoi colleghi hanno pubblicato uno studio di questi fattori. Ne sono stati trovati cinque. In presenza di ipertrofia ventricolare sinistra, diabete, ipertensione arteriosa, coronaropatia confermata, utilizzazione di derivati digitalici il rischio di ischemia postoperatoria aumenta.

La somma di più fattori aumenta il rischio. Dal 22% nel paziente senza fattori si passa al 31% in presenza di uno, 46% con due, 70% con tre, 77% con quattro.

a. Riduzione del rischio
La stratificazione del rischio sarebbe sterile se non vi fossero dei mezzi per modificarla. Sfortunatamente c'è uno squilibrio tra il volume considerevole di letteratura concernente la diagnosi e la povertà di quella che tratta i mezzi per ridurla. Data la mancanza di verifica statistica dei mezzi suggeriti, le raccomandazioni che seguono sono basate su delle ipotesi; un'attenzione particolare alla letteratura che seguirà sarà necessaria per tirare delle conclusioni sulla loro utilità.
Tre grandi linee di condotta sono disponibili per tentare di ridurre il rischio di CCP. Innanzitutto possiamo modificare la strategia chirurgica. L'operazione può essere semplicemente soppressa o rifiutata dal paziente informato del rischio che corre.
L'intervento può essere posposto oppure la tecnica operatoria può essere modificata proponendo ad esempio un pontage axillo -femorale al posto di una sostituzione di carrefour aortico.

Come seconda cosa possiamo cercare di migliorare lo stato del paziente, diminuendo l'intensità dei fattori di rischio o eliminandoli (es. trattamento dello scompenso cardiaco). Per il coronaropatico si può valutare la decisione di eseguire un pontage aorto-coronarico. Sembra infatti che il rischio di CCP di una chirurgia non cardiaca dopo rivascolarizzazione miocardica sia effettivamente diminuito. Tuttavia bisogna considerare il rischio di morbidità e mortalità collegati con la chirurgia cardiaca e non cardiaca.

Per ultimo possiamo tentare di modificare il rischio di CCP con la nostra tecnica di anestesia. La prima questione che si pone spesso è: anestesia generale o loco-regionale?. Salvo certe eccezioni la letteratura non ci aiuta molto su questo piano. L'utilizzazione di un monitoraggio emodinamico sofisticato con trattamento aggressivo di ogni perturbazione unito ad un soggiorno più o meno lungo in terapia intensiva è stato associato ad una riduzione del rischio. L'utilizzazione di un protocollo analgesico intenso dopo chirurgia cardiaca sembra ridurre le CCP. L'interesse dell'applicazione di un tale protocollo in chirurgia non-cardiaca non è stato ancora confermato. Visto il valore predittivo degli episodi di ischemia miocardica postoperatoria, la logica di un trattamento precoce sembra ben fondato; si attende la conferma di tale strategia.

Riassunto e conclusioni

1. Lo scompenso cardiaco e gli antecedenti di infarto sono i fattori più importanti nella determinazione del rischio di CCP.
2. Per il paziente vascolare, già ad alto rischio, la presenza di diabete, età > a 70a., onda Q all'ECG o angina pectoris costituiscono altrettanti fattori di rischio. In assenza di fattori, il rischio è basso. In presenza di tre fattori o più il rischio è molto elevato. In presenza di uno o due può essere indicato un test al dipiridamolo-tallio. L'assenza di redistribuzione implica un rischio minimo. Una redistribuzione solleva l'ipotesi di una coronarografia.
3. Un'ipotensione di durata >di 10 min. e la tachicardia sono i fattori più importanti nella genesi delle CCP. Molti episodi ischemici non sono accompagnati da una perturbazione. L'utilità di un monitoraggio automatizzato del segmento ST è discusso.
4. L'ischemia miocardica postoperatoria, quasi sempre silente, è un fattore importante nella determinazione delle CCP. Sono a rischio i pazienti con: diabete, ipertrofia ventricolare sinistra, una coronaropatia confermata e quelli che utilizzano la digitale.
5. Attualmente anche se esistono diverse possibilità di ridurre il rischio di CCP la loro applicazione non ha un alto valore scientifico.

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TRATTAMENTO DELLO SHOCK CARDIOGENO
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J.P. Auffray, T.Gonzales


Introduzione

Lo shock cardiogeno è una sindrome caratterizzata da una sofferenza tissutale periferica legata ad un deficit di rifornimento energetico, conseguente ad un'alterazione del normale funzionamento della pompa cardiaca, qualunque ne sia la causa. E' una sindrome, intendendo con ciò che molti processi morbosi possono condurre a questo stato. Il suo trattamento ideale dovrebbe essere eziologico, ma nella maggior parte dei casi questo sarà impossibile e dovrà essere intrapreso un trattamento sintomatico. La mortalità dello shock cardiogeno resta elevata, nella maggior parte dei casi le lesioni sono definitive e rappresentano la conseguenza di un lungo processo patologico. Si dispone, tuttavia, allo stato attuale di possibilità terapeutiche, non farmacologiche, che permettono la presa in carico di pazienti affetti da lesioni cardiache irreversibili. Di fronte ad un stato emodinamico che evoca uno shock cardiogeno, il medico deve innanzitutto constatarne la realtà e apprezzarne la gravità. Classicamente si distinguono due stadi. Il primo è quello dell'insufficienza cardiaca acuta con caduta della gittata cardiaca (indice cardiaco < 2.2 l.min-1/m2) e dell'aumento della pressione telediastolica dei ventricoli destro e sinistro. Le resistenze vascolari periferiche sono elevate, la pressione arteriosa media (PAM) è mantenuta. La sofferenza tissutale periferica è moderata ed in principio reversibile. Il secondo stadio è quello dello shock manifesto con sofferenza tissutale periferica. I parametri emodinamici possono apparire identici ma compaiono un'ipossia tissutale e un metabolismo anaerobico, il tasso di lattati si eleva e si manifesta un'acidosi metabolica. La PAM si riduce e le turbe tissutali si aggravano.

La ricerca eziologica viene realizzata contemporaneamente alla diagnostica dello shock, ed è spesso evidente. Schematicamente si distinguono i danni miocardici e quelli non miocardici.

1. SCOPO DEL TRATTAMENTO E DELLA SORVEGLIANZA

La definizione degli scopi del trattamento è una tappa precedente alla sua messa in opera . In effetti, il trattamento non deve essere un insieme di misure sintomatiche che tendono a migliorare in maniera transitoria i parametri emodinamici o biologici. Idealmente, gli scopi della terapia sono triplici: trattare la causa dell'insufficienza cardiaca, preservare gli organi e i tessuti periferici dai danni di una sofferenza anossica, evitare l'aggravamento delle lesioni miocardiche. Il trattamento della causa non è sempre possibile. Ma nel caso di lesioni aggredibili chirurgicamente, il trattamento radicale deve essere il più precoce possibile. Le possibilità attuali di trombolisi o angioplastica devono comportare il più rapidamente possibile la messa in atto di queste strategie terapeutiche nell'infarto del miocardio in fase acuta. Nelle embolie polmonari, la trombolisi o la chirugia permettono un trattamento etiologico dello stato di shock associato ad un embolia polmonare (EP).

La definizione di shock sottintende la sofferenza tissutale periferica. Questa è l'espressione di uno squilibrio tra i bisogni energetici e le possibilità degli apporti. Apporti sufficienti significano un trasporto d'ossigeno sufficiente e una sua disponibilità normale. Gli indici d'inotropismo miocardico e gli indici di funzione di pompa non sono sufficientemente fedeli per apprezzare l'integrità di questo equilibrio. Nella defaillance cardiaca acuta e nello shock cardiogeno, esiste una diminuzione del trasporto d'ossigeno (TaO2) che è la conseguenza d'una caduta dell'indice cardiaco (IC) e spesso di una caduta del contenuto arterioso in ossigeno (CaO2), dovute a turbe dell'ematosi e alla riduzione del contenuto venoso in ossigeno (CvO2). Nel caso di una riduzione del TaO2 , vi sono due meccanismi che permettono il mantenimento di un'ossigenazione tissutale normale: in primo luogo la riduzione dell'affinità dell' emoglobina per l'ossigeno definita dalla P50: nelle condizioni di defaillance cardiaca la P50: si eleva, la curve di dissociazione dell'Hb si sposta verso destra, l'affinità dell'emoglobina per l'ossigeno è diminuita e aumenta la sua disponibilità tissutale. Quest'adattamento può essere perturbato dalla coesistenza di un'alcalosi o di un'ipofosforemia. Il secondo meccanismo d'adattamento è l'aumento dell'estrazione dell'ossigeno (EO2). L'individuo normale possiede una riserva d'ossigeno che gli permette di mantenere un'indipendenza tra il TaO2 e il consumo d'ossigeno (VO2). Nello shock cardiogeno, la caduta del TaO2 raggiunge un valore critico al di là del quale la EO2 non può più aumentare. La VO2 diminuisce allora proporzionalmente al TO2. Compare una sofferenza tissutale attestata dalla produzione di acido lattico, testimone di un metabolismo anaerobico. Lo scopo del trattamento è dunque non tanto di migliorare la performance cardiaca quanto di migliorare l'equilibrio tra bisogni energetici e TaO2. Il trattamento dovrà aumentare l'IC e la CaO2 cercando di ridurre la VO2 e mantenendo una disponibilità normale o accresciuta d'ossigeno [42].

In caso di shock cardiogeno d'origine miocardica, il cuore può risentire negativamente delle terapie intraprese. Gli inotropi, in particolare, hanno un costo energetico per il miocardio. Il miglioramento delle prestazioni miocardiche non deve fare dimenticare che l'elemento prognostico più importante resta il recupero del muscolo cardiaco e che per lo stesso scopo deve essere scelta la terapia che preserva al meglio le possibilità di recupero. Una volta stabilito lo scopo del trattamento, deve essere adottata una terapia. E' importante verificare se le finalità sono raggiunte grazie alla terapia e se questa non induca effetti secondari. Il cateterismo dell'arteria polmonare e il posizionamento di una sonda di Swan-Ganz sono ancora soggetti a controversie. Nessun lavoro ha chiaramente dimostrato l'interesse in termini di riduzione della mortalità o di complicazioni di questo tipo di monitoraggio. Anche l'interpretazione dei dati emodinamici forniti dal catetere di Swan-Ganz sembra essere spesso mal compreso. Tuttavia nella pratica quotidiana, è possibile seguire l'evoluzione dei pazienti in stato di shock cardiogeno con la misura ripetuta della gittata cardiaca, della SvO2, della SaO2, e dei lattati arteriosi. L'insieme di questi dati permette il calcolo dei parametri derivati: EO2, TaO2, e VO2. Lo sviluppo recente del monitoraggio in continuo della SvO2 tramite il catetere di Swan-Ganz munito di fibre ottiche permette un approccio più rapido dell'equilibrio tra TaO2 e VO2. Benchè non esista una stretta correlazione tra la SvO2 e la gittata cardiaca, essendo la SvO2 un parametro multifattoriale, il monitoraggio ne permette una maggiore rapidità diagnostica e un migliore intervento terapeutico.

Quando una terapia è somministrata ad un paziente affetto da insufficienza cardiaca grave allo scopo di aumentare il TaO2, l'analisi dell'equilibrio TaO2/VO2 può rivelare due situazioni differenti [14]: sia una indipendenza che una dipendenza tra la TaO2 e la VO2 [13, 43].

Se vi è un'indipendenza tra i due parametri, non esiste una sofferenza tissutale anossica benchè la TaO2 possa essere bassa. L'organismo ha sfruttato le sue risorse per mantenere un rapporto adeguato tra gli apporti e i bisogni. L'aumento di TaO2 non si accompagna ad un aumento di VO2 ma ad una riduzione di EO2 e un aumento di SvO2. Il paziente potrà nondimeno essere instabile e una domanda energetica supplementare (elevazione di VO2) non potrà essere compensata. Il segno più precoce sarà la caduta della SvO2. Una terapia efficace si tradurrà in una elevazione della SvO2 intorno al 60% e in una riduzione di EO2 al 35%. Non esistono dati precisi in letteratura che permettono d'affermare che ci sia dal punto di vista prognostico un interesse a normalizzare la EO2. Alcuni lavori, tuttavia, sembrano dimostrare che i malati che hanno visto normalizzato la loro EO2 hanno una prognosi migliore di quelli che restano con una EO2 bassa [39].

In caso di dipendenza tra TaO2 e VO2, ogni aumento dell'uno s'accompagna con un'elevazione dell'altra. Quando aumenta il TaO2, l'EO2 e la SvO2 non si modificano. Tale dipendenza tra TaO2/VO2 può accompagnarsi o no ad iperlattacidemia. In quest'ultimo caso, esiste un debito in ossigeno e un metabolismo anaerobio. La terapia deve aumentare il TaO2 e ridurre la VO2. La persistenza di questa dipendenza e l'iperlattacidemia segnano l'insufficienza o il fallimento della terapia e devono essere adottate altre misure. L'assenza di iperlattacidemia malgrado una dipendenza TaO2/VO2 può essere legata a diverse cause legate spesso alla terapia. La modificazione del tono vasomotore con prodotti vasoattivi, vasodilatatori in particolare, permette la perfusione di organi normalmente poco perfusi che aumentano la loro captazione e il consumo d'ossigeno [5]. I prodotti inotropi positivi potrebbero essere responsabili di questa situazione. In effetti, oltre gli effetti sulla TaO2, gli inotropi possono aumentare la VO2 per un effetto metabolico diretto. Tale effetto è stato riportato per le catecolamine e gli inodilatatori (inibitori della fosfodiesterasi III). L'elevazione della VO2 è probabilmente più bassa con la dobutamina che con le altre catecolamine. La possibilità di un aumento della VO2 legata alla terapia deve essere evocata in caso di comparsa di una dipendenza TaO2/VO2 associata ad un trattamento beta-stimolante a forte dosi senza iperlattacidemia. Gli effetti della terapia sul miocardio devono essere valutati e sorvegliati. Il rischio maggiore rimane l'aggravamento di lesioni ischemiche che rendono aleatorie la possibilità di recupero. Due elementi permettono di valutare gli effetti favorevoli o sfavorevoli del trattamento sul miocardio. La valutazione del consumo d'ossigeno del miocardio è grossolanamente apprezzata dal prodotto della frequenza cardiaca e della pressione sistolica. L'indice della perfusione miocardica è tanto migliore quanto la frequenza cardiaca è bassa, la PA diastolica è elevata e la pressione telediastolica del ventricolo sinistro (PTDVS) è bassa [1]. Il trattamento migliore è quello che aumenta di poco la MVO2 aumentando l'indice di perfusione miocardico. La valutazione diretta di questi elementi risulta difficile in pratica. Tuttavia, il monitoraggio della PA diastolica, della frequenza cardiaca, del segmento ST dell'elettrocardiogramma e delle aritmie permette la valutazione degli effetti secondari della terapia.

Il valore della PA media da mantenere durante uno stato di shock cardiogeno viene raramente precisato. Se un'elevazione eccessiva della PAM è a volte la causa di una bassa gittata, una riduzione marcata della stessa è nefasta per le perfusioni regionali che necessitano un TaO2 adattao e una pressione di perfusione efficace. E' soprattutto il caso del cervello, del rene e del fegato. Il livello di PAM necessaria ad una perfusione tissutale efficace è sicuramente variabile da un'individuo ad un altro e pochi studi si sono interessati a questo valore. Attualmente solamente i criteri clinici permettono di valutare la perfusione d'organo: il livello di coscienza e la diuresi.

2. MODALITA' DI TRATTAMENTO

2.1 Presidi farmacologici

Vasodilatatori

I vasodilatatori arteriosi migliorano l'eiezione sistolica grazie alla riduzione del post-carico che determinano. Gli indici di "funzione di pompa" migliorano, la TaO2 aumenta. A livello miocardico, le pressioni parietali ed il MVO2 diminuiscono. L'effetto sulle lesioni ischemiche è teoricamente favorevole. L'uso dei vasodilatatori arteriosi nell'insufficienza cardiaca acuta e nello shock cardiogeno, logico sul piano teorico, pone, tuttavia, due problemi. In primo luogo queste sostanze stimolano il sistema simpatico attivato dall'insufficienza cardiaca e dalla caduta della gittata [21]. L'attivazione riflessa di questi meccanismi è responsabile di una tachicardia nociva per l'aumento del MVO2 che essa determina. L'impiego dei vasodilatatori è stato ritenuto responsabile dell'aggravamento della funzione renale [28]. L'attivazione dei meccanismi compensatori è egualmente responsabile della comparsa rapida dei fenomeni di tachifilassi. L'effetto negativo maggiore incontrato nell'impiego dei vasodilatatori in corso di una defaillance cardiaca è l'aggravamento o la comparsa di una caduta della PA che può essere deleteria a livello di tessuti in cui la perfusione è pressione-dipendente. A livello miocardico, la caduta della PA diastolica associata alla tachicardia contribuisce a ridurre l'indice di perfusione miocardica malgrado l'abbassamento della PTDVS. Il territorio dipendente della coronaria destra è quello che soffre, il più delle volte, di questa riduzione della pressione. Per tale motivo, l'utilizzazione isolata dei vasodilatatori diretti nello shock cardiogeno è eccezionale.

Amine simpaticomimetiche

I beta-mimetici restano gli agenti inotropi più utilizzati. Essi agiscono attivando (dopo fissazione ad un recettore di membrana) l'adenilciclasi, che aumenta la disponibilità di calcio intracellulare e la qualità della contrazione muscolare [41]. Si è molto insistito in questi ultimi anni sulla regolazione del recettore cellulare. In corso di trattamenti prolungati o di stimolazioni endogene intense, come si possono osservare nell'insufficienza cardiaca avanzata, esiste una desensibilizzazione di tale recettore che diminuisce l'efficacia dei beta-agonisti [27]. E' ormai acquisito che a livello miocardico esistono recettori alfa1 la cui stimolazione determina un aumento dell'inotropismo secondo un meccanismo del tutto differente da quello realizzato dai recettori beta-adrenergici, poiché non determina l'aumento dell'AMP ciclico intracellulare ma l'attivazione dei fosfatidilinositoli di membrana (IP3) capaci di mobilizzare il calcio nei miociti. Fino ad oggi questa risposta è stata minimizzata sul piano quantitativo perché l'ampiezza delle contrazioni miocardiche determinata dagli agenti a-agonisti è sempre inferiore a quella degli agenti beta-adrenergici e non lo si metteva in evidenza che in situazioni particolari, come l'ipertiroidismo o i trattamenti prolungati con beta-bloccanti. Attualmente si è potuto evidenziare il ruolo degli alfa1-agonisti nella regolazione dell'inotropismo nell'ipertrofia miocardica in corso di ipertensione, in alcune miocardiopatie e nell'insufficienza cardiaca avanzata. E' possibile che i recettori alfa1 giochino un ruolo nel controllo dell'inotropismo quando esiste una desensibilizzazione dei recettori beta1 [6].

La dobutamina è un simpaticomimetico di sintesi composto da un insieme racemico di due isomeri. L'isomero L è un alfa1-agonista attivo, e debole beta1 e b2-agonista [30]. L'isomero D è un potente beta1 e beta-agonista. La risultante dei due effetti nella maggior parte dei casi è un effetto beta1-agonista potentemente inotropo a livello miocardico [23]. Gli effetti b2-stimolanti e alfa1-stimolanti avrebbero tendenza a opporsi a livello vascolare periferico da cui risulterebbe una leggera vasodilatazione [30]. Nei fenomeni di desensibilizzazione dei recettori beta1 è possibile che la dobutamina continui ad esercitare un'azione inotropa grazie ai suoi effetti alfa1-stimolanti. La dobutamina viene utilizzata a dosi che vanno da 7.5 a 15 mcg.kg-1.min-1. Alle dosi medie abituali gli effetti cronotropi e aritmogeni sono minimi [9]. Negli stati di basso debito cardiaco, la dobutamina aumenta i flussi regionali in maniera proporzionale alla gittata cardiaca [23, 25]. L'insieme dei tessuti vede aumentata la sua disponibilità in ossigeno. Non esiste un'azione specifica a livello renale, ma grazie all'aumento della gittata cardiaca e all'assenza di effetti vasocostrittori a livello renale, esiste di solito un miglioramento della funzione renale durante il trattamento con dobutamina. Gli effetti della dobutamina sono proporzionali alla concentrazione plasmatica e cominciano al secondo minuto per raggiungere il loro massimo intorno al decimo minuto. La sua breve emivita, dell'ordine di due minuti, è una proprietà interessante condivisa da tutti i beta-agonisti. Come tutte le sostanze inotrope, la dobutamina aumenta il consumo d'ossigeno miocardico; tuttavia, grazie alla riduzione dei volumi e delle pressioni telediastoliche che essa determina, la dobutamina riduce la tensione parietale e aumenta la pressione di perfusione coronarica [4]. L'aumento del consumo d'ossigeno del miocardio è largamente compensato da una migliore perfusione miocardica [10]. La somministrazione di dobutamina nelle defaillance cardiache delle cardiopatie ischemiche è spesso seguito da un aumento netto delle prestazioni cardiache senza aggravamento delle prestazioni precedenti [35]. Durante i trattamenti prolungati, può apparire un fenomeno di desensibilizzazione dei b-recettori (down-regulation) che condurrà ad una riduzione dell'efficacia del trattamento dell'ordine del 50% dopo cinque giorni [10]. Questa desensibilizzazione raramente determinerà un'inefficacia totale del trattamento ma condurrà il medico sia ad aumentare le dosi sia ad associare un altro farmaco. Il fenomeno di desesibilizzazione è egualmente responsabile delle turbe emodinamiche gravi nei casi di arresto brutale della terapia con dobutamina. Benchè non sia possibile alcuna regola ed esistano delle grandi variazioni interindividuali, sembra che la sospensione della dobutamina debba essere progressiva. La dobutamina è il farmaco inotropo più frequentemente impiegato nelle insufficienze cardiache e nello shock cardiogeno. E' di solito impiegata da sola, ma può essere associata ad altri prodotti [9]: vasodilatatori, agonisti dopaminergici, vasopressori. Tra tutte le amine simpaticomimetiche studiate, infine, la dobutamina presenta i minori effetti dannosi sul piano della tachicardia e delle risposte indesiderabili [25].

La dopamina è un precursore endogeno della noradrenalina. Essa stimola in modo differente in funzione della dose tre tipi di recettori: alfa1, beta1 e dopaminergici, oltre che la liberazione della noradrenalina dalle terminazioni nervose [31]. La dopamina deve il suo successo agli effetti dopaminergici che permettono un'azione favorevole sulla funzione renale. Nello shock cardiogeno, tuttavia, le azioni ricercate sono piuttosto quelle sui flussi locali e l'ossigenazione tissutale. A forti dosi la dopamina si comporta come un'autentico vasopressore, che avrà effetti favorevoli in alcune situazioni e sfavorevoli in altre. L'associazione dopamina/dobutamina è frequentemente impiegata ed è indicata in due circostanze particolari. Essa permette un'azione specifica sulla perfusione renale stimolando i recettori d, quando, malgrado il miglioramento della gittata cardiaca, non si ristabilisce la funzionalità renale [38]; inoltre, essa aumenta le resistenze vascolari e dunque la perfusione coronarica in caso di uno shock cardiogeno severo con caduta della pressione arteriosa [10].

La dopexamina è una nuova catecolamina introdotta recentemente in terapia e in corso di valutazione nello shock cardiogeno. Essa stimola pressocchè esclusivamente i recettori beta2 e, in minore misura, i recettori dopaminergici d1 e d2; la sua azione beta1 è scarsa [19, 34] a differenza della dopamina e non possiede effetti sui recettori a [46, 47]. Il risultato finale è un'azione inotropa positiva che persiste dopo desensibilizzazione dei recettori beta1, un'azione vasodilatatrice intensa responsabile di una caduta moderata della PA media e di un'aumento della frequenza cardiaca a dosi superiori di 4 mcg.kg-1.min-1 [26]. Come tutte le amine è metabolizzata rapidamente e la sua scomparsa è quasi istantanea: agisce in qualche minuto e i suoi effetti cessano rapidamente. Questa azione inotropa e vasodilatatrice la fanno a volte qualificare come "inodilatatore". L'azione emodinamica della dopexamina nell'insufficienza cardiaca è data dall'aumento dose-dipendente (da 1 a 5 mcg.kg-1.min-1) dell'indice cardiaco e del volume d'eiezione sistolica. La dopexamina sarebbe meno aritmogena della dopamina. La sua azione sui recettori dopaminergici provoca una vasodilatazione splancnica e renale in maniera meno intensa della dopamina ma aumenta il flusso sanguigno renale, il flusso urinario e l'escrezione sodica [47]. Il suo posto nel trattamento dello shock cardiogeno non è stato ancora precisato ma deve essere utilizzata con prudenza in caso d'ipotensione arteriosa. Al contrario, essa trova una buona indicazione nelle defaillance cardiache a resistenze periferiche elevate.

L'adrenalina è una catecolamina beta1, beta2 e alfa1 stimolante. A piccole dosi, si comporta essenzialmente come un inotropo b-agonista. A dosi più elevate, gli effetti a predominano e sono responsabili di un'aumento delle resistenze periferiche e probabilmente anche di un effetto inotropo. A dosi moderate (0.5 mcg.kg-1.min-1) l'adrenalina aumenta la pressione arteriosa, migliora il debito cardiaco; la riduzione delle pressioni di riempimento ventricolare destro e sinistro sono modeste. L'adrenalina sembra essere efficace nei casi di desensibilizzazione dei b-recettori. L'adrenalina rimane molto utilizzata nelle sindromi da defaillance cardiaca post CEC. Essa è a volte efficace nelle insufficienze cardiache resistenti alla dobutamina.

La noradrenalina ha un'azione inotropa positiva modesta associata ad un'azione vasocostrittrice intensa. E' un farmaco d'urgenza utilizzabile nello shock cardiogeno grave [10]. Si comincia il trattamento con un dosaggio di 0.02 mcg.kg-1.min-1, aumentato in seguito ogni 15 minuti fino al raggiungimento dei parametri emodinamici desiderati, compatibili con una perfusione corretta [10]. La noradrenalina non deve essere utilizzata che per brevi periodi e rimpiazzata prima possibile da un altro inotropo per l'aumentato fabbisogno miocardico e degli effetti nefasti indotti dalla vasocostrizione renale.

2.2 Inibitori delle fosfodiesterasi (IFDE)

A livello delle cellule miocardiche, esse inducono un'azione inotropa positiva indipendente dai beta-recettori e dalle eventuali modificazioni della sensibilità dei recettori adrenergici; il loro punto d'azione è puramente intracellulare. L'inibizione delle fosfodiesterasi conduce ad un aumento del tasso di AMP ciclico (AMPc) intracellulare determinando un aumento della probabilità d'apertura dei canali del calcio lenti (long lasting); dunque, un aumento dell'entrata del calcio durante il plateau del potenziale d'azione [46]. A livello della fibra muscolare liscia (per l'inibizione della fosfodiesterasi III), l'AMPc stimola una proteino-chinasi AMPc-dipendente, che stimola a sua volta la pompa sarcolemmatica del calcio [46] all'origine dell'estrusione del calcio dalla cellula; questo provoca un rilasciamento della fibra muscolare liscia e una vasodilatazione arteriolare e venosa all'origine della riduzione del post-carico. Gli effetti sul muscolo cardiaco e sulla muscolatura liscia sembrano non manifestarsi per le stesse concentrazioni plasmatiche di IFDE [7, 46], che potrebbe spiegare le variazioni d'effetto indotte in funzione delle dosi utilizzate e degli stessi prodotti. Queste due proprietà hanno permesso di parlare di inodilatatori nel caso degli IFDE. In teoria essi costituiscono il trattamento di scelta dello shock cardiogeno, nella misura in cui migliorano la gittata cardiaca, riducono le pressioni di riempimento modificando poco il consumo d'ossigeno miocardico. Con questi farmaci, inoltre, non si constatano gli effetti di "down-regulation" riscontrati con i beta-agonisti. Si manifestano, tuttavia, un affievolimento degli effetti inotropi positivi di alcuni di questi prodotti nei trattamenti prolungati [31]. Nella pratica la loro scarsa maneggevolezza, dovuta alla lunga emivita, può essere all'origine d'ipoperfusione coronarica grave in caso di caduta mal controllata della pressione arteriosa. Sembra che si sia notata una certa suscettibilità individuale, rendendo imprevedibile l'effetto ipotensivo. L'aumento dell shunt intrapolmonare è all'origine di un'abbassamento della SaO2 e dunque della TaO2 [31]. Infine, è necessario un aggiustamento dei dosaggi in caso d'insuffcienza renale, frequente in questi pazienti.

L'amrinone è stato il primo IFDE disponibile in terapia. E' un derivato biperidinico con proprietà inotrope deboli e vasodilatatrici marcate [30]. La sua caratteristica farmacocinetica principale è una lunga emivita d'eliminazione dell'ordine di 3-6 ore nel soggetto normale; essa s'accresce in caso d'insufficienza cardiaca o renale fino a 10-12 ore [46]. Questa caratteristica è sfavorevole nel trattamento di pazienti instabili. Il metabolismo è epatico e l'eliminazione renale fino al 50% in forma attiva. Una controversia esiste sulla sua azione inotropa nell'insufficienza renale avanzata; sembra che nelle defaillance cardiache croniche l'effetto emodinamico sia legato più all'azione vasodilatatrice che all'azione inotropa. L'effetto vasodilatatore, interessante nelle insufficienze cardiache a resistenze periferiche elevate, si può rivelare nefasto in caso di shock con caduta della pressione arteriosa tanto più che persiste a lungo dopo l'arresto della somministrazione del prodotto. L'associazione di amrinone (e di IFDE in generale) ai b-agonisti è sinergica sul piano farmacodinamico. Tuttavia l'interesse clinico di una tale associazione non è dimostrata. Sono riportati effetti secondari come nausea, vomito, epatotossicità e trombocitopenia. Le aritmie ventricolari severe sono una controindicazione alla sua utilizzazione [22].

Il mirninone è una molecola affine all'amrinone, egualmente derivata dalla biperidina. I suoi effetti inotropi positivi e vasodilatatori sembrano più marcati [30]. E' più maneggevole, la sua emivita è più breve [46] e meglio tollerato dell'amrinone [32]. Colucci e coll. nel 1986 [8] hanno mostrato che la sua azione inotropa positiva e vasodilatatrice è intermediaria tra quella della dobutamina e d'un vasodilatatore puro come il nitroprussiato e che migliorava il rilasciamento ventricolare. Studi recenti che confrontano gli effetti emodinamici del mirninone e della dobutamina concludono che questi due prodotti hanno effetti molto simili. Il mirninone deve essere utilizzato con maggiore prudenza in casi d'insufficienza renale, a causa della sua escrezione renale (90%) [44]. Benchè lievemente meno ipotensivo dell'amrinone, s'impone prudenza nel suo uso.

L'enoximone è un IFDE derivato degli imidazoli il cui profilo emodinamico è molto simile ai precedenti: come il mirninone, esso avrebbe un'effetto favorevole sulla funzione diastolica migliorando il rilasciamento ventricolare sinistro oltre che un'effetto vasodilatatore per azione diretta sulla fibra muscolare liscia [30, 41]. La sua emivita nel soggetto sano (4 ore) è superiore a quella dell'amrinone e del mirninone per la presenza d'un metabolita attivo d'origine epatico ma
soprattutto renale, il sulfossido [46]. L'emivita è di 6 ore nell'insufficienza cardiaca [46]. I suoi effetti emodinamici potrebbero correlarsi a quelli dell'associazione dobutamina-nitroprussiato di sodio.

2.2 Mezzi non farmacologici

Espansione volemica

E' importante sottolineare che dal 15 al 20% dei pazienti che presentano segni d'ipotensione periferica a seguito di un infarto del miocardio hanno pressioni di riempimento ventricolari basse; lo stesso dicasi nelle defaillance cardiache dopo chirurgia cardiaca. L'espansione volemica è la terapia da mettere in opera in primo luogo, anche se questo non significa che altri mezzi terapeutici non siano necessari dopo. La natura dei fluidi da somministrare è ancora oggetto di controversia: possono essere utilizzate macromolecole, albumina o cristalloidi. Se si sospetta un'alterazione della permeabilità capillare, in particolare nelle prime ore che seguono una CEC, si può ricorrere ai cristalloidi. In caso di riduzione della massa globulare, la trasfusione sanguigna rappresenta il mezzo per aumentare il TaO2 per aumento del CaO2. Un'elevazione importante dell'ematocrito può, tuttavia, aumentare il post-carico per l'incremento della viscosità che determina. E' generalmente raccomandato di mantenere la pressione d'occlusione dell'arteria polmonare (POAP) tra 15 e 18 mmHg, per ottimizzare le condizioni del pre-carico permettendo un miglioramento della gittata cardiaca grazie al meccanismo di Frank-Starling. Queste raccomandazioni, tuttavia, si basano su molte approssimazioni. La PAOP non è sempre un'indice fedele della pressione telediastolica del ventricolo sinistro, e soprattutto, in caso d'alterazioni della funzione diastolica, le pressioni non evolvono in maniera parallela ai volumi ventricolari, veri determinanti del meccanismo di Frank-Starling. Quando si sospetta una turba della funzione diastolica (cardiopatia ipertrofica, tachicardia, tamponamento), l'ecocardiografia di superficie o meglio transesofagea, apprezzerà meglio della misura della PAOP, le condizioni di carico ventricolare. In pratica, è più indicativa l'evoluzione della gittata e delle pressioni dopo una prova di riempimento prudente che i valori iniziali della PAOP. E', tuttavia, raramente necessario e a volte dannoso aumentare la PAOP al di sopra di 18 mmHg.

Assistenza respiratoria

L'insufficienza respiratoria in corso di shock cardiogeno è multifattoriale. Una delle prime manifestazioni durante l'insufficienza cardiaca è l'aumento della pressione idrostatica nei capillari polmonari. La perturbazione delle forze che determinano i movimenti liquidi a livello capillare determina un aumento considerevole dei flussi linfatici che evitano l'edema interstiziale, ma quando questo meccanismo viene saturato, si sviluppa una disfunzione polmonare. Lavori sperimentali mostrano che la meccanica respiratoria è perturbata dall'elevazione delle pressioni polmonari anche prima della fase d'edema interstiziale e alveolare [37]. Nell'animale, la prima manifestazione della stasi vascolare polmonare è un aumento delle resistenze polmonari. Molto rapidamente compaiono una modificazione delle proprietà elastiche del polmone e una riduzione della compliance [37]. Queste modificazioni della meccanica ventilatoria sono responsabili di un aumento del lavoro respiratorio [3]. Benchè non si conosca perfettamente il costo energetico della ventilazione nell'uomo, è possibile una defaillance ventilatoria durante shock cardiogeno legata alla fatica diaframmatica. Un aumento marcato del lavoro respiratorio richiede un incremento del flusso sanguigno regionale, mentre i muscoli respiratori sono in deficit d'apporto energetico. Esperienze animali mostrano che un flusso sanguigno inadeguato per i muscoli respiratori può determinare un distress respiratorio e la morte, anche in assenza d'edema alveolare o interstiziale e di danni parenchimali.

Nello shock cardiogeno, perciò, la ventilazione artificiale è spesso indispensabile. Essa permette un miglioramento dell'ematosi, quindi del TaO2 e una riduzione della VO2, con beneficio del bilancio energetico. Paradossalmente, la ventilazione artificiale è ben tollerata nello shock cardiogeno. Nei pazienti in grave shock cardiogeno, si è potuto dimostrare l'effetto favorevole dell'aumento delle pressioni intratoraciche sulla funzione ventricolare [36].

Sedazione

Spesso necessaria nel trattamento dello shock cardiogeno, la sedazione permette di tollerare la ventilazione artificiale e le tecniche d'assistenza circolatoria. Essa riduce l'ansia e l'agitazione legata alla basso flusso cerebrale. Riduce teoricamente anche la VO2. I prodotti più frequentemente utilizzati sono i derivati morfinici e le benzodiazepine, spesso in associazione. Tenuto conto delle modificazioni farmacocinetiche indotte dal basso flusso cerebrale e dall'insufficienza epatorenale, le dosi devono essere ridotte.

Correzione dell'equilibrio acido-base

L'equilibrio acido-base è spesso alterato nello shock cardiogeno [32]. L'acidosi metabolica è frequente. Si tratta di una acidosi lattica espressione di un metabolismo tissutale anaerobico. Gli agenti vasodilatatori sono stati proposti per il trattamento dell'acidosi lattica sopraggiunta nel contesto di un basso flusso circolatorio. Numerosi pazienti in insufficienza cardiaca congestizia presentano alterazioni della funzione epatica in rapporto non con lesioni anatomiche del fegato, ma con la cardiopatia causale che può contribuire all'acidosi lattica. La somministrazione di soluzioni tampone è inutile e dannosa a causa delle alterazioni della disponibilità in ossigeno che determina e per il carico acido a livello venoso e cellulare che provoca [2, 29]. La correzione d'una acidosi respiratoria deve essere realizzata con la ventilazione artificiale, essendo il polmone, per la sua capacità d'epurazione della CO2 di gran lunga l'organo più importante nella regolazione dell'equilibrio acido-base. Le alcalosi metaboliche o respiratorie sono nefaste nello shock, riducendo la disponibilità tissutale dell'ossigeno e deprimendo l'inotropismo cardiaco.

3. MEZZI MECCANICI

3.1. Contro-pulsazione aortica (CPA)

Rimane la più utilizzata dei metodi d'assistenza circolatoria meccanica. Un catetere provvisto di un pallone non occlusivo posizionato per via femorale percutanea nell'aorta toracica discendente, provoca un'elevazione della pressione diastolica per il gonfiaggio del pallone in diastole e una riduzione del post-carico per sgonfiaggio durante la sistole ventricolare. Il sistema di contro-pulsazione aortico è stato descritto per la prima volta nel 1962. Per il miglioramento delle tecniche, esso conosce attualmente un ritorno d'interesse. La CPA offre sia dei vantaggi sistolici che diastolici. Gonfiandosi durante la diastole, il pallone sposta un volume di sangue uguale al proprio, aumentando per conseguenza la pressione aortica e la perfusione coronarica che si svolge essenzialmente durante la diastole. Nella sistole, lo sgonfiaggio del pallone si realizza giusto prima dell'apertura delle valvole aortiche riducendo brutalmente la pressione aortica e permettendo al ventricolo sinistro di pompare contro un'impedenza aortica fortemente ridotta. Questo conduce ad una riduzione dei volumi ventricolari sistolici e diastolici. Il lavoro miocardico e il consumo d'ossigeno sono ridotti. Se la funzione ventricolare sinistra è alterata per un rigurgito mitrale o per una comunicazione interventricolare, la riduzione dei volumi e delle pressioni ventricolari migliora lo stato emodinamico riducendo sia il rigurgito sia lo shunt sinistro-destro. Per essere efficace la CPA deve essere utilizzata in un paziente in perfetto equilibrio volemico con resistenze periferiche normali o leggermente elevate [11].

L'effetto sulla gittata cardiaca non è molto importante e gli stati di shock severo con sofferenza anossica periferica non rappresentano una buona indicazione. Le migliori indicazioni sono rappresentate dalle insufficienze cardiache acute o gli shock cardiogeno d'origine ischemica. Paradossalmente la CPA non aumenta che in misura modesta il debito coronarico (20%), ma questo deve essere interpretato in funzione della domanda metabolica miocardica che è ridotta durante la CPA. In totale, la bilancia energetica è migliorata dalla CPA. Lo scopo della CPA non è unicamente il miglioramento della performance cardiaca ma la preservazione delle possibilità di recupero del miocardio in corso di sofferenza ischemica. Essa merita d'essere considerata come una tecnica d'assistenza coronarica. La scelta del momento della sua messa in opera è molto importante. Spesso essa è intrapresa tardivamente, dopo l'insuccesso delle terapie farmacologiche. La CPA non deve essere la terapia di ultima scelta in caso di mancata risposta agli inotropi. L'esistenza di una tachicardia o d'una tachiaritmia superiore a 150 b.min-1 è uno dei limiti della metodica. La presenza d'una insufficienza aortica è una contro-indicazione formale alla sua utilizzazione. Da qualche anno, si insiste sul ruolo a volte misconosciuto del danno ventricolare destro nelle defaillance cardiache globali. La quantificazione della parte di responsabilità del ventricolo destro resta difficile e le possibilità di trattamenti specificamente attivi sul ventricolo destro restano limitati. Recentemente è stata utilizzata la CPA intrapolmonare (CPAP) [11]. Il suo meccanismo d'azione è più complesso della CPA perchè quest'ultima non permette di migliorare direttamente la perfusione coronarica. L'effetto emodinamico della CPAP è essenzialmente anterogrado, al contrario della CPA. La realizzazione di una CPAP necessita di una sternotomia, un'introduzione del pallone dopo clampaggio laterale e apertura dell'arteria polmonare senza circolazione extracorporea. La protesi è in seguito introdotta lateralmente. L'interesse reale di questa tecnica resta da valutare.

3.2 Assistenza circolatoria

Essa prende parzialmente in carico il lavoro cardiaco per gittate inferiori ai 4 l.min-1. Questo tipo d'assistenza, frequentemente utilizzata con le pompe della CEC, può essere realizzata con torace aperto o chiuso, con o senza ossigenatore, uni o biventricolare. Lo scopo della tecnica è d'assicurare un trasporto d'ossigeno adatto ai bisogni periferici e di permettere il recupero delle lesioni cardiache di tipo ischemico. Gli inconvenienti sono legati alla necessità di un'anticoagulazione importante e al carattere non pulsatorio della maggior parte di queste tecniche. Tali metodiche non permettono di superare assistenze maggiori di 48 ore. Le migliori indicazioni sono le defaillance cardiache dopo cardiochirurgia, durante le quali è spesso in causa una sofferenza ischemica della quale si pensa sia possibile un recupero rapido. In questi casi, un'intensa stimolazione dell'inotropismo con beta-agonisti si può rivelare dannoso.

3.3 Ventricoli artificiali

Questo tipo di metodiche sono in grado di garantire una gittata cardiaca sufficiente ai bisogni dell'organismo anche in assenza di ogni attività cardiaca. Si tratta innanzitutto di metodi d'assistenza circolatoria sistemica e di tecniche messe in opera negli scompensi cardiaci terminali, che sfuggono al trattamento medico. Il più spesso queste metodiche permettono l'attesa di un trapianto cardiaco. Esse non devono essere utilizzate che in assenza di sofferenza viscerale irreversibile e dopo avere scartato tutte le possibilità terapeutiche che includano farmaci inotropi, l'assistenza cardiaca con CPA e la ventilazione controllata meccanica. In queste condizioni, la decisione di ricorrere all'impianto di protesi ventricolari attendendo il trapianto è la sola soluzione per evitare un decesso ineluttabile a breve termine. Le controindicazioni sono quelle del trapianto cardiaco.

Abiomed (BVS 5000)
Questo sistema è capace d'assumere la totale presa in carico della gittata cardiaca. Il funzionamento automatico per gravità senza aspirazione è simile ai circuiti della CEC. Si tratta di una tecnica relativamente semplice da adottare. La sua gittata è dell'ordine di 80 ml per sistole, per via di un sistema di ventricoli eterotipici collegati ad una console elettronica. Può rappresentare una scelta di prima intenzione, una volta posta l'indicazione di un'assistenza circolatoria.

Pompe centrifughe ad effetto Vortex (Sams, Biomedicus)
Dopo incannulamento chirurgico, la gittata è assicurata da una turbina il cui funzionamento a flusso laminare determina una minore emolisi, facilitandone l'uso prolungato. Nel caso delle pompe a effetto Vortex, il moto della massa sanguigna avviene per viscosità, l'elemento motore essendo un disco che gira a 1500 giri/minuto all'avvio, con la possibilità di rallentarlo in seguito. L'incannulamento chirurgico può effettuarsi dopo approccio sternale, in assistenza destro-destro (atrio destro-arteria polmonare), sinistro-sinistro (atrio sinistro-aorta) o biventricolare (atrio destro-arteria polmonare/atrio sinistro-aorta). E' possibile anche un posizionamento per incannulamento femorale. Un'eparinizzazione classica controllata regolarmente è richiesta (100 U.Kg-1). Il vantaggio risiede nella realizzazione e nella sorveglianza facile oltre che ad un prezzo moderato. E' necessario una sostituzione del modulo ogni 48-72 ore.

Pompe di tipo CVS (Cardio Pulmonary Support)
La CPS rappresenta un'entità particolare nella misura in cui è riservata preferenzialmente, durante le angioplastiche coronariche a rischio, ai pazienti con angor instabile (classe III o IV) con alterazioni maggiori della funzione ventricolare sinistra (frazione d'eiezione inferiore al 25%). L'incannulamento vascolare s'effettua chirurgicamente e consiste nell'introdurre una cannula venosa per via femorale e nel collocarla alla giunzione vena cava inferiore-atrio destro. La cannula arteriosa è introdotta dall'arteria femorale omolaterale e posta a livello del terzo segmento dell'aorta. Il paziente, premedicato, rimane in ventilazione spontanea durante tutta la procedura. In precedenza si sarà effettuata una eparinizzazione di partenza (300 U.kg-1) controllata periodicamente. Un ossigenatore a fibre viene raccordato in serie, per conferire una certa sicurezza durante l'angioplastica. La gittata della pompa è dell'ordine di 3-3.5 l.min-1 anche in caso d'insufficienza cardiaca. Il flusso teorico calcolato è di 2.2-2.4 l.min-1; tuttavia il migliore criterio che permette d'apprezzare la perfusione tissutale è il controllo della SvO2 tramite catetere di Swan-Ganz a fibre ottiche posizionato precedentemente. Queste tecniche d'assistenza, nel quadro delle angioplastiche, non sono delle assistenze di lunga durata, ma è in corso una valutazione in alcuni centri per allargare il loro campo d'attività, per i vantaggi rappresentati dalla facilità di posizionamento delle cannule in anestesia locale, senza sternotomia e senza CEC, oltre che per i minori effetti negativi a carico degli elementi figurati del sangue. Le controindicazioni sono costituite dalle poliarteriopatie femorali severe.

Emopompe
Non sono dei veri e propri ventricoli artificiali ma sono capaci d'assicurare un assistenza parziale o totale della gittata cardiaca. Si tratta di pompe a flusso assiale [17] che, introdotte chirurgicamente per via arteriosa femorale, sono poste nel ventricolo sinistro, dopo aver attraversato la valvola aortica, o nell'aorta ascendente e collegate ad un sistema elettromeccanico esterno [12, 17, 48]. La tecnica permette di garantire un flusso ematico continuo, di tipo non pulsatile, anche in assenza di un'efficace meccanica cardiaca (cuore fibrillante). Nel caso di questa metodica, operante dal 1988, l'emolisi e il consumo piastrinico non sono importanti e non costituiscono fattori limitanti per un'eventuale assistenza prolungata. Un'anticoagulazione efficace è comunque necessaria e deve essere regolarmente controllata, per la presenza di corpi estranei intracavitari (TCA dell'ordine di 1.5-2 volte il controllo). Studi sperimentali nell'animale hanno mostrato che in confronto alla CPAP l'emopompa aumenta in maniera significativa lo svuotamento del ventricolo destro e la perfusione regionale a livello delle zone ischemiche. La gittata raggiunta non supera i 4 l.min-1 con 25000 giri.min-1 (il minimo è di 15000 giri) ed è correlata a due variabili: la resistenza al flusso, vale a dire il postcarico e la posizione della cannula d'entrata nella cavità del ventricolo sinistro. L'emopompa, inoltre, non richiede la sincronizzazione al ritmo cardiaco, cosa che permette l'uso efficace nelle aritmie severe. I primi risultati clinici [17] mostrano che nei pazienti in stato di shock grave si osserva un'aumento dei flussi regionali, l'abbassamento delle pressioni polmonari e un miglioramento dei tassi di sopravvivenza immediata in confronto alla CPAP. L'emopompa può essere utilizzata in assistenza sinistra isolata, per migliorare lo stato emodinamico dei pazienti in shock cardiogeno conseguente ad un infarto miocardico e nei quali può essere tentata un'angioplastica. L'emopompa può essere indicata nelle defaillance cardiache acute prima della chirurgia cardiaca convenzionale o del trapianto cardiaco. La durata
d'uso si estende da 26 a 113 ore nella serie di Frazier e coll. nel 1988 con una media di 66 ore [17]. I criteri d'esclusione sono le poliarteriopatie aorto-ilache severe, le gravi turbe dell'emostasi e la protesi valvolari aortiche.

Ventricoli eterotopici di Pierce-Donachy

Il ricorso a questi dispositivi rappresenta una escalation terapeutica tra i mezzi di trattamento dello shock cardiogeno, nella misura in cui l'armamentario tecnico utilizzato in questo caso è nettamente più gravoso dei i mezzi evocati precedentemente. I ventricoli sono posti in situazione paracorporea sulla parete addominale. Le connessioni possono essere realizzate senza CEC, ma è necessario un approccio a torace aperto. Questa pompa pulsatile può essere utilizzata in assistenza parziale o totale del ventricolo destro o sinistro o dei due, che è preferibile. In questo caso, i ventricoli sono asserviti l'uno all'altro [11, 16, 40]. I ventricoli sono collegati ad un sistema pneumatico regolabile, che genera alternativamente spinta e aspirazione, permettendo riempimento e svuotamento. Nel caso d'una assistenza uni-ventricolare, sinistra più spesso, l'incannulamento è di tipo atrio sinistro-aorta. Se si tratta d'una assistenza bi-ventricolare, l'incannulamento sarà di tipo atrio destro-arteria polmonare poi ventricolo sinistro-aorta o atrio sinistro-aorta. La gittata fornita (quella del ventricolo destro è generalmente inferiore a quella del sinistro) supera raramente i 5.5-6 l.min-1. A differenza delle tecniche d'assistenza precedenti, il cuore del paziente è arrestato. I parametri emodinamici del paziente sono forniti da un catetere di Swan-Ganz. Questa tecnica necessita d'una profonda eparinizzazione (400-800 UI/h) a causa di rischi maggiori d'accidenti tromboembolici. Sono possibili assistenze prolungate, fino a 42 giorni in alcuni casi. Gli inconvenienti in confronto al cuore ortotopico sono la perdita di carico per la presenza dello "spazio morto anatomico" rappresentato dalle cannule e l'attivazione dei fenomeni di coagulazione lungo le cannule e i ventricoli esterni. Le altre complicazioni sono di tipo infettivo, soprattutto se l'assistenza è di lunga durata, di tipo emorragico, a volte incontrollabili, o ancora neurologiche per incidenti embolici; infine sono state descritte delle insufficienze renali necessitanti un'emodialisi. La spesa economica di tali dispositivi è nettamente più elevata che le precedenti (circa 135 milioni di lire per il sistema pneumatico e 24 milioni per ogni ventricolo). Le contro-indicazioni formali sono rappresentate dagli stati settici a basse resistenze. I risultati sembrano soddisfacenti quando questa procedura, ponte verso il trapianto , conduce rapidamente al trapianto stesso.

Cuore artificiale ortotopico di tipo Jarvik 7
L'uso dello Jarvik 7 rappresenta attualmente il massimo livello in termini di complessità per quello che concerne l'assistenza circolatoria. Le prime utilizzazioni cliniche risalgono al 1985 in seguito all'autorizzazione della Food and Drug Administration (FDA) come dispositivi circolatori temporanei; esso rappresenta il risultato di numerosi anni di lavoro di Kolff, Olson e Jarvik in collaborazione con l'equipe chirurgica di De Vries [20]. Questa tecnica necessita l'espianto preventivo del cuore ammalato dopo sternotomia e una CEC, manovra questa considerata come un'inconveniente. Al contrario, la sutura degli atri con i ventricoli artificiali permette di limitare il materiale estraneo in contatto con il sangue e la perdita di carico. L'assistenza è obbligatoriamente bi-ventricolare, i due ventricoli essendo giustapposti solidarmente; il loro posizionamento nel mediastino si deve effettuare in modo ottimale senza angolature vascolari nè trazione sulle suture, considerato che queste non saranno più accessibili una volta che il dispositivo viene messo in opera. La voluminosa console pneumatica a regolazione elettronica al quale il cuore artificiale è collegato permette tutti gli adattamenti relativi alla modulazione del volume d'eiezione sistolico. Viene ottenuto una gittata dell'ordine di 5-7.5 l.min-1, essendo lo svuotamento ventricolare totale ad ogni sistole (esistono due modelli di ventricoli 70 e 100 ml). E' necessaria un'anticoagulazione, abitualmente con eparina endovenosa alla dose di 500 UI/h e dipiridamolo; viene introdotta quando il sanguinamento postoperatorio immediato comincia ad esaurirsi, generalmente verso l'ottava ora. Le dosi sono in seguito progressivamente aumentate per ottenere un TCK tra 2-2.5 il controllo. Un emolisi è possibile ma resta moderata, così come una trombocitopenia. Gli incidenti più gravi sono rappresentati dalle infezioni (Staphylococcus epidermidis e Candida Albicans) e dagli episodi tromboembolici. Il costo di questa tecnica è il più elevato tra quelle disponibili attualmente. Le contro-indicazioni teoriche sono costituite dagli stati settici a basse resistenze periferiche. Da notare che negli USA questo sistema è stato recentemente rimesso in causa dalla FDA.

4. TERAPIE RADICALI

4.1 Angioplastica coronarica transluminale (ACT)

Si tratta di una tecnica ben codificata che permette, con un intervento chirurgico poco aggressivo, d'effettuare dopo accesso femorale in anestesia locale un cateterismo selettivo del o dei vasi coronarici ostruiti con un catetere guida, e di restituire loro una permeabilità compatibile con una buona perfusione coronarica attraverso il gonfiaggio d'un catetere a palloncino. Quest'intervento si può effettuare in fase acuta, è possibile durante una coronarografia classica e può permettere una trombolisi in situ. Nei casi particolarmente acuti, l'angioplastica può essere effettuata sotto copertura di una CPIA [44] cioè d'una assistenza circolatoria (pompa centrifuga classica o pompa di tipo CPS).

4.2 Chirurgia convenzionale

Questa sarà funzione dello stato patologico del paziente. Il pontage coronarico in semi urgenza è possibile, al momento in cui la coronarografia abbia potuto essere praticata. Gli altri metodi terapeutici (inotropi, CPIA) devono permettere la realizzazione dell'intervento chirurgico nelle migliori condizioni. In caso d'insuccesso e/o di complicazioni dell'ACT, l'intervento può essere realizzato in urgenza. Una sostituzione valvolare in urgenza può essere la sola terapia efficace per la correzione d'uno shock cardiogeno in un contesto di disfunzione valvolare; è soprattutto il caso delle disinserzioni o delle trombosi sulle protesi.

4.3 Trapianto cardiaco

E' compreso nei criteri di selezione dei pazienti con grave insufficienza cardiaca per il peso della terapia, della sopravvivenza a lungo termine oltre dell'impegno finanziario che esso implica. Si può effettuare sia nei pazienti in cui si sia potuto ben equilibrare con un trattamento adeguato, sia nei pazienti già ospedalizzati in rianimazione, sia in coloro sottoposti ad assistenza circolatoria. In questo caso, tale tecnica detta di "ponte al trapianto" è gravata da una forte mortalità, per le difficoltà a reperire un organo compatibile nel breve tempo di cui si dispone, e per la morbidità estrema riscontrata nella tecnica per le complicazioni intercorrenti in questi pazienti in condizioni generali critiche.

5. INDICAZIONI TERAPEUTICHE

5.1 Cardiopatie ischemiche

Nelle cardiopatie ischemiche, la ricerca di una terapia radicale detiene la priorità anche in caso di shock cardiogeno iniziale. L'esistenza d'una defaillance circolatoria acuta non è una contro-indicazione al proseguimento degli esami a scopo diagnostico come la coronarografia. L'uso di inotropi, in particolare la dobutamina e l'impiego di vasopressori come l'adrenalina permettono di preservare la perfusione tissutale periferica e miocardica nella fase che precede un intervento radicale, che sarà secondo i casi sia un'angioplastica coronarica transluminale (ACT) con o senza trombolisi in situ, sia un by-pass coronarico in assenza di trombolisi per via generale effettuato precedentemente. In un contesto d'aggravamento dei segni elettrici o dei disturbi del ritmo e in presenza di dosi di inotropi elevate, la CPIA deve essere intrapresa precocemente e mantenuta durante e dopo la manovra realizzata, fino al recupero d'una stabilità emodinamica. In caso di lesione meccanica trattabile, tipo rottura o disfunzionamento del muscolo papillare mitralico, una manovra chirurgica a breve scadenza è necessario sotto copertura eventuale della CPIA associata o no agli inotropi. Esiste da molto tempo una controversia circa il momento dell'intervento in questo tipo di lesione. Alcuni sostengono un intervento semiritardato per permettere un gesto chirurgico più facile su dei tessuti in via di cicatrizzazione. La CPIA associata agli inotropi veniva intrapresa precocemente e proseguita fino all'intervento. Attualmente, sembra che, malgrado una pesante mortalità perioperatoria, gli interventi precoci, soprattutto in caso d'insufficienza circolatoria acuta, consentano i migliori risultati. In caso di distruzione importante della massa miocardica per la quale il trapianto cardiaco è la sola possibilità terapeutica, questo sarà realizzato sia in urgenza nella misura in cui viene trovato rapidamente un donatore compatibile, sia se lo shock cardiogeno è mal controllato dal trattamento medico dal ricorso ad un'assistenza circolatoria (mono o biventricolare) come ponte verso il trapianto. Alcuni stati dello shock cardiogeno durante infarto miocardico non possono beneficiare di alcuna terapia radicale. In questo caso, malgrado l'uso d'inotropi, di vasopressori e di CPIA, la mortalità è molto elevata (dell'ordine del 90%).

5.2 Miocardiopatie non ischemiche

Miocardiopatie croniche non ostruttive
Un'aggravamento dello scompenso cardiaco nei pazienti in attesa di trapianto cardiaco sarà trattato di solito con la dobutamina da sola [33] o associata alla dopamina e in caso d'insuccesso (persistenza dei segni clinici e d'una bassa gittata cardiaca) all'adrenalina. In questo contesto, l'associazione di IFDE ai b-mimetici può costituire un'alternativa ai mezzi meccanici. Come ultima spiaggia, se non esiste alcuna contro-indicazione al trapianto cardiaco può essere intrapresa l'assistenza circolatoria.

Miocardiopatie valvolari
Un'insufficienza cardiaca acuta per comparsa brutale d'una lesione valvolare può richiedere una sostituzione valvolare in urgenza; si tratta il più frequentemente di una endocardite infettiva su una protesi. Si può trattare anche di una insufficienza mitralica acuta per perforazione della valvola. In questo caso, i vasodilatatori sembrano indicati di preferenza sugli inotropi, se lo stato emodinamico lo permette, allo scopo di ridurre il reflusso e il postcarico ventricolare sinistro. In pratica, l'aggiunta di dobutamina o di IFDE è spesso necessaria per la loro azione vasodilatatrice e inotropa.

Embolia polmonare grave
In attesa d'una embolectomia, l'utilizzazione di un inotropo è sempre necessaria: verrà utilizzata in ragione della sua azione vascolare polmonare. Il ricorso all'adrenalina o alla noradrenalina in caso di disfunzione ventricolare destra (VD), in associazione o no all'isoprenalina, è stato ugualmente preconizzata perchè queste amine ridurrebbero la pressione telediastolica del VD quando il postcarico è aumentato, per un'effetto benefico sulla pressione arteriosa sistemica e la perfusione dell'arteria coronarica destra e del VD.

Tamponamento cardiaco
Nell'attesa di una decompressione, è importante aumentare al massimo il ritorno venoso con un'espansione volemica, qualunque sia il volume di riempimento. L'adrenalina per i suoi effetti inotropi e vasopressori trova in questo caso un'indicazione privilegiata.

5.3 Insufficienza cardiaca dopo cardiochirurgia

Dopo un'intervento di cardiochirurgia (dalla 4 alla 48esima ora) si può sviluppare una sindrome detta di bassa gittata post CEC di gravità variabile ma che, se mal o non trattata, può evolvere verso uno shock cardiogeno. La sua principale caratteristica è la reversibilità con un trattamento precoce e adatto. Può osservarsi dopo chirurgia valvolare (mitrale o più raramente aortica) o coronarica praticata in un contesto d'alterazioni preoperatorie della funzione cardiaca, o in caso d'ischemia miocardica perioperatoria in rapporto ad una mancanza di protezione miocardica o alla migrazione d'emboli gassosi o calcarei. Una disfunzione ventricolare destra può essere responsabile della defaillance cardiaca. Si osserva essenzialmente nella terapia delle cardiopatie congenite per shunt sinistro-destro con ipertensione dell'arteria polmonare (comunicazione interventricolare, canale atrioventricolare comune), dopo correzione della tetralogia di Fallot con ostacolo residuo sulla via polmonare o infine dopo by-pass coronarico per il sopraggiungere di una necrosi del ventricolo destro. Le basi del trattamento sono ben conosciute e relativamente stereotipate [14, 15, 18]. La prima misura è di ottimizzare le condizioni di carico. L'espansione volemica permette la normalizzazione del precarico. L'uso dei vasodilatatori permette di ridurre il postcarico nelle rare condizioni di bassa gittata a PA e resistenze vascolari elevate. L'utilizzazione d'inotropi resta tuttavia spesso necessaria; la dobutamina resta il prodotto più impiegato per la sua maneggevolezza e tolleranza. Alcuni studi hanno potuto dimostrare che gli IFDE potevano essere almeno tanto efficaci quanto i beta-mimetici [22, 24]. In alcuni casi, l'adrenalina determina una migliore risposta in termini di gittata e di pressione che la dobutamina e gli IFDE. In caso di cattiva risposta agli agenti inotropi o durante la comparsa o l'aggravamento di segni di sofferenza ischemica, l'assistenza circolatoria permette di controllare le capacità di recupero del miocardio nel giro di qualche ora d'assistenza. In questo caso, la CPIA permette di proseguire l'assistenza coronarica. In caso di defaillance cardiaca resistente alle terapie abituali, su un miocardio precedentemente poco alterato, un'assistenza circolatoria prolungata tramite un ventricolo artificiale di tipo Sarn, Biomedicus o emopompa può essere seguita da un recupero totale o parziale della funzione cardiaca.

In altri casi, le gravi turbe della conduzione atrioventricolari sono spesso associate ad un'ipotensione e a uno shock cardiogeno, soprattutto dopo correzione delle cardiopatie congenite complesse del lattante e, nelle cardiopatie ischemiche, il ricorso ad un stimolatore elettrosistolico, se possibile sequenziale, è indispensabile. L'esistenza di una causa meccanica di bassa gittata cardiaca per malfunzionammento o trombosi della protesi, per cattiva correzione di uno shunt o di un'ostacolo (specialmente dopo chirurgia della tetralogia di Fallot o del ventricolo destro a doppio infundibolo della polmonare) farà prevedere un reintervento, parallelamente all'adozione di un trattamento inotropo.

Conclusioni

Per la maggior parte dei pazienti che entrano in ospedale con un'insufficienza cardiaca acuta o uno stato di shock cardiogeno, le terapie farmacologiche o i mezzi attuali d'assistenza circolatoria devono essere avviati precocemente per migliorare e stabilizzare lo stato del paziente, per permettere un bilancio clinico ed eziologico il più preciso possibile. L'esplorazione emodinamica, angiografica ed ecocardiografica deve permettere di valutare la possibilità di un trattamento radicale anche allo stadio dello shock cardiogeno. Dei rapporti preliminari sembrano dimostrare che con una selezione corretta dei pazienti e grazie al trattamento sintomatico precoce, l'angioplastica o la chirurgia permettono di migliorare la sopravvivenza dei pazienti in defaillance cardiaca acuta. E' importante sottolineare che l'intensità della terapia e la qualità del monitoraggio devono essere mantenuti dall'ammissione del malato alla fase d'esplorazione fino alla terapia radicale. I progressi importanti realizzati in questi ultimi anni hanno permesso di ridurre la mortalità immediata dello shock cardiogeno dal 90% al 60% ma queste cifre pur incoraggianti che siano mostrano con evidenza che il problema è lontano dall'essere risolto.


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Informazioni sulla rivista

ESIA-Italia
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La rivista pubblica rewiews e lavori originali compiuti nei campi dell'anestesia e della medicina critica. I lavori originali riguardano ricerche cliniche, di laboratorio e la presentazione di casi clinici. Le reviews includono argomenti per l'Educazione Medica Continua (EMC), articoli di revisione generale o riguardanti le attrezzature tecniche. ESIA pubblica le lettere all'Editore contenenti commenti su articoli precedentemente publicati ed anche brevi comunicazioni. La guida per gli autori può essere consultata collegandosi al sito ANESTIT all'indirizzo: http://anestit.unipa.it/ utilizzando la sezione riservata ad ESIA-Italia; oppure può essere richiesta inviando un messaggio a lanza@unipa.it EDUCATIONAL SYNOPSES IN ANESTHESIOLOGY and CRITICAL CARE MEDICINE Sezione Italiana
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